La poesia che si vede ⥀ Dialogo sulla videopoesia

La trascrizione del dialogo sulla videopoesia, tra il critico letterario Andrea Cortellessa e il poeta Luigi Socci, avvenuto nel 2007, alla Punta della Lingua (Ancona)

 

Cos’è la videopoesia? In vista dell’edizione 2020 di DoctorClip, il primo festival italiano di “videoclip di poesia”1, in programma per martedì 15 dicembre nei canali web di Argo (qui e qui), torniamo a esplorare2 questo genere ibrido, andando alle origini della sua diffusione in Italia. Due anni dopo la nascita di DoctorClip, il critico letterario Andrea Cortellessa e il poeta Luigi Socci presentarono ad Ancona una loro selezione delle videopoesie del festival romano. La trascrizione del dialogo, videoregistrato nel 2007, è stata curata da Martina Bonci e rivista dagli autori. La prossima esplorazione del territorio videopoetico sarà a cura di Luigi Cinque, ideatore di DoctorClip. (Valerio Cuccaroni)

 

La poesia che si vede

ANCONA – Siamo all’Hangar Cult Lab, giovedì 11 ottobre 2007. Durante la seconda edizione del nostro poesia festival La Punta della Lingua, è in programma “La poesia che si vede”. Senza definizione sul vocabolario della lingua italiana, Andrea Cortellessa e Luigi Socci tentano di dare un’idea di che cosa sia questo nuovo genere letterario. Non è poesia recitata, né video e performance, la videopoesia tocca tutte queste arti, ma le supera, definendo una nuova grammatica sperimentale, specifica del genere, e tracciando, nel suo farsi, i propri confini. Radici che affondano nel lontanissimo calligramma e nel più recente videoclip musicale danno vita ad un genere completamente inedito che fonde elementi della letteratura alta, con quelli della cultura pop.

Luigi Socci: Poche parole, poi lascerò il microfono ad Andrea che abbiamo fatto venire da Roma e che ringrazio doppiamente. Primo perché ha accettato il nostro invito e in secondo luogo perché senza di lui non saremmo riusciti a mettere insieme l’oretta scarsa di questa cosa strana che è stata definita “videopoesia”. Se siete così numerosi questa sera è perché evidentemente vi abbiamo incuriosito. Avrete letto di questa fantomatica videopoesia e vi sarete domandati “Ma di che cosa si tratterà?”.
Contrariamente a quanto consigliava la mia professoressa del liceo, perché lo riteneva un escamotage piuttosto banale per iniziare un tema, inizierei proprio, invece, dalla definizione che di videopoesia dà il vocabolario della lingua italiana. Ebbene vi informo che, dopo aver consultato sia il Devoto Oli che lo Zanichelli, ho verificato che entrambi danno la stessa definizione di videopoesia cioè nessuna. Non esiste come parola per definire una cosa che non esiste, o almeno che non esisteva, perché è una cosa che in Italia è stata introdotta, credo, dal Festival Romapoesia solo un paio d’anni fa. Poi Andrea magari ci dirà se queste cose che sto dicendo sono delle corbellerie assolute oppure se c’è un fondo di verità però, effettivamente, come potrete vedere dalla selezione che abbiamo preparato per questa sera, si tratta di una parola composta che può assumere significati molto differenti. La poesia in generale è l’arte che più di ogni altra è suscettibile di altissima partecipazione democratica, pure troppo. Nel senso che carta e penna non si negano a nessuno. Al limite, prima della scolarizzazione di massa, si poteva negare la conoscenza dell’alfabeto ma, a livello puramente strumentale, carta e penna per scrivere, bene o male, sono mezzi estremamente diffusi. Questo naturalmente incide negativamente sulla qualità media di quanto prodotto in modo inversamente proporzionale alla quantità degli scriventi. Quel che è vero per la carta e la penna nel Novecento può essere vero, oggi, un po’ per le tecnologie. Oggi tutto sommato a basso costo. Non dico che tutti si possano permettere di spendere 500 o 2000 euro per avere una videocamera digitale in casa, però comincia a essere un elettrodomestico abbastanza diffuso, almeno nell’occidente industrializzato. È molto probabile, quindi, che, all’aumentare del numero di videocamere in mano alle persone, aumenterà anche, mediamente, il grado di incoscienza e di inconsapevolezza di chi le userà per esprimersi, visto che prima questi dispositivi erano appannaggio esclusivo di specialisti e professionisti. Le opere che abbiamo dovuto visionare per sceglierne una quindicina erano molte di più, molte decine, e vi assicuriamo che ne abbiamo scartate di veramente orrende. Alcune erano naïf, altre stupidissime, perché? Quali erano gli errori? Non che queste siano tutte dei capolavori, però siamo d’accordo nel pensare che sia una possibile direzione di ricerca, una possibile strada da battere. Ci auguriamo addirittura che serva da stimolo per qualcuno magari che si scopra videopoeta. I difetti fondamentali che notavamo erano innanzitutto l’ingenuità assoluta, quella magari di chi prende un testo classico di poesia e lo sceneggia con degli attori. Come quella ispirata a una poesia di Saba in cui gli attori interpretano uno Saba e l’altra la madre: assolutamente ridicola. Questa per vostra fortuna ve l’abbiamo risparmiata e non la vedrete stasera. Così come tante altre.

