La natura nel lockdown antropocenico ⥀ “The moment” di Margaret Atwood
I versi della Atwood riecheggiano nell’attualità che stiamo vivendo: ci ricorda che l’uomo, autoproclamatosi proprietario all’interno di un sistema che ha creato per sé, nel primigenio scenario naturale resterà unicamente un inquilino dalla presenza temporalmente circoscritta.
L’infodemia delle ultime settimane ha definito una chiara iconografia della cronaca ai tempi del coronavirus. Sul web e in tv spopolano immagini delle corsie sovraffollate degli ospedali, delle file chilometriche fuori dai supermercati, delle città svuotate. Meste sfilate di feretri e la preoccupazione del personale medico, esausto, ci mettono dinanzi a un dolore che non mancherà di lasciar traccia.
All’estremo margine di questa iconografia della disperazione, però, trova anche spazio una piccola e inedita narrativa del positivo: le acque dei canali di Venezia sono limpide come non lo erano da decenni, dei delfini sono stati avvistati nelle acque venete e nel porto di Cagliari, delle anatre sono state sorprese a sguazzare nella fontana di Trevi, svuotata delle monete dei turisti. In netto contrasto con l’attuale esperienza dell’uomo, costretto a restare in casa per fronteggiare l’epidemia, vi è l’esperienza della natura, che pare risorgere sul corpo di un paese ammalato. Lo stesso momento che vede l’uomo dibattersi tra costrizioni, angoscia e malattia, vede la natura agire libera e rinascere.
La natura si sta riprendendo. Si sta riprendendo dall’impatto antropologico sulla biodiversità, dalla distruzione di interi ecosistemi e dallo sfruttamento sfrenato delle risorse che ci offre, e soprattutto si sta riprendendo i propri spazi e il proprio tempo. Nella sua nuova quotidianità, dilatata e domestica, l’uomo guarda a questa ripresa con stupore, talvolta leggendovi una metafora della resilienza, una retorica della bellezza che viene offerta all’umanità intera a fronte di questi tempi difficili. In una prospettiva più critica, tuttavia, lo stupore inevitabilmente lascia spazio a un’amara consapevolezza: che la natura non solo vive anche senza di noi, ma che senza noi viva anche meglio. A questa rivendicazione, l’uomo non può permettersi di assistere solo con gli occhi della meraviglia: la natura che rivendica il proprio spazio è uno spettacolo di bellezza che ha anche il sapore del monito.
Il rapporto tra l’essere umano e il mondo che abita attraversa da sempre la storia della narrativa, della letteratura, della poesia. Tuttavia, a fronte degli ultimi eventi, non possono non tornare alla mente le parole di Margaret Atwood in The Moment, che in questo preciso momento suonano quasi profetiche:
The moment when, after many years / of hard work and a long voyage / you stand in the centre of your room, / house, half-acre, square mile, island, country, / knowing at last how you got there,and say, I own this,
is the same moment when the trees unloose / their soft arms from around you, / the birds take back their language, / the cliffs fissure and collapse, / the air moves back from you like a wave / and you can’t breathe.
L’hard work dell’epoca del tardo-capitalismo globalizzato, i long voyages dei voli intercontinentali e quelli, più brevi, delle linee internazionali low cost ci vedono, dopo tanti anni, costretti a star fermi al centro delle nostre stanze, case, villette. Quel mondo che avevamo a portata di mano all’improvviso non lo è più, e nello stesso momento in cui l’umano è prigioniero del proprio spazio domestico, la natura mette in atto la forza della propria rivendicazione.
Come nella vita di questi giorni, nelle parole della Atwood all’idea di movimento si oppone, ex abrupto, un atto di immobilità. Da room a country, l’autrice enumera diverse definizioni spaziali in una climax ascendente per grandezza e distanza. Alla maniera di una carrellata cinematografica che segue un asse verticale, il suo sguardo si muove dall’intimità di una stanza alle complesse implicazioni geopolitiche che la nozione di Paese porta con sé. È lo stesso sguardo, ampio, panoramico e indagatore, del drone che ci segue dall’alto, che si muove indisturbato nello stesso raggio di movimento che, fino a due settimane fa, ci era permesso e che per noi non conosceva confini.
Dopo decenni di viaggi ininterrotti, l’uomo si ritrova ostaggio delle mura della propria abitazione. Ora e qui, nella ristrettezza di questo spazio, l’uomo è costretto a interrogarsi sulla propria posizione nel mondo, sulla propria funzione nella società globalizzata e sul ruolo che riveste in rapporto alla natura. Lo spazio che occupiamo sulla terra è sempre stato un luogo che abbiamo sentito di definire come nostro e di cui ci siamo arrogati la proprietà. In questo momento la natura non può che ricordarcelo: non lo siamo mai stati.
