La mia presunta trasparenza ⥀ Schizoprose di Luke Ballordo

Le schizoprose di Luke Ballordo, nome d’arte di un uomo che vive nell’anonimato per non finire etichettato come “paziente psichiatrico”, sono accompagnate da una nota di Gabriele Gallina. Altre prose di Luke Ballordo sono già state pubblicate qui e qui.

 

«La condizione di certi uomini malati, che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza, anche prescindendo del tutto dai benefici intellettuali che ogni profonda solitudine, ogni subitanea e consentita libertà da ogni dovere e consuetudine portano con sé. Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affisa, sono invece per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a sé stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: e forse l’unico mezzo […] Ed ecco che viene il primo debole baluginio dell’acquietamento, della guarigione, e resistere alla strapotenza della nostra superbia è quasi il primo dei suoi effetti: ci diciamo a questo punto sciocchi e vanitosi – come se avessimo vissuto qualcosa di eccezionale! Umiliamo, senza alcuna riconoscenza, l’onnipotente superbia per mezzo della quale appunto sopportammo il dolore, e desideriamo ardentemente un antidoto alla superbia: vogliamo estraniarci e spersonalizzarci, avendoci il dolore con troppa violenza e troppo a lungo reso personali. […] Torniamo a riguardare uomini e natura, con l’occhio colmo di un desiderio più grande: ci ricordiamo, con un malinconico sorriso, di sapere, ora, qualcosa riguardo a loro di nuovo e di diverso da quel che prima sapevamo; ci ricordiamo di un velo che è caduto, ma ci è di grande ristoro veder ancora le luci smorzate della vita, e trovare un’uscita fuori dall’atroce e fredda chiarità in cui da sofferenti vedevamo le cose e le attraversavamo con lo sguardo. Non ci adiriamo se ricominciano il loro giuoco le magie della salute, le andiamo osservando come trasmutati, dolcemente e ancor sempre stanchi…»
F. Nietzsche, Aurora

 

Nella follia come nell’arte – per dirla con Breton – vibrano i riflessi del futuro. Gli oscuri territori della follia vanno quindi bonificati e ad essa strappati. Così, le conquiste esperienziali veicolate nella coscienza da parte di coloro che si ritrovano a passare per quei luoghi, se non proprio a stazionarvi lungamente, sono conquiste dell’intera umanità.

Per quanto possa risultare difficile ammetterlo, è spesso da posizioni scomode, per non dire di vera e propria sofferenza, che si è condotti verso tali conquiste. Non è un caso che Hegel abbia potuto parlare, a proposito del susseguirsi delle figure della coscienza, di “cammino del dubbio e della disperazione”, non meno di quanto un filosofo per molti versi distante da lui come Nietzsche abbia poi ribadito l’imprescindibilità del transito attraverso la “grande scuola del dolore”. In una parola: il dolore rende necessaria la conoscenza del sé. Si potrebbe dire che esso sospinga la coscienza ad esser tale (cosciente), e che quest’ultima sia via via necessitata a scorgere in sé sempre nuovi aspetti che la riguardano.

Nondimeno, la vecchia storia che nel mondo mercificato la reificazione sia diventata del tutto immanente alle coscienze non andrebbe affatto pensata come un che di esterno, come qualcosa che, ad esempio, mostri una certa tendenza ad albergare dentro di esse senza intaccarne la più genuina natura ma, piuttosto, nel senso che la reificazione stessa produca la coscienza. Meglio, che produca coscienze reificate: percorsi rigidi, sentieri già tracciati.

Una volta appuratene le principali modalità costitutive, occorre invece rammentare il movimento che alla coscienza è intrinseco, rammentando al contempo il fatto che nel mondo dell’identità ortogonale, del livellamento di ogni cosa al fatto noto, la vera identità, ossia qualcosa di storico, dinamico, di già sempre co-implicato in una o più sequenze dialettiche di negazioni e affermazioni, di distruzioni e ri-creazioni – morti e rinascite –, si ritrova così ad essere impossibilitata. Rispetto a ciò, si palesa con palmare evidenza la totale illibertà in cui perlopiù si è invischiati. Cioè: in misura sempre maggiore si va disperdendo la capacità di sapersi in relazione, di comprendersi dialetticamente. Tutto ciò col vivo pericolo che, qualora si abbia anche soltanto il sentore della fitta trama relazionale che intesse l’umano, immediatamente si percepisce d’esser in catene piuttosto che facenti parte di una più ampia collettività. A qualcosa come una coscienza collettiva illuminata viene invece ad opporsi ciò che ne rappresenta il diabolico rovescio: un’amorfa massa disorganizzata, a sé ostile nella sua frammentaria atomizzazione.