Andrea Cortellessa: Comunque dal punto di vista delle riprese, quella che citavi tu, è una di quelle che in realtà ha speso di più. Ha una produzione, ha un set, una scenografia, ecc. Però è inversamente proporzionale alla ricchezza di mezzi, alla ricchezza dell’impegno intellettuale.

Luigi Socci: Altre cose che non vedrete sono quelle troppo sbilanciate dalla parte di una delle due arti. Come quelle in cui l’autore ha saputo magari realizzare il film ma in cui le parole sono solo delle semplici didascalie per il video. Il didascalismo è uno dei difetti e dei rischi maggiori per questa modalità espressiva. C’è poi il difetto opposto e complementare, quello dell’illustrativismo assoluto, come nel famoso videoclip di Fotoromanza di Gianna Nannini, da molti considerato il più brutto mai girato, in cui un ormai decotto Michelangelo Antonioni mostrava una camera a gas e un palazzo che brucia in città mano a mano che la Nannini li cantava, fino al cono con il teschio e le tibie del “gelato al veleno” e così via.

Ce ne sono di quelli, poi, in cui l’autore è un poeta che ha deciso di realizzare una videopoesia e gira un video così, in quattro e quattr’otto, come viene viene, poco curato. Ce ne saranno forse quattro o cinque in tutto, invece, di opere in cui c’è la coscienza da parte dell’autore di essere non un poeta, non un film-maker, ma un videopoeta con opere compiute e in qualche modo autonome, oserei quasi dire autarchiche, rispetto alle altre arti. Opere in cui si gioca con tutte le possibilità che le immagini e le parole, sia dette che scritte, offrono. Ecco, le parole scritte più di quelle dette, secondo me. Per quanto riguarda il cinema i pionieri di quest’arte tipicamente novecentesca tentarono subito, agli inizi del secolo scorso, di definire quale fosse lo specifico cinematografico. Ėjzenštejn sosteneva che il procedimento che identificava il cinema in modo esclusivo, e cioè il suo specifico, fosse il montaggio. Dopo aver visto molte videopoesie mi sono convinto che lo specifico videopetico stia proprio nella sua natura verbo-iconica, cioè nella compresenza e nell’interazione di immagini e parole scritte, quindi viste, magari anche in funzione calligrammatica, cioè di parola disegnata. Il livello figurativo dell’alfabeto credo abbia una sua importanza. Forse in uno soltanto dei piccoli film che andremo a vedere, quello con le parole che appaiono, sagomate, sulle foglie di una pianta acquatica, c’è un corretto uso combinato dei due elementi. Da questo punto di vista ecco quindi che i predecessori di quest’arte non sono magari soltanto la videoarte o la poesia visiva, che pure sono ascendenti evidenti, ma magari il rebus con le sue associazioni verbo-iconiche. Ma è solo un’ipotesi, una proposta. Quello che stiamo dicendo non è legge, vi proponiamo comunque 17 possibilità diverse, alcune più mature, altre meno, alcune vi annoieranno, altre vi divertiranno. Tendenzialmente la misura è breve perché la videopoesia condivide con quella cartacea le caratteristiche della sintesi e della concinnitas per cercare di concentrare in una durata il più possibile limitata il massimo dell’emozione. Ce ne sono anche di appena 50 secondi così come di più lunghe, che hanno una funzione del tutto diversa, quasi psichedelica proprio per la lunghezza estenuante e le ripetizioni di marca minimalista. Adesso lascerei la parola ad Andrea.

