L’acqua di San Giovanni ⥀ Racconto di Giorgiomaria Cornelio su 24Ore di Romanzi.it

L’acqua di San Giovanni di Giorgiomaria Cornelio, accompagnato dall’illustrazione di Giuditta Chiaraluce, è uno dei due racconti che abbiamo proposto a Romanzi.it per la raccolta 24 ore, libro realizzato all’interno del progetto “Un SalTo insieme!” con la collaborazione di 7 riviste letterarie: Bomarscé, Lunario, StreetBook Magazine, Digressioni, Rivista Blam!, Il Rifugio dell’Ircocervo, Argo. Puoi trovarlo qui

 


 

L’acqua di San Giovanni

di Giorgiomaria Cornelio

 

Ma la bellezza era una colpa antica. Ora, osservava, tacendo un più largo andirivieni di pensieri, se ne erano tutti lavati le mani. Così, il paese di Marzotto somigliava all’immagine d’uno splendore acuminato, senza ordine alcuno, come se, dopo una lunga gestazione a cui avevano preso parte le più disparate generazioni, gli ultimogeniti avessero acciarpato quanto restava da fare, e proprio nel momento di maggior bisogno. «Va bene così», borbottava, cercando di non badare agli ettari di carne che durante quegli anni di congedo lei si era dovuta invece arare da sola; e poi ai gorghi, alle tane scavate in corpo, alle fierezze refrattarie, ai minerali così come alle poltiglie portate a riconoscenza, sempre cercando l’incastro con una forma vuota, venuta prima, chissà da dove, come una specie di superstizione. Bisognava pensare ad altro. Rivoltare la fodera dei facili orgogli, calibrare una discesa che non fosse inutilmente ripida, fare come nella storia di quel mulo che secoli prima un papa aveva riverito all’incontrario. E poi, ancora, bisognava appellarsi ai proverbi, ai nomi di chi c’era stato, alla loro occulta timbratura; perché loro erano rimasti; perché, malgrado tutto, c’erano ancora. Certo: anche a volerlo sferruzzare, quel poco di affetto conservato non osava sporgersi più in là del burro fonduto, degli agretti che si chiamavano barba di frate, del brodo di cappone, di un certo riguardo nel fare il nodo alle lenzuola, oppure nel disfarlo, dello sgabello di noce col pavone ricamato, della lavanda nel cesto dei panni, della quercia del giardino segata prima del tempo, da dove forse era venuta, durante i giorni d’estate, qualche gretta notizia di cielo; ma tutto ciò era soltanto un modo d’arrugginire ulteriormente la presa alle cose. Ora, rifletteva, quel suo ritorno non poteva avere la forma d’un guasto, e neppure d’una peste. Troppo s’era allentata la vite che la teneva attaccata a Marzotto perché qualcuno vi badasse davvero. Senza potersi poggiare a un qualche preavviso, quella sua grande trasmutazione sarebbe parsa agli occhi degli altri quasi come un digiunamento, una strana eresia domestica, perseguita mentre tutto attorno la vita non sapeva di doversi ammaestrare. Le tornava in mente, a tal proposito, la vicenda degli Skopcy di cui aveva letto molti anni addietro, che nella Russia del diciottesimo secolo si martoriavano il corpo fino all’evirazione, per farsi come gli angeli, ripetendo incessantemente le parole del Vangelo di Matteo: «vi sono eunuchi che si sono resi eunuchi da se stessi, per il regno dei cieli». Oppure – e lo pensava facendo pressione con le dita sul frontespizio cinerino del libro che aveva portato con sé, cacciato nella tasca di un lungo cappotto – la sua trasmutazione poteva sembrare per gli altri qualcosa di simile al capriccio scritto da François de Choisy, col titolo Avventure di un abate vestito da donna, dove il narratore racconta la sua storia, alla cui origine sembra esserci l’ingegno del cardinal Mazzarino che, per l’appunto, lo volle fin dall’infanzia conciato in abiti da fanciulla, usanza che il futuro abate non abbandonò mai davvero del tutto se, come si riferiva nell’introduzione del volume, facendo fede alle testimonianze del Marquis d’Argenson, pure in