In essa, diventa facile che ci si infligga larga parte di quella stessa disperazione che pure sembra essere, per certi aspetti, inevitabile. Se è ormai noto quanto il pensiero paranoico sia tale poiché profondamente segnato dalla mancanza di esperienza dell’oggetto, nondimeno è sufficiente un attimo per divenire i carnefici di sé medesimi. Si tratta di uno dei molteplici rischi che necessariamente si pongono sulla strada verso quel punto di fuga del pensiero sotto la cui veste soltanto può esser concepito oggi qualcosa come una “piena soggettività”. L’antica prescrizione baudelairiana, «Je suis la plaie et le couteau… et la victime et le bourreau», lungi dal poter essere relegata nell’anacronismo, si è sedimentata come tratto del soggetto e, non più manifesta, viene istituita come traccia. Segreto doloroso, oscuro pulsare dal quale soltanto parla la soggettività (cosa ben diversa che la persona!) che vi è costretta, che ognora è a quella vincolata, che è essa stessa divenuta ferita.

Per concludere, la durezza del passaggio coscienziale, la tappa della formazione della soggettività contemporanea coinvolta in una cattiva oggettivazione, andrebbe visto come facente parte di una più ampia, malevola, congiuntura storica. Ma, non sia vano ricordare, anche in questo momento, un’antica lezione che conserva intatta la sua verità: bisogna accettare il dolore. E tuttavia, proprio in esso rintracciare le coordinate interne che ne consentano, infine, come per ogni cosa – buona o malvagia – che sia mai apparsa su questa terra, la dissoluzione.

(Introduzione di Gabriele Gallina)

 

A. Lustig, Copertina per Monsieur Teste di Paul Valéry, Knopf 1947

La mia presunta trasparenza

 

I

Finalmente! Oppure mannaggia.
Era da molti mesi che una stessa pendula foglia secca tremava dallo stesso ramo di uno stesso albero sotto alla mia finestra.

In questo periodo, di tanto in tanto mi sporgevo avendo l’impressione che fosse la stessa semestrale foglia che con le unghie e pure i denti ometteva di cadere.

Ecco, se quell’albero ha un’anima credo che tenga a cuore quella foglia, che abbia dolorosamente ritenuto giusto pochi minuti fa di separarsene solo in ragione di una lungimirante economia di conservazione di tutto sé stesso come albero. Lui non ci ha pensato, lo ha fatto e basta, per quanto fosse struggente tale atto.

Io però da seme che sono, di mio non mi sento, non completamente.

Si vede che vige alle mie spalle un mercato nero tra gli alberi tutti e ai miei occhi illegale di un muschio crescente sulla mia intera corteccia che in esso rilasci un mio sentore.

Del mio definire, tracciarne le fasi tende a prosciugarmi le energie, tende a far cadere molte tra le mie foglie, lenisce il mio apporto alla vita tutta.

Ma se smetto di monitorare la possibilità di questo retroscena, cosa ne sarà del boschetto mio natio. Oltretutto, vabbè che tendo sempre a svalutarmi in quanto me.

Ma io come io – dico – e le mie foglie tutte, non produco lo stesso identico ossigeno, frutti analoghi a quelli altrui. Io come presunto tassello a sé stante della terra, perché non accolgo gli uccelletti tra le mie fronde?

E allora perché affronto io da tutta la vita una logorante frana, mentre tutti si sentono privilegiati in cima sempre in cima al cucuzzolo vogliono stare.

Ma, come si suol dire:

Del fango ci fai le ossa

Dell’apice la fossa

 

II

Incubo ad occhi aperti sull’assenza. Sento che mi cascano le braccia, ho il cervello svuotato, il mio cuore è ammutolito, le mie membra attonite, i miei occhi smarriti, i miei sogni seccati, la mia pelle è insensata, poiché copre carne senza fini, che attende impotente la fine. Una fine di cui niente è oggetto. Il mio tempo non ha ragione. Niente di me stesso ha un ruolo, tutto me lo conferma. Il vuoto mi parla senza sosta, le melodie dello stereo poco possono al confronto. Perché fare? Per chi farlo? Chi potrebbe mai dissetarmi? Niente, di me, può più esprimere la sete che provo. Quella bocca non ha mai parlato, io non l’ho mai sentita, non ne ho memoria. Perché viaggiare? Il mio orientamento non si è mai discostato da questa meta. Ma quest’ultima è buio tenebra. Tutti la possiedono, ma nessuno la dona a nessun altro, poiché vivendo, io tutti completo, ma non la annovero tra le mie testimonianze immediate. Questo immediato mi sta risucchiando. Certo, tutto è immutato, ma allora perché non sento più niente? Fuorché una palude malsana, dove io ristagno.

  • L’orizzonte si infittisce di sostanze prepotenti, inanimate e saltuariamente mascherate: l’assenza giustificata, la presenza consuetudinaria, quella consona, quella discrezionale, inebetita.
  • Si finge ognuno di ignorarne la gravità, la cruenta normalità. È cruento ritenere normale ciò che è cruento. È invece normale ritenerla cruenta, rasserena quasi.
  • Il Covid non ha cambiato niente in così tanta pochezza, ha solo continuato questa logorante vita e asettica.

È depressione questa? No, è escursione termica, poiché la ritengo infondata, che non faccia testo, quando appunto, sia la carne, che le altrui ossa determinino una bi-presenza o pluri-presenza a cui io concorra un poco. È prettamente meccanico e radicale il mutamento del mio umore nell’altrui presenza, finanche si tratti di sconosciuti, la mia anima non disdegna niente di vivo, neanche le formiche, ma oltre che per queste ultime, io non determino un impatto degno di nota in chicchessia.