Andrea Cortellessa: Allora prima di tutto ringrazio Luigi ed il pubblico, e confesso subito due cose. Da un lato tu mi chiedi una definizione vocabolaristica e io potrei rispondere con il nome dell’associazione che ci ospita 3. Se non sbaglio, tu mi spiegavi, che il nome vuol dire “non so” in polacco, perché sarebbe una delle frasi pronunciate o il titolo del discorso pronunciato da Wisława Szymborska al conferimento del Premio Nobel. Quindi una specie di Manifesto di scetticismo radicale, oppure, si potrebbe persino dire, se non si trattasse della Szymborska, di nichilismo, cioè, “non so nulla”, “non so esprimere un parere”, “non ho un’opinione” ed effettivamente di fronte alla richiesta di una definizione vocabolaristica di che cosa sia la videopoesia, forse la risposta è “non so”, “non sappiamo”, lo impareremo insieme e probabilmente lo stanno imparando gli stessi autori che vedrete hanno cominciato a sperimentare. In realtà, alcuni di questi video sono datati 2000 quindi già da qualche anno si sta cominciando a praticare questa nuova arte, e veder nascere un’arte è sempre una cosa molto eccitante. È una cosa che prima non c’è e si cerca una sua lingua, si cerca la grammatica, la sintassi e piano piano si impara, si impara lavorando, si impara scrivendo, si fa sbagliando. Ecco gli esempi che faceva prima Luigi. Quindi non sappiamo cosa sia. Possiamo cominciare a dire cosa non è e questo lo vedremo, magari, di volta in volta guardando scorrere le immagini. Intanto però si può dire qualcosa su quando è nata o su quando ha cominciato a farsi conoscere. Prima Valerio [Cuccaroni] citava, tra gli avvenimenti del Festival, tra quelli che andranno nella giornata di sabato, un paio di incontri dedicati uno al Poetry Slam e l’altro ai blog di poesia. Entrambi questi sono fenomeni recenti, sono la dimostrazione, se vogliamo, che la poesia o meglio la parola scritta, o meglio ancora la parola pronunciata, perché forse non c’è neanche bisogno di scriverla, in questi casi, può essere il caso per esempio di Tomaso Binga o di Giovanni Fontana, una performance puramente orale, sonora, quasi musicale. Come se fosse un cantante che si esibisce e che diventa, però, anche immagine, si fa quasi dipinto in alcuni casi. Tutte queste sono delle zone limitrofe, negli immediati dintorni di questo centro che non sappiamo bene cosa sia che ha preso il nome di videopoesia. C’è uno di questi video che è datato 2000, ma in realtà tutti questi, tranne un paio di eccezioni, hanno partecipato a una manifestazione che l’anno scorso [nel 2006] è arrivata alla sua seconda edizione, che si chiama DoctorClip, che fa parte integrante di RomaPoesia, che è il Festival gemello di questo, che si svolge appunto a Roma. DoctorClip è stato una manifestazione che ha ideato Luigi Cinque, uno dei fondatori di Romapoesia, che è una manifestazione che c’è già da una decina d’anni, a sua volta su imitazione di un Festival parallelo, simile, che si svolge a Berlino. Anche questo ha avuto tre edizioni fino a fino adesso. Si chiama Zebra Poetry Film 4 ed è contenuto anche quello all’interno del Festival di poesia e di letteratura di Berlino, che è uno dei più importanti d’Europa, una manifestazione di grande rilievo con ospiti internazionali, performance di alto livello, eccetera. Il direttore del festival di letteratura di Berlino, che si chiama Thomas Wohlfahrt ed è un esperto di video e di immagini riprodotte, si è inventato questo spazio per i videoclip di poesia 6. Quella è stata un po’ l’immagine iniziale, infatti anche DoctorClip, il titolo della manifestazione romana, adombra quest’origine. Il videoclip musicale, invece, è una forma che c’è da almeno venticinque anni. Quando, da ragazzino, seguivo la musica che si sentiva allora, io ricordo che i primi video che si vedevano erano di David Bowie. Ma i primi video dovrebbero datare nel 1977. Tra le tante cose che sono accadute nel ’77, pare che si possa anche datare la nascita del videoclip, appunto con Bowie 7, che, avendo una forte sensibilità cinematografica, ebbe l’idea di produrre strutturalmente delle immagini legate ai suoi pezzi, alle sue canzoni, a differenza di altri autori precedenti a lui, che avevano fatto la stessa cosa, però in maniera assolutamente casuale. L’esempio famoso è, appunto, quello di Bob Dylan. Le parole composte da Bob Dylan che vengono scritte su dei pezzi di carta e che il cantautore mostra come dei cartelli, che è la maniera un po’ del teatro brechtiano, e le getta poi dopo averle cantate.