vecchiaia si poteva sorprendere l’abate in gonnella, «con orecchini e nei di velluto, intento magari alla stesura d’un capitolo della sua monumentale Storia della Chiesa». Anche per lei, da un certo punto in poi, non c’era più stato il modo di dimenticare quegli abiti, per infrattarsi magari in qualche facile attenuante. Di tutta l’archeologia casalinga, da bambina conosceva piuttosto bene solamente l’apparato non umano, la mistura di polveri e unguenti, le seconde pelli tramutate in nuovi organi che, a sua discolpa, erano l’unico modo per farla rinascere, ora fasciata di cipria, tutta un polline luminoso, ora assorta in qualche dinamismo vegetale, nell’organza come nel crepon, che la rendevano più vicina alla corteccia, la cui sorte – pensava – doveva essere in un certo senso vicina alla sua, spaccata e senza rimedio; i colori erano ugualmente forme destinali, poiché intuivano, come lei, di doversi mischiare, di essere qualcosa in più di quell’arida solitudine ostentata dalle stoffe raggruppate, ognuno a seconda della propria colorazione, negli armadi di casa, in un ordine che, pure, lei ammirava e che doveva avere, ai suoi occhi di bimba, un effetto simile a quello della stupefazione, tipicamente veneziana, che coglieva i visitatori di una “biblioteca del colore” nascosta nell’isola veneta, e che altro non era che il magazzino di una vecchia fornace per la fabbricazione di tessere da mosaico, dove si era deciso – non senza ingegno – di conservare un’enorme campionatura di smalti, le cui variazioni prendevano il nome di blu di Prussia, di borgogna, di tabacco, di glicine e di grigio genere, di rosso veneziano, di turchese, che poteva essere pallido o scuro, fino ai titoli più singolari, come terra d’ombra e – soprattutto – uovo di pettirosso, colore legato, nel suo immaginario, più ancora che alla nota scatola di gioielli, alla stoviglieria che la madre aveva ricevuto in dono appena sposata, senza che mai ne avesse fatto uso, poi riposta in qualche segreta credenza affinché proprio lei, nel gioco, la ritrovasse. Tale minuzia di interessamenti, perseguita prima di conoscerne lo scopo, trovava conferma in una certa familiarità infantile con l’angolo dove la sarta del paese aveva ricavato il proprio laboratorio, e che adesso, a trent’anni di distanza, si trovava a costeggiare nel tragitto verso casa, con passo indebolito. Spesso la memoria slarga le forme, le fa sbadigliare, ma già nell’immagine che aveva conservato da bambina il laboratorio era uno spazio modesto, stracolmo, soprattutto durante l’inverno, oltre che di cappotti e tailleur, imbastiti per qualche occasione, anche di uno sciame di esemplari sfiniti, di creaturine di stoffa, malconce, fatte a metà, lasciate lì in cerca di rattoppo, per rammentare al corpo la sua vocazione di forma incompiuta. Tra la mensola e una finestrella da cui gorgogliava un poco di luce, appena sopra il mobiletto con la vecchia cuccuma del caffè, stava un manifesto dove un ometto, vestito di grigio e giallocastagna, reclamava, con buffa penuria di capelli: «non ho tempo e serve tempo». Questo motto, pensava, doveva appartenere anche alla sarta: ne ricordava l’andatura svelta con la quale si muoveva tra le cose, protetta da un’armatura di tweed che era solita vestire, sulla quale svettava, come un puntale rilucente, una collana amarena che scendeva lungo i seni, provvedendo una sorta di severo incantamento. In quel regno di ditali e bottoni, che erano uguali a biglie schiacciate, di pelle con la croce incisa, di metallo, di cocco o madreperla, da bambina nata maschio – perché proprio lì dentro la differenza era ancora più esposta – aveva trascorso interi pomeriggi percorrendo stoffe spiegate a terra dalla sarta, sulle quali poteva stare a piedi scalzi, osservandone il segreto giardino di tramature, colmo di intrecci, un