La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese – Recensione e Intervista
La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese è un film documentario su Benedetta Barzini, giornalista, modella e madre del regista. Il film ha appena vinto il Premio Ucca Giovani “Salto in Lungo” della XVI edizione di Corto Dorico. Di seguito trovate una breve recensione di Valerio Cuccaroni e un’intervista di Elena Zallocco (dei Giovani Visionari) al regista.
La scomparsa di mia madre, che finge di raccontare la storia di una donna in carne e ossa (Benedetta Barzini), in realtà è la recita di una consumata donna di spettacolo, un film che sconvolge se si lasciamo perdere i “messaggi” e i “temi”. Sconvolge perché mette in scena un’attrice (la signora Donatella di Tutti i santi giorni di Virzì) che indossa i panni di una madre nella vita e nel film, una madre che, però, nell’unica scena che raffigura la famiglia unita, si assenta e si inseguire dal personaggio del figlio, che coincide con la telecamera – anzi, che è tecnicamente la telecamera. Così la famiglia scompare. Rimangono solo l’attrice e suo figlio-telecamera. Cioè restano la scena e la sua creatura contemporanea: la telecamera. Il film si sarebbe potuto anche intitolare la scomparsa della scena madre. O soltanto la scomparsa della scena.
L’antefatto è che una madre, che coincide con tutta la scena, con tutta la baracca della società dello spettacolo, ha partorito una telecamera. Le ha dato un’anima. Le ha insegnato a parlare. La telecamera non le ha più staccato l’occhio di dosso, restituendole con il passare degli anni, cioè delle inquadrature, l’immagine di lei stessa invecchiata e morente. La madre, che si era convinta di essere una fotomodella, vuole allontanare da sé il figlio-telecamera, perché non sopporta la verità. Le luci si spengono. La scena precipita nel buio. Lo spettacolo è tale perché finisce.
La scomparsa di mia madre racconta il tramonto non fotografabile della società dello spettacolo. La sua scomparsa è a sua volta uno spettacolo a cui rimane incollata la telecamera.
Una scafata attrice è riuscita, con la sua estensione figlio-telecamera, a riprendere la sua vecchiaia, quindi «la morte» (è il personaggio della Barzini medesima ad affermare l’equivalenza), così ha filmato la morte della società dello spettacolo. E il documentario si è rovesciato in pura finzione. Tutto ciò perché la protagonista è dotata di ironia che ha trasmesso al suo occhio meccanico, chiamato figlio.
Beniamino Barrese, crescendo nel mondo dello spettacolo, ha girato un film erratico, in cui ha cercato di rispondere alla domanda: dove finisce la (scena) madre quando scompare? La risposta è un film sulla finzione.
(Recensione di Valerio Cuccaroni)
Intervista a Beniamino Barrese
Da cosa è nata l’esigenza di raccontare quella parte di tua madre, Benedetta Barzini, che non è mai stata raccontata e fotografata fino ad ora?
Dalla voglia di riscattarla dalle tante immagini che esistevano di lei, che mi sembravano riduttive e dalla voglia di ritrarre qualcosa di più autentico. Allo stesso modo (…) volevo anche demitizzare mia mamma e conoscerla fuori dal mito, facendo mia la materia della sua storia.
All’inizio del film tua madre dice una cosa molto particolare e toccante, ovvero di non esser mai stata fotografata davvero. Con questo film pensi di aver rotto questa barriera?
Si, in parte si. Noi tendiamo a vedere in un’immagine una verità e istintivamente pensiamo che quello che vediamo è vero poiché affidiamo alla vista un potere enorme. Questo crea dei grandissimi fraintendimenti, nel giornalismo per esempio e anche nel cinema, siamo completamente ingannati, così anche quando vediamo delle foto pensiamo di vedere una persona e in realtà è sempre una piccolissima parte di essa. La superficie della persona cambia costantemente e allo stesso tempo puoi scegliere in che modo la vuoi rappresentare, io l’ho rappresentata nella maniera più vicina possibile a quello che è il mio sentimento verso lei. Ho fotografato una Benedetta mamma, ma la Benedetta vera è una cosa molto più complessa.
Uno dei modi con cui tua madre definisce questo progetto è “lavoro di separazione”. L’hai visto anche tu in questo modo, come un saluto oltre che a Benedetta modella anche a Benedetta madre?
Si, sicuramente credo che ci sia un momento nella vita, che a volte coincide con la morte dei genitori, in cui noi riusciamo a separarci da loro e loro da noi, il che non significa non vedersi mai più, però significa che non sei più il figlio ma magari diventi “una persona accanto alla persona”. È un processo misterioso e lungo, non è che coincida con questo film, però quest’ultimo mi ha in parte aiutato nel percorso.
(Intervista di Elena Zallocco (Giovani Visionari)