Quello che è un proto-video, un archeo-video, diventa, invece, la pratica degli anni ’80, un vero e proprio linguaggio, che tuttora è uno dei principali assi di diffusione, di utilizzazione o comunque di commercializzazione, perché una delle forme attraverso le quali noi consumiamo la musica ormai è quella video, è una delle forme in cui la musica contemporanea si è espressa. Questo comporta un primo problema, perché naturalmente a differenza degli artisti e musicisti rock o pop dei decenni precedenti, a partire dagli anni ’80, si è creata una convenzione o un format, come si dice con un brutto termine del linguaggio televisivo, per cui sostanzialmente la durata di un videoclip è come quella di un vecchio 45 giri. I 45 giri ormai non ci sono più, però i videoclip durano sostanzialmente ancora come i 45 giri, cioè massimo 4 o 5 minuti e in generale stanno su una media di 3 minuti. Allora questo significa naturalmente che tu che ti inventi un linguaggio devi stare all’interno di quella gabbia, di quel format e cercare di liberarti almeno di quel vincolo dall’interno. Infatti noi vedremo che la maggior parte di questi videoclip, o videopoesie, si aggira, come durata, appunto intorno ai 3 minuti, massimo 5 minuti, con le eccezioni che poi vedremo. Le eccezioni sono quelle che hanno una funzione, come diceva Luigi, di iterazione. Nella musica contemporanea spesso l’elemento della ripetizione ha avuto un ruolo evolutivo importante, quella che si definisce musica minimalista è basata sul principio della ripetizione quasi ipnotica. Sia nella musica colta che nella musica rock a un certo punto si è introdotto questo principio, per cui un determinato motivo, o una determinata frase musicale, poteva essere ripetuta pressoché all’infinito, teoricamente all’infinito, e se ne dava una porzione alludendo a questa idea di ciclo continuo. Anche in questo caso vedremo almeno un video, quello di Tommaso Binga, che, all’interno del linguaggio delle immagini, utilizza creativamente questa forma qui.
Le linee di ricerca che si possono dedurre da questo primo campionamento sono linee di ricerca che vanno in molte direzioni che vedremo man mano. Noi cominceremo tra poco a scorrere questi video e poi ci interromperemo un paio di volte, commenteremo alcuni di questi e magari se ci fosse qualcuno del pubblico che vuole fare gli interventi, esprimendo anche dei dissensi o delle adesioni a questo tipo di linguaggio, è chiamato a farlo, perché nel momento in cui un linguaggio si sta ancora formando è il momento in cui il contributo di chi legge, o di chi fruisce visivamente di un’opera, è fondamentale, perché è quello il momento in cui gli artisti capiscono dove stanno andando a parare. Ora né io né Luigi credo abbiamo mai fatto videopoesie, però sicuramente è interessante vedere come reagisce il pubblico.
Qui devo confessare la seconda magagna. Dopo aver confessato che non so rispondere alla domanda iniziale, devo confessare che il titolo che abbiamo dato io Luigi a questa serata, cioè “La poesia che si vede” è frutto di un plagio perché in realtà abbiamo fatto una serata simile a Verona, lo scorso autunno, con Giulio Mozzi che è l’autore di questo titolo. È un titolo molto felice anche se la serata non fu altrettanto felice perché purtroppo non ci fu nessun pubblico praticamente. Quindi questa è la vera prima della manifestazione. Perché “la poesia che si vede”? Per esempio perché una delle radici di questo linguaggio è da cercare in tutta un’altra storia, rispetto a quella dei videoclip musicali ed è una storia di molto più lungo periodo. Non dobbiamo risalire agli anni ’80 o agli anni ’70, ma dobbiamo risalire addirittura alle origini della stampa a caratteri mobili ed è quella tradizione che per esempio in Italia è stata studiata da Giovanni Pozzi, un grande filologo che aveva studiato e catalogato tutte le forme di immagine, di dipinto, al cui interno fossero presenti delle parole o delle lettere. Ha studiato anche il caso inverso per cui la scrittura stessa diventa un’immagine. Per esempio, non so se qualcuno di voi ha mai visto le poesie di Mallarmé