Il contesto attuale ci mette a confronto con una forza generatrice che abbiamo spesso dato per scontata, spostando il dialogo tra umano e artificiale ad un discorso che non può non tener conto del naturale. Questo slittamento di discorso è evidente anche nei versi della Atwood, in cui l’enumerazione di spazialità artificialmente definite contenuta nella prima strofa entra in contrasto con una serie di entità naturali: alberi, uccelli, scogliere, aria. La stessa natura classicamente concepita come idilliaca e materna, luogo di quiete e nascondiglio dalla frenesia della città, dall’antico filone teocriteo alla più moderna Arcadia, in questa poesia perde ogni forma di idealizzazione. L’autrice mette in versi una potenza catastrofica e opprimente, ben lontana dall’incanto dei cigni a Venezia, ma che suggerisce la potenziale forza distruttrice di essa, mostrando il carattere antinomico del sublime dinamico kantiano. Quella della Atwood è una natura che all’improvviso si fa matrigna e induce all’impotenza attraverso una serie di atti progressivamente crescenti in distacco e nocività: una figura personificata, una volta capace di caldi abbracci ma che mostra all’improvviso le sue capacità rovinose.
Finalmente libera di agire in spazi che non conoscono più intrusione umana, in The moment la natura – nonché la sua essenza di piacevole circostanza ambientale, la sua eterna e costante dedizione alla sopravvivenza umana, la sua propensione ad essere definita – si sovverte nell’esatto momento in cui l’uomo si autodichiara come suo proprietario. La relazione tra essa e l’individuo/proprietario è definita da una distanza disastrosa. Gli elementi naturali parlano, ammoniscono:
No, they whisper. You own nothing. / You were a visitor, time after time / climbing the hill, planting the flag, proclaiming. / We never belonged to you. / You never found us. / It was always the other way round.
La natura della Atwood sussurra. È una natura capace di parlare – non più solo di essere parlata. Finalmente abile di interloquire ed ammonire, essa prende parola nei confronti dell’auto-dichiarato proprietario-interlocutore, mettendo in discussione il suo ruolo e definendolo come nulla più che un visitor. L’uomo, che si è sentito legittimato a proclamarsi proprietario all’interno di un sistema che ha creato per sé, nel primigenio scenario naturale resterà unicamente un inquilino dalla presenza temporalmente circoscritta.

L’interlocutore, lo you dei versi atwoodiani – che si tratti degli individui più potenti o dell’umanità intera – ha avocato a sé la proprietà della terra, attraverso una serie di atti di appropriazione spaziale.
In quanto l’uomo ha definito il suo ruolo di sovrano illegittimo del mondo, non solo i suoi atti sono spazialmente connotati, bensì sono anche espressi sotto forma di rivendicazioni di possesso di un luogo: ergersi dalla cima di una collina dopo averla scalata, penetrare la terra piantando una bandiera sul suolo. Azioni come queste fungono da sineddoche per tutti i diversi atti di presa di possesso dello spazio naturale perpetrati nel corso della storia, da parte degli individui che se ne sono autoproclamati detentori.
Le relazioni spaziali in The Moment di Margaret Atwood riflettono l’attuale, sostanziale opposizione tra la fissità a cui l’essere umano è obbligato e il movimento a cui è sempre stato abituato. La stessa libertà di movimento, di cui ha abusato appropriandosi della natura, gli viene ora negata, ed è questa negazione che permette alla natura di manifestarsi pienamente ai suoi occhi oggi. La posizione dell’uomo nel mondo –connotata sia dal punto di vista spaziale che gerarchico- è ora sovvertita dalla natura stessa, la quale, svelando tutto il sublime di cui è capace, ammonisce: su questa terra saremo sempre e solo di passaggio.

Vittoria Rubini
Classe 1995, vive a Bologna, dove studia Letterature moderne, comparate e postcoloniali. Ha studiato anche a Trieste, Berlino e in Estonia, dove è stata teaching assistant per il corso di cinema e letteratura italiana presso l’Università di Tartu e guest lecturer presso l’Università di Tallinn. Ha partecipato come membro di giuria di diversi festival di cinema (tra cui Alice nella Città e Bif&st). Si interessa di narratologia, transmedialità, cultural studies ed interdisciplinarietà.
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