L’autopubblicità della Dark Polo Gang | di Andrea Capodimonte
In Italia ha preso piede la trap, un genere poetico-musicale imparentato col rap e caratterizzato da strumentali molto dilatate e con gruppi ritmici irregolari provenienti dalla dubstep, che utilizza suoni vintage provenienti dalla Roland TR-808.
Oltre alle basi letargiche e minimali, la voce del trapper non incastona rime ricercate, ma si concentra più che altro sull’assonanza e sulle allitterazioni create attraverso i suoni di slogan ripetuti ossessivamente, senza preoccuparsi del significato, che anzi finisce in secondo piano e risulta solo accessorio. La stessa voce viene modificata attraverso l’autotune, in modo da trasformarla in un suono effettato come tutti gli altri.
In Italia il fenomeno si è tradotto in diverse esperienze, tra cui quella della Dark Polo Gang, la più controversa ma anche quella che si presenta come la più letterale tra le traduzioni del genere.
La crew è formata da quattro membri: Tony Effe, Wayne Santana, DarkSide e Pyrex (detto anche Dylan Thomas), romani, provenienti da ambienti borghesi, che iniziano la loro carriera caricando canzoni sulle varie piattaforme di streaming, tra cui Youtube, che consente alla gang di creare un immaginario visivo sulle basi di parole e musica.
Se il rap nasce come musica che lega inscindibilmente il testo all’autobiografia, utilizzando una lingua codificata secondo gli slang della comunità in cui è nata la voce narrante, con continui riferimenti al proprio dato esperienziale, con la Dark Polo Gang questo scompare definitivamente. Le parole della Dark Polo Gang non hanno più niente a che vedere con l’esperienza personale. I rapper sono diventati personaggi di un reality show, che non raccontano più la loro vita, ma quella filtrata e rielaborata dalle telecamere dei nostri personali Grande Fratello, che sono i social network.
Attraverso internet è più facile venire a conoscenza della musica che circola nel globo e nel Duemila è molto più facile mettersi in mostra, anzi, è molto più facile produrre musica in generale. Proprio a causa di questa facile accessibilità è nata una corrente musicale che ha preso il nome di lol-rap: il rapper si finge un musicista puramente amatoriale che scimmiotta gli stilemi del rap duro e puro, capovolgendo il paradigma e quindi raccontando storie inverosimili, in cui il significato crea un cortocircuito con la biografia riconoscibilmente falsata, per goffaggine o mediocrità dell’interprete. Il genere produce fenomeni molto interessanti, come Yung Lean, svedese principalmente conosciuto negli Stati Uniti, che in poco tempo passa dall’essere uno scherzo ad un musicista serio che fonda la sua poetica sul dadaismo internettiano come rappresentazione di una vita formata esclusivamente nel non-luogo di internet.
Questo e altri fattori finiscono per stemperare il machismo del rap, contribuendo a cambiare l’interprete, ma mantenendone gli stilemi e gli slogan classici, risemantizzandoli di volta in volta col mutare delle tendenze.
La Dark Polo Gang nasce con questa consapevolezza, avendo osservato sia gli esempi italiani, tra cui il TruceKlan, sia quelli a livello internazionale. Il testo della Dark Polo Gang nasce per essere pacchianamente non-sense, l’estetica tamarra del loro abbigliamento e del modo di parlare li rende immediatamente dei meme, materiale appetibilissimo per la rete, pronta a decontestualizzare i vari tormentoni per creare infinite immagini e video mash-up, donando un senso a delle parole che sarebbero altrimenti esclusivamente a supporto della musica e svuotate di significato.
La Dark Polo Gang si aspetta che sia la rete a decidere il senso delle loro parole, aliene, incomprensibili, o semplicemente senza senso, mentre all’artista-entertainer spetta solo tenere alta la recita della vita, tentando sempre di mantenerla una merce appetibile. Il mondo che viene descritto nei testi e che combacia col modo borgataro-kitsch è un mondo dalle identità interscambiabili, dove la stessa esistenza è dedita solo ed esclusivamente al vendersi per consumare roba e per definire il proprio status, in un mondo pubblicitario in cui il rapper si paragona continuamente a marche famose, a calciatori e altri elementi della cultura pop, nati negli anni ’80 del Novecento, ma penetrati anche negli immaginari dei nati nei decenni successivi, finendo per identificare intere generazioni.
Il rap della Dark Polo Gang non è altro che un’auto-pubblicità musicale, in cui l’artista è ormai solamente imprenditore di se stesso.
Andrea Capodimonte