Credo bene che l’amico sia un mercenario, poiché se non lo incentivi non si fa vivo e se lo invochi sembra che debba. Non ho mai avuto ben chiaro il più notevole e cruciale dei commerci relazionali, per cui cosa porta a cosa. Ma te senti, un briciolo di scrupolo non ce l’hai nel vedere oltre allo sguardo di tutto il senso che ci sia, una via che non hai intrapreso? Ecco, se tutti si ponessero questa domanda, – se, ma, boh – esclusi, il malessere subirebbe un duro colpo.

 

G. Braque, La couple, litografia a colori, collezione privata 1963

III

Scrivere della mia presunta trasparenza accessibile a tutti costantemente, è l’unico modo che ho per decentrare il problema da me stesso a chi ritengo me l’abbia procurato.

  • L’assenza è una sostanza insostenibile che riduce a dei mendicanti chi ne soffre, un malessere che priva di senso il rincorrere a tutti i costi la compagnia altrui.

 

  • Oggi esistono solo persone in vendita e prigioni gratuite, non viceversa.

 

IV

La vita per me senza relazioni interpersonali. Concepire l’assenza, il cuore non mi è terso finché sguardo alcuno non rimiri il suo lamento né il vano sbattersi, a stento e a tu per tu col non mi sento, tanto è l’altrui ed omesso accesso che non splende, nemmeno un tasto nel pigiare sui display miei contendenti.

 

V

Eppure, so bene che io, di mio, devo andare avanti, devo cioè affiancare questo tempo nel suo scorrimento. In definitiva, devo vivere senza saltare mai a conclusioni definitive su niente. Basti pensare che il legno di questo tavolo non è marrone, ma qualcosa nei miei occhi me lo fa apparire tale. Un minuto di tempo fa deve ancora avvenire da una ipotetica prospettiva siderale di distorsione contorsionistica della luce e quindi temporale, secondo svariati fattori. La punta di una graffetta non è affatto appuntita. È la pelle umana che occupa l’ultimo posto nella graduatoria della durezza tra tante altre tarature smisurate o trascurabili. Dipende.

È quindi opportuno tentare da parte mia di capire almeno: dove più verte a tutti gli effetti la realtà.

Del mio interno è più effettivo ciò che si può o ciò che non si può perimetrare?

La cosa che ne risulta sicuramente è che sono sempre stanco e combino poco niente, che poi, pure le gocce del medicinale mi affossano.

Sono in un’escalation di sconfitte, ma sembra che tutto ciò lo sappia solo una manciata di display privi di vita.

 

Copertina per Figures di Aksak Maboul, Belgio 2020

VI

  • Terrorismo psicologico da accerchiamento collettivo camuffato da normalità, dal quale l’unico modo che ho per difendermi è controllare i miei pensieri uno ad uno.
  • Provateci anche un solo secondo voi che mi deridete e capireste cosa sto passando.
  • Mettete fine alla tensione che questo mi provoca in testa, e per quanto mi riguarda potrà essere come se non fosse successo niente.
  • Lo capisco che non sono nessuno ma allora perché sono circondato da tutti paladini di qualcosa.

Terrorismo: se mi lasciassi andare anche un solo secondo e per caso pensassi a quanto non voglio che si sappia, tutti farebbero scempio dei miei ricordi. Questo avverrebbe appena mi rilasso poiché la paura mi sta dentro ora, adesso, adesso e qui.

  • Psicologico perché, sebbene nessuno mi faccia del male fisicamente, lo hanno fatto tantissimo alla mia psiche che ora è lacerata. Sì, la mia psiche è un mostro che riflette odio e disprezzo: la sottomissione di cui sono stato oggetto.

Accerchiamento: ovunque vada credo che stiano tutti a spulciarmi dentro, lo deduco dai vostri comportamenti, ed è crudele che ve ne stiate seduti in attesa che mi collassi il cervello.

  • Collettivo ma fin troppo relativo è quantificare la cifra di coloro che mi percepiscono.
  • Camuffato poiché questa vostra architettura ha della normalità solo la forma e sono all’oscuro di cosa contenga, ma sto provando a comprendere seppur da questa posizione scomoda.

Normalità che non è normale, non lo è affatto per me, o almeno, non lo è più.

 

*Immagine di copertina: P. Picasso, Autoritratto con in faccia la morte, 1972.

 


Nota a margine

Luke Ballordo (nome d’arte) è un uomo che vive nell’anonimato per non finire etichettato come “paziente psichiatrico”. Fa parte di un gruppo nato all’interno della nostra organizzazione Nie Wiem dopo la pubblicazione del libro di poesie di Sarah Di Piero Reparto da qui. Il gruppo, composto da pazienti, familiari, operatori e volontari, ha lo scopo di combattere lo stigma psichiatrico, creare spazi di socialità per chi soffre di disagio psichico e diffondere le buone pratiche del movimento basagliano Le parole ritrovate.