La pornodiva Lilith – Un antiromanzo di Davide Nota
[In occasione dell’uscita di Lilith pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell’autore, Davide Nota, e dell’editore, Luca Sossella, con una breve nota introduttiva di Valerio Cuccaroni e il booktrailer in anteprima.]
Lilith è concepito dal suo autore Davide Nota, come un «mosaico». L’opera si inserisce pertanto nella tradizione del frammento, a distanza di centotre anni dalla chiusura della rivista «La Voce», l’organo ufficiale del frammentismo italiano. Di quell’esperienza Lilith mantiene la combinazione di prosa e poesia, l’autobiografismo e il moralismo, ma non c’è nessun tentativo di emulazione né di esplicito riferimento da parte dell’autore.
In effetti, è cambiato del tutto il contesto in cui si collocano i frammenti, così come alle molteplici riviste italiane e internazionali del secolo scorso si è sostituita un’unica rivista globale: Facebook. Ed è proprio qui che Lilith ha preso forma, post dopo post.
Rispetto alle precedenti opere di Nota, che si collocavano nel solco di uno sperimentalismo erede dell’esperienza officinesca e del magistero congiunto di Roberto Roversi e Gianni D’Elia, Lilith si presenta come un’opera ultramodernista, illeggibile secondo i canoni standard della lettura lineare, piana.
Se fosse una composizione musicale si potrebbe dire che non segue i canoni della melodia, non è una successione lineare di segni, scelti nel sistema letterario di riferimento e organizzati narrativamente, così da acquisire in chi legge contorni, fisionomia e un senso compiuti. Nota persegue la politonalità che, tuttavia, già nel 1935 a Giulio Cesare Paribèni, compositore e professore di armonia e contrappunto, appariva un procedimento d’eccezione, rispetto alla comune sensibilità musicale, vantaggioso soltanto se affidato alla sobrietà di artisti geniali.
Scrittore che spazia dalla composizione in versi – con tre libri raccolti nel volume Il non potere (2002-2013) (Sigismundus, 2014) – a quella in prosa narrativa – con i racconti Gli orfani (Oédipus, 2016) – e giornalistica – soprattutto nel suo blog per «L’HuffPost» (2016-2018) –, da un quindicennio Nota mantiene fede a un impegno intellettuale di stampo pasoliniano che l’ha portato a fondare una rivista militante («La Gru», 2005-2012), un movimento poetico-politico (“Calpestare l’oblio”, 2008-2010) e una casa editrice (Sigismundus). Con Lilith ci consegna una scrittura «anarrativa», come la definisce lui, una partitura in cui la tonalità lirica, fortissima, si sovrappone a quella autobiografica, con lacerti che si riferiscono alla vita dell’autore tra Ascoli Piceno, Perugia, Roma, Bologna e Macerata («Usciva di casa ed Ascoli si faceva Roma, Roma diventava Bologna, Bologna Macerata, si addormentava all’Hotel Plaza e si svegliava alla stazione di Pescara», frammento 10), il tutto combinato su un basso continuo mistico e porno-thriller, per cui la pagina può diventare una hidden-cam e una videochat porno dove la protagonista Petra si sdoppia, alla ricerca di una purificazione orfica alla rovescia. Lilith è tanto il referto di un’iniziazione quando un’opera iniziatica, che ierofantica ci scorta nella realtà complessa e aumentata in cui siamo immersi, mettendoci a confronto con le nostre pulsioni ancestrali di vita e di morte, nella forma simultanea, germinale e già fossile in cui si presentano.
In alcuni passi, in cui il mosaico si tinge di giallo, emerge chiaramente che, nonostante sia un lirico, a Nota non mancano gli strumenti dell’ingegneria narrativa, utili a costruire un romanzo ben fatto, ma il suo scopo è un altro, perché, così come per i registi, anche per gli scrittori vale quello che dice il professor Falasca, un personaggio di Lilith tanto marginale quanto centrale: «La competenza tecnica è un concetto del tutto superato dalle app scaricabili per via I-phone. La ricerca formale risiede altrove».
Davide Nota
Lilith (Un mosaico)
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INT. AULA UNIVERSITARIA – GIORNO
PROF: “Quando un cameraman o un commentatore raggiungono il luogo di una notizia (si schiarisce la voce) la notizia ha già fatto il giro del mondo sotto forma di videoclip amatoriale di quindici secondi girato con un telefonino da un ragazzino di dodici anni”.
Petra si è svegliata tardi questa mattina e si è messa a sedere in un posto libero in prima fila nell’aula di multimediale. Il professor Abel Falasca, capelli incolti e brizzolati, occhiali larghi da architetto di interni, le strizza l’occhio con la sua aria aggiornata e ironica, di compiaciuta arguzia. Egli è, a tutti gli effetti, un creativo, il suo talento è dunque impermeabile a qualsiasi forma di disperazione. La guarda posizionarsi e continua la sua lezione.
PROF: “Riflessione n. 1: Il ragazzino di dodici anni arriva sempre prima di ogni autore. Riflessione n. 2: Il ragazzino di dodici anni non ha professioni, ambizioni o reputazioni da difendere. La sua immagine non ha filtri né censure. Riflessione n. 3: La video-immagine amatoriale non ha commento che non sia rumore di scena, è realtà non mediata, non ha finalità pedagogiche. Riflessione n. 4: Il ragazzino di dodici anni è ovunque e sempre, a flusso continuo, ventiquattro ore su ventiquattro. Non ha bisogno di scuole di regia o tecniche di ripresa perché non è il cinema il suo interesse. Lui semplicemente vede attraverso il suo I-phone e la sua vista è on line”.
Un ragazzo alza la mano in fondo all’aula. Interviene, con evidente accento trentino. Ha un pizzo biondiccio, caprino ma ben curato, e lunghi capelli rameici raccolti a coda. Gli occhi pungenti e chiari mimano le forme adibite alla conversazione accademica.
STUDENTE: “Volevo dire, prof, che anche in questo caso, però, se mi permette. Anzi, in ogni caso, direi. Esiste sempre un commento. Intendo dire, una volontà autoriale. Magari inconsapevole ma ecco, esistono sempre dei presupposti. Insomma, nei video amatoriali il dato soggettivo sovrabbonda”.
La classe rumoreggia, alcuni gli danno ragione. Petra fissa il professore con aria di sfida. Lui la squadra velocememente, poi dopo averne cercato lo sguardo si rivolge con un sorriso accennato all’allievo che è appena intervenuto.
PROF: “È vero, ma in questi casi il dato soggettivo è talmente manifesto da oggettivarsi. Il commento si fa rumore di scena, i presupposti diventano l’oggetto stesso del video. È la realtà stessa che si autofilma”.
Uno strofinio di penne calca le pagine dei quaderni che si voltano.
Il professor Falasca continua: “Nei video sull’11 settembre, ad esempio, l’oggetto del reperto non è solo ciò che si vede, l’attentato, ma anche la mano tremante del videomaker, le sue esclamazioni, la sua fuga disperata. In ogni video amatoriale uno dei principali oggetti di interesse è dietro la camera. Non esiste più regia ma vista condivisa a flusso continuo, i cui punti di visione, le prospettive, sono molteplici e continui come gli infiniti occhi di Leibniz. E non parliamo, ora, solo di materiale da allnews. Se ci inoltrassimo nell’inconscio collettivo del web troveremmo, o meglio dire già troviamo, tutto ciò che rende definitiva mente mutato il concetto di autorialità. Il mondo non ha più bisogno di autori che evochino qualcosa che si manifesta già altrove nella sua più nuda crudezza. Il mondo si svela, si autofilma e condivide in tutto e per tutto. Solo questo si può: continuare lo scavo iniziato con la messa on line di una produzione infinita di materiale amatoriale. Iniziato e indicato, nel senso che è l’amatoriale che detta la linea, anticipa, insegna. Come nell’esempio della news, dove il ragazzino di dodici anni ha già diramato al mondo una scena fondamentale che nessun gancio della Rai o della CNN avrebbe potuto afferrare. L’autore segue, apprende, connette, contamina, monta”.
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INT. AULA UNIVERSITARIA – GIORNO
PROF: “Oggi tutti sono competenti, dal momento che la tecnologia permette processi di post-produzione che fino a pochi decenni fa sarebbero stati in pochi a saper gestire dopo anni di studio. E questo è un dato di fatto, incontestabile. Chi volesse contestarlo sarebbe solo un moralista, un tradizionalista ripugnato dalla realtà, vale a dire un nostalgico della classe intermedia cui credeva di essere erede. La domanda che mi pongo, piuttosto, è inversa: perché la competenza dovrebbe essere, ancora, una cifra dell’estetica? È una domanda che non contiene una risposta. Nel senso che me la sto ponendo realmente e non so ancora rispondermi. Giusto mi dico, parzialmente, che per dare un’opera non può non esserci una ricerca formale di altissimo livello concettuale e anche pratico di realizzazione, ma dubito fortemente che tale ricerca possa svolgersi ancora all’interno di linguaggi tecnici condivisi. La competenza tecnica è un concetto del tutto superato dalle app scaricabili per via I-phone. La ricerca formale risiede altrove”.
Booktrailer di Lilith (Un mosaico), regia di Piergiovanni Turco (Collettivo ONAR)

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)