o di Apollinaire

che sono due poeti della fine dell’Ottocento, che sperimentarono questa idea del calligramma, cioè di una costruzione visiva fatta con delle parole che hanno un senso compiuto ma il cui senso vero è dato dall’immagine che compongono. Se avete in mente, per esempio, una famosa poesia di Corso, Bomb, che è fatta a forma di bomba, di fungo atomico

 

riprende quell’antica idea che viene da molto prima, anche molto prima di Mallarmè o di Apollinaire: risale addirittura all’età della pietra. Quindi c’è tutta una storia in cui la parola e l’immagine si fondono, entrano l’una nell’altra. Da un lato la parola si fa immagine, diventa un’immagine, perché la scrittura può comporre l’immagine. Dall’altra parte, invece, l’immagine, il dipinto può comprendere, ad esempio, un cartiglio. Ci sono certe annunciazioni, ad esempio, preraffaellite che introducono all’interno della figura, della scena, un cartiglio che è sostanzialmente un fumetto, diremmo noi, in cui le parole dell’Arcangelo e della vergine sono scritte, possono essere lette all’interno del dipinto. Questo è il caso tipico, diceva Pozzi, della “parola dipinta” come la chiamava lui.
Anche il fumetto o il rebus sono quelle forme popolari che, tra l’Ottocento e il Novecento, si sono affermate proprio polarizzando questo tipo di tradizione, questo tipo di interazione tra parola e immagini.
E vedremo molti casi, quattro o cinque casi direi, forse i migliori, in cui fisicamente all’interno delle immagini riprodotte, non c’è una messa in scena delle parole, appunto, secondo il principio ingenuo, diciamo cinematografico o meglio televisivo, della sitcom. Nel linguaggio dei montatori televisivi, quando si vuole si vuole far vedere che c’è una regia particolarmente piatta, particolarmente didascalica, senza nessun tipo di invenzione eccetera, si usa l’espressione “casa-casa, albero-albero”, perché la voce fuori campo dice “casa” ed improvvisamente parte l’inquadratura della casa, oppure, se il discorso nomina la parola “albero”, improvvisamente viene inquadrato un albero. Allora, questo tipo di descrizione didascalica, naturalistica, è proprio quello che in realtà sembra essere il modo più passivo dell’immagine di inseguire la parola perché, in realtà, come ci hanno spiegato o come sappiamo bene, ogni volta che noi leggiamo un romanzo ci immaginiamo una serie di cose che poi il regista, l’illustratore, lo scenografo, colui che mette in scena quelle parole, non si accorge e non è in grado di cogliere così come l’abbiamo pensate. Questa povertà, paradossale, dell’immagine rispetto alla parola, perché la parola ha in sé la virtualità di tutte le immagini possibili e ciascun lettore attribuisce un’immagine diversa, può essere battuta in breccia, può essere affrontata quantomeno con gli altri sistemi, alcuni dei quali sono di tipo o calligrammatico, cioè, appunto, riprendono l’idea di una parola che compone un’immagine, oppure di parola dipinta ossia di un’immagine che comprende al suo interno le parole con le quali entra in sposalizio. Quindi, la storia delle arti, la storia degli intrecci tra le arti, è molto ricca dietro a questa che noi chiamiamo videopoesia, a questo insieme di pratiche che chiamiamo, che accomuniamo sotto il nome di videopoesia.
Per concludere questo piccolo cappello, prima si ricordavano il poetry slam ed il blog. Si tratta di due forme molto recenti di cammino della poesia attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, da un lato attraverso internet, dall’altro attraverso questo sistema di esibirsi in pubblico e chiamare il pubblico a partecipare allo show dando un proprio contributo in termini di giudizio molto suonante, molto partecipato alle vicende che si svolgono in scena. Ecco queste due forme sono forme che fino a pochi anni fa non c’erano, si sono anche affermate e forse oggi sono una delle poche strade per la poesia. Si può essere più o meno d’accordo, ma è una delle poche strade che consenta alla poesia di avere un pubblico, perché sapete che c’è il solito problema che tutti scrivono ma che nessuno vuole leggere e tantomeno comprare i libri di poesia, eppure allo slam oppure cliccando sul sito dove si sa che c’è il blog, invece, tutti partecipano o molti partecipano, tenendo in piedi questo vecchio fantasma che si chiama poesia. Forse potrà aiutare anche la videopoesia, proprio grazie a quella democratizzazione dei mezzi di cui parlava Luigi, cioè al fatto che ciascuno in fondo può usare la videocamera come fosse un blocchetto di appunti ormai. Marco Bellocchio, recentemente, in un dibattito al quale partecipavo, riguardo alla crisi del cinema, diceva «in fondo, per come l’abbiamo inteso in tutto il Novecento, come una grande macchina di