Le confessioni | di Roberto Andò | recensione di Enrico Carli

Genere: Drammatico

Durata: 100 min

Cast: Toni Servillo, Daniel Auteuil, Pierfrancesco Favino, Connie Nielsen, Marie-Josée Croze, Moritz Bleibtreu, Lambert Wilson

Paese: Italia, Francia

Anno: 2016

Toni Servillo e Roberto Andò tornano a lavorare insieme dopo Viva la libertà, più che riuscito film del 2013 che ricevette l’unanime accoglienza di pubblico e critica. In un lussuoso hotel tedesco ai bordi di un lago si tiene un summit internazionale di ministri dell’economia. Tra i convocati, oltre agli otto potenti, ci sono il monaco certosino Roberto Salus, una rockstar e una scrittrice per l’infanzia. Ma l’ospite, il presidente del Fondo Monetario Internazionale Daniel (Auteuil) Roché, viene trovato morto nel corso della prima serata, dopo aver chiesto a padre Salus di confessarlo.

Il monaco Salus diventa così l’