momento di sghimbescio, un altro a testa in giù, gessando di tanto in tanto quell’arboreo labirinto con segni di rivolta, di secca rivendicazione, di cupo orgoglio, in una sorta di cabala sartoriale, o di diario, inventato lì per lì nel tentativo di risolvere la sua figura già così scomposta, e che, vista la presenza del gesso, impugnato come altri bambini avrebbero fatto di fronte a una lavagnetta, si sarebbe potuto chiamare «il diario dei graffi degli annali d’ardesia», secondo l’espressione di un poeta russo, Osip Mandel’štam, con cui condivideva il genetliaco, 15 gennaio, e la cui vita di scrittore furibondo, gemellato con le stelle, veniva forzatamente chiusa dalla morte nel gulag di Vtoraja rečka durante le Grandi purghe volute da Stalin. La sarta amava puntecchiare le giornate con storie di tramandi, di favole sbeccate, di ciarle e futili discordie, ed era stata la prima a iniziarla a quell’usanza il cui ricordo, dopo anni di abbandono, l’aveva spinta, per via di un articoletto di giornale sfogliato distrattamente qualche mese prima, a fare ritorno al paese, come se un cumulo di gelo improvvisamente svaporasse, riportando alla luce una fascina di memorie strette insieme da un unico nodo di attaccamento e livore, e per ciò pronte alla combustione. L’usanza era quella dell’acqua di San Giovanni, che si preparava tutti gli anni la sera del ventitré giugno, tenendo all’aperto, in una grossa tinozza di latta colma d’acqua, un poco d’iperico, fiorito in quel mese per scacciare i diavoli, insieme, tra le molte combinazioni possibili, alla mentuccia, alla salvia, al rosmarino, alla malva, al papavero, al finocchio selvatico, al timo e all’erba luigia, affinché la notte concedesse la sua rugiadosa protezione, capace di sciacquare, la mattina dopo, malocchi e malefatte. Lasciandosi il laboratorio alle spalle, le si parava davanti un tremore di ombre raccolte in fila, chinate su due schieramenti di secchi organizzati alla bell’e meglio dalla sarta, la quale, ricordava, faceva dono di quell’acqua benedetta all’intero vicinato, soprattutto ai bimbi, che ci cascavano dentro con la testa, seguendo, nella mescola con i fiori, quell’impeto a novarsi che ognuno segretamente custodisce, e che lei viveva come un’obbligazione non solo di giugno, ma durante tutto l’anno, sicché si trovava imparentata con i più piccoli rituali d’attesa, e con le feste che da essi prendevano origine. «Recitare salmi e preghiere», le diceva a tal proposito la sarta nei giorni d’Avvento, «è come preparare culla, lenzuola e fodera al bambin Gesù», e nel frattempo, con noncuranza, riprendeva a pigiare il pedale della macchina da cucire. Ma quella zoppa diceria detta a mezza bocca, quel rosicchiare il calendario nell’aspettativa di un parto miracoloso, batteva su un metallo interno, risuonava in lei attraverso tutte le pareti del corpo, quasi già sapesse di doversi mettere da parte il proprio corredino; che nessun altro l’avrebbe fatto per lei: c’era da educarsi ad affrontare la metamorfosi dei grani e degli acini. Ora rifletteva su tutti quegli esseri ugualmente in attesa di essere sgravati una seconda volta, millenaristi del corpo nuovo, e, all’estremo opposto, anche su quelli aggrappati al nodo scorsoio degli antenati, allenati ad aspettarsi qualche sciagura intestina, chi un osso traviato da un morbo antico, chi una strozzatura improvvisa del sangue – quelli, cioè, covati dalla morte ancora prima di nascere. E, tra le due numerose comitive, stava beffardamente la fragola d’argento che il celebre conte Potocki, dopo averla sottratta a una teiera, prese a limare per intere giornate sino a ridurla a una sfera, piccola abbastanza da entrare nella pistola con cui si sparò, avendola fatta prima benedire; il conte partorì insomma la propria morte, con una pazienza sconosciuta ai vivi.

Se il laboratorio scompariva dietro le sue spalle, s’infittivano davanti a lei i segnali che silenziosamente annunciavano il creato domestico, l’universo per anni raggrinzito in un’unica noce di terra: casa dei genitori, fatta costruire a Marzotto da chi c’era andato ad abitare con loro – la fulva Padrona, la Sghemba, così chiamata a causa di tutte le sghembure: sua nonna. Era nata, per così dire, dentro un grande scampanare, nella prima metà del secolo scorso; nata, cioè, già ficcata dentro il convento, in cui il padre suonava le campane e da dove i frati francescani cercavano, per come potevano, di rammendare la campagna attorno, scucita dalla povertà in tanti piccoli appezzamenti di desolazione: il mondo giallograno, temporalesco, mai veramente selvatico, delle scottature e delle malandanze, dei furori e dei pigiamenti, dei vestiti bucati, delle cagne, delle vacche, del loro lento massacro, delle fatiche e dei mestrui, dei ninnoli e delle bagatelle, dei padroni coi loro editti di sciagura, delle favole che arrotavano i coltelli, d’una comune sorellanza con la sorte che acciacca – il mondo contadino, lì lì per sparire, ma per sempre imperduto. Adesso, ripensando a come doveva essere il convento duranti i primi anni della Sghemba, s’immaginava il refettorio tutto ricolmo di teste inchiericate, di facce avvizzite, di bocche che smoccolavano – simili a una candela mai veramente esaurita – i resti d’una leggenda da lei riscoperta in uno di quei giorni in cui ci s’industria ad arraffare, nei luoghi forse a malapena segnati dagli antenati, la propria origine assente. Ebbene: secondo la tradizione, raccontata, tra gli altri, dal Venerabile Francesco Gonzaga nel suo De origine Seraphicae Religionis Franciscanae, e poi, per altre vie traverse, da Ciro da Pesaro, San Francesco, passando per la selva di Forano «nell’anno del Signore 1215», vi trovò un piccolo ospizio di monaci benedettini, spaventosamente lasciato a se stesso, con accanto una chiesetta dedicata all’Annunciazione di Maria; proprio in quel luogo, dopo avervi scavato una fonte, il Santo avrebbe fondato un convento destinato per diversi secoli a una più ampia fortuna, come non tardò a dimostrare il miracolo di cui si rese testimone un certo frate Currado da Offida, ricevendo, nella notte precedente al 2 febbraio 1289, la visione della Misericordiosa Vergine Maria, «la Reina del cielo col suo Figliu benedetto in braccio», in «grandissima chiarità di lume», secondo quanto riportato nei Fioretti di S. Francesco. Chiarità, questa, che la Sghemba aveva posseduto sin dalla nascita, poiché guercia da un occhio, come il fratello, e perciò abituata a fissare lo sguardo sull’evidenza delle cose che non si vedono. La pensava bambina, sollevata sui due minuscoli piedi, di fronte al vecchio portone di quercia del convento, che risaliva alla primissima chiesetta, e da dove, sempre secondo la tradizione, sarebbe passato il Santo; il portone presentava, oltre a una scritta celebrativa sull’architrave – Haec est illa prisca janua dum hic adfuit S. Franciscus –, anche un contorno di figure tese ad affrescare, con stile gotico, un’Annunciazione di cui oggi rimanevano solo i cenci, le parti ammutolite dallo scrostare del tempo: un’annunciazione di cui s’era perso, coi volti convolti, anche il tema dell’annuncio; e pareva a tratti più una confessione di aborto, uno spalancarsi del portone dentro le viscere dell’affresco, nel buio increato, nel buio dei senza padre o madre, di chi non viene a patti col mondo e si confina per questo tra le mura di un convento; la Sghemba, è certo, aveva assorbito quell’aria di ritiro fino a orfanarsi, perciò le era diventato quasi da subito estraneo il confronto con i compiti terrestri. Quando, sempre da bambina, si mischiavano in lei ardore e diluvio, finiva per fuggire di casa e correre al convento, spogliandosi nuda alla vista della fonte scavata da San Francesco. Frate Valentino, anzianissimo, faceva il giro del giardino, tra la quieta punteggiatura degli ulivi, nel tentativo inutile di rincorrerla, ripetendo tra sé e sé, come con un proverbio: «quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica sotto il sole?». Da lì in poi, zitta e obbediente la Sghemba non lo sarebbe mai stata, neanche quando si trattò di venire a patti con le materie tarlate, di insistere a mettere al mondo una figlia per tutti destinata alla sciagura, perché quel suo occhio di madre, occhio cieco, occhiomapo o torto, spettava con certezza anche alla primogenita, e poi ai figli dei figli – così sindacavano gli esperti del tempo, senza che poi niente si fosse minimamente inverato. Pure, un traviamento doveva esserci, nel sangue sporco e cannibale, di scrofa, di arvicola, di mantide, di pianta avvelenatrice; se non subito, più avanti. Ecco: qualcuno l’avrebbe ora rimarcato vedendola – lei che era il primo nipote maschio – nuovamente per le strade di Marzotto, femmina tra le femmine. E del resto, anche se si faceva fatica a dirlo, l’avevano pensato in tanti già prima, quando il fratello della Sghemba, messo al mondo dalla madre per riparare un altro figlio morto –  figlio dunque a metà, dal corpo eternamente in prestito –, aveva a sua volta generato una creatura con occhi perfetti, ma sgomentata, a varie ore del giorno, da convulsioni talmente violente da farle vomitare una schiuma bianca come la biacca; prima ancora che un morbo, quel “male sacro” era una vergogna da tacere, anche perché la figlia non era stata chiamata da nessun dio a testimoniare: praticamente muta, mai aveva pronunciato una sola parola su quella sua condizione che non fosse un rantolo, lo strozzamento della volontà di vivere. Se Swedenborg, in preda a uno dei suoi tremori, riuscì a risolvere il dilemma su come i corpi divorati dai vermi saranno ricostituiti nel Giorno del Giudizio – così almeno aveva letto in qualche approfondimento sul mistico svedese –, quella figlia dannata pareva invece irrisolvibile: una ferita ancora aperta, senza soluzione cicatriziale.

La Sghemba, la convulsa, la femmina nata maschio… Rimuginando su queste e altre figure, era infine giunta di fronte a quella che era stata la sua prima dimora. Vi sarebbe rimasta un giorno: ventiquattrore; e poi sarebbe ripartita. Giurando sull’acqua sporca e su quella che rinnova, sui morti e sui vivi, varcò con convinzione il cancello di casa.

 

 

santa
Illustrazione di Giuditta Chiaraluce