spettacolo, con enorme apparato produttivo, con masse di collaboratori, eccetera, beh, sì, forse quella sì è distrutta dalla concorrenza televisiva e poi dai nuovi mezzi di comunicazione, ma, nel momento in cui il cinema lo può fare ciascuno con la sua videocamera, siamo di fronte ad una rivoluzione, di cui non possiamo prevedere gli esiti e potrebbe essere un rinnovamento radicale del linguaggio, addirittura, far uscire il linguaggio audiovisivo dalla forma cinematografica che abbiamo conosciuto fin qui». Questo potrebbe accadere forse in futuro, chissà, se questa forma continua ed ha una sua popolarità ed una sua visibilità, questo potrebbe succedere anche per la videopoesia. Proprio nell’ultima edizione di Romapoesia 5, dove tra l’altro è venuto anche Thomas Wohlfahrt, il fondatore dello Zebra Poetry Film, a raccontarci un po’ come è nata questa idea e a farci vedere i migliori dei loro video tedeschi, è successa una cosa curiosa. È venuta una troupe televisiva di Rai News 24 e ha fatto un servizio televisivo, normalmente, poiché eravamo in un teatro quindi era giusto che ci fosse un servizio televisivo. Dopodiché questo servizio televisivo è andato in onda su un canale satellitare, quindi non tutti avevano la possibilità di vederlo, però sul sito telematico, di questa trasmissione, è stato collegato tutto il servizio che durava diversi minuti. Noi avevamo la pretese di essere sulla scena ma nel contempo di essere collegati con tutto il mondo, perché c’era la telecamera che riprendeva tutto quanto e che mandava tutto in streaming online: a un certo punto si è creato questo straordinario corto circuito per cui la televisione è venuta a riprendere una cosa che andava online, poi dopo il risultato di questa ripresa è andato a sua volta online, e alla fine alcune persone che avevo perso la diretta in quel momento, che non erano riuscite a collegarsi online, sono riuscite a collegarsi online al sito della trasmissione televisiva e hanno vampirizzato la ripresa televisiva che era stata così data online. Quindi la poesia ha fatto un giro che ha attraversato tutti i linguaggi della contemporaneità per arrivare ad essere e tornare ad essere quella che è sempre stata, in definitiva, e quella che forse rimarrà sempre.
Gli approcci sono posti. C’era, ad esempio, una vecchia polemica a proposito degli incroci tra i media, nell’ambito del teatro d’opera: ci si chiedeva se viene prima la musica o le parole. Viene prima il libretto o viene prima la musica del compositore? Qual è l’arte più importante? In realtà non si può rispondere. Come io non ho saputo rispondere alla domanda “che cos’è la videopoesia?”, non si può rispondere neanche a questa domanda perché ciascuna opera, ciascuna collaborazione tra uno scrittore, un poeta ed un musicista è frutto di un’alchimia non riproducibile che ogni volta è sempre diversa. Ci sono casi stupendi nel Novecento di collaborazione che diventa quasi un trattato di filosofia a quattro mani. A chi ha letto le lettere tra Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, sa che quello è uno dei discorsi più belli, più alti, più complessi, più ricchi, che si possono fare sul rapporto tra musica e parola ed è una cosa che non trova mai una sua definizione. E credo che anche con l’immagine, se questo linguaggio prenderà, in futuro, l’autorevolezza, la ricchezza e l’articolazione dell’opera lirica, come l’ha avuta nella sua lunga storia, anche tra chi fa le immagini e le parole ci saranno paradossi e intrecci non molto diversi.
Il prossimo video è il video di una persona che ci è cara, Laura Pugno, e questo video è collegato al suo libro Il Colore Oro, ed è sintomatico del tipo di Intrecci che si verificano tra parola ed immagine: Non è la stessa lingua che parli è un video realizzato da Elio Mazzacane, che interpreta delle parole, nel senso che vediamo Laura, quasi irriconoscibile, che scrive a macchina, e il video interpreta queste parole, ma in realtà, il video poi nell’interpretare le parole raffigura un’altra cosa, raffigura una performance di un artista, di un performer, che si chiama Rancidoro, il quale fa delle cose, compie delle azioni che rientrano in una tradizione della performance, anche un po’ estrema, che ha a che fare col linguaggio del corpo. A sua volta, poi, Elio Mazzacane ha fotografato, ha isolato alcuni fotogrammi del video e questi fotogrammi sono stati uniti alle parole di Laura, del suo libro. Quindi nel libro, in cui non trovate il video, trovate una specie di storyboard, una specie di fumetto a colori che è tratto dalle immagini di questo video e forse in definitiva il titolo del libro Il Colore Oro deve qualcosa anche al nome di questo signore che vedrete, che si chiama Rancidoro.

Poi, quello che vedremo dopo è Silence Please di Enrico Mazzi, è una cosa veramente estrema, che forse definire poesia è anche fuorviante.

Luigi Socci: Secondo me è una poesia trovata, un pezzo di testo trovato casualmente che nel momento in cui da ascoltato diventa scritto può assumere un alone poetico, che altrimenti assolutamente non avrebbe. Come un ready made, nel senso di oggetto trovato duchampiano del termine.

Andrea Cortellessa: Abbiamo visto tante cose diverse, dal cartone animato con un certo stile figurativo molto alla moda. La considerazione che viene da fare a proposito di Elena Chiesa, che si è classificata seconda al Festival di DoctorClip sia nel 2005, che nel 2006, è che infondo le poesie e i testi che avete ascoltato adesso letti da lei stessa, a differenza che nel primo esempio, sono, in quanto poesie scritte, davvero poca cosa.

 

Eppure, lo specifico, come diceva Luigi, oggi lo specifico videopoetico, e non è un caso che Elena firmi le videopoesie come “videopoesie di Elena Chiesa”, lo specifico videopoetico, qui raggiunge, poi nella seconda parte, quella che davvero i professori a scuola chiamavano “la poesia”.

 

A proposito della diversità di questi linguaggi, visto che tra l’altro ci avviamo a concludere, tu che primo bilancio ti senti di poter trarre da questi esempi?

Luigi Socci: Il mio bilancio non è del tutto positivo, l’ho detto fin dall’inizio. Quando abbiamo deciso di dedicare questa serata alla videopoesia, lo abbiamo deciso prima di visionare molto materiale. Però, come ripeto, mi sembra una direzione interessante, una possibilità che viene data a chiunque sappia e voglia accoglierla. Mi auguro che ci si possa migliorare per le prossime edizioni.

Andrea Cortellessa: Una cosa che è stata detta molto in questi anni, ad esempio, è che in rete, nella rete come nuovo linguaggio, in internet come frontiera, la letteratura, la scrittura avrebbe trovato nuove forme di espressione, ma in realtà la rete ormai c’è da un buon decennio, eppure forse proprio solo quest’anno, in Italia, cominciamo a vedere dei testi che nascono sulla rete e che hanno una vera e propria dignità letteraria. Quindi diciamo che un linguaggio ci mette qualche anno per rodarsi, è fisiologico.

Luigi Socci: Sì, infatti, non bisogna essere troppo pessimisti. Non so se tu ti riferivi addirittura a Saviano, che è l’esempio migliore forse di un autore che nasce in rete e che arriva ad un milione di copie cartacee.

Andrea Cortellessa: Però lui magari aveva già pubblicato sui giornali i suoi reportage, e quindi è un po’ una cosa a parte. No, ma io mi riferivo a due autori magari meno noti, che però sono molto interessanti secondo me. Una ha un blog. È uscito da poco un libro per Rizzoli, che si intitola Sappiano le mie parole di sangue, di una scrittrice milanese, che si fa chiamare Babsi Jones, che è nata appunto sulla rete. Ha un blog molto frequentato, uno dei più frequentati, che ha una sua dignità letteraria e che ha raggiunto anche una forma editoriale. E poi recentissimamente dei testi che non saprei definire se poetici o narrativi, sempre di un ragazzo di Milano, forse lombardo, che si chiama Gherardo Bortolotti. Prima della rete sarebbe stato difficile favorire la loro circolazione. Ma quello che voglio dire è semplicemente che, aldilà di questi casi specifici, i mezzi hanno un’inerzia. È stato notato, per esempio, agli albori del cinema, come i primissimi che facevano cinema, scimmiottavano le forme del teatro conosciuto. La televisione, ai suoi esordi, ha scimmiottato il cinema o il teatro a sua volta quindi, è evidente che c’è un’inerzia, una rischiosità dei codici e dei linguaggi che si fa fatica a superare.
Questi sono gli ultimi video che vedremo e ringrazio molto Luigi e la selezione di Nie Wiem che ci ospita perché, a dispetto della provvisorietà di questo linguaggio, è un’occasione preziosa per vedere insieme, mettere alla prova di un pubblico, un tipo di linguaggio che veramente è ai suoi primi passi.

 

NOTE

1 La prima edizione di DoctorClip si svolse il 28 ottobre del 2005 all’Auditorium Parco della Musica, nell’ambito del festival Romapoesia. Maggiori informazioni qui: https://slowforward.net/2006/08/12/ottobre-2005-doctorclip/.

2 Per una prima ricognizione rimandiamo a Videopoesia. Le forme della poesia tecnologica .

3 La Punta della Lingua è un festival organizzato dall’associazione “Nie Wiem”. Maggiori informazioni qui: https://www.niewiem.org.

4 Lo Zebra Poetry Film Festival è nato nel 2002, la seconda edizione si è svolta nel 2004 e la terza nel 2006. Maggiori informazioni qui: https://www.haus-fuer-poesie.org/en/zebra-poetry-film-festival/home-zebra-poetry-film-festival/

5 Cortellessa si riferisce all’edizione del 2006, durante la quale si svolse la seconda edizione di Doctorclip, il 27 ottobre all’Auditorium Parco della Musica.

6 L’organizzazione dello Zebra Poetry Film Festival, nello specifico, fa capo dalle origini a Thomas Zandegiacomo Del Bel.

7 Le origini del videoclip sono controverse. Se per la videopoesia non abbiamo ancora, nel 2020, una definizione vocabolaristica né una voce corrispondente dell’Enciclopedia Treccani, per videoclip la Treccani colloca la nascita storica del genere nel 1981, con l’inizio delle trasmissioni di MTV: il primo music video a essere trasmesso fu Video killed the radio stars dei Buggles (regia di Russell Mulcahy). Tra gli antecedenti del genere Treccani colloca i lungometraggi dei Beatles A Hard Day’s Night e Help! diretti negli anni Sessanta da Richard Lester, in linea con l’Enciclopedia Britannica LINK A https://www.britannica.com/art/music-video, la quale aggiunge, per gli anni Settanta, il video di Bohemian Rapsody dei Queens diretto da Bruce Gowers nel 1975. Del 1975 è anche un altro progenitore del videoclip: l’opera rock Tommy degli Who, diretta da Ken Russell. Per quanto riguarda David Bowie negli anni Settanta girò diversi promo clip, diretti da Mick Rock: John, I’m Only Dancing (1972), The Jean Genie (1972), Space Oddity (versione del 1972) e Life On Mars (versione singolo del 1973), ma è con Ashes to Ashes diretto da David Mallet nel 1980 che i videoclip di David Bowie raggiungono la piena maturità, innovando il genere.]


Valerio Cuccaroni
Valerio Cuccaroni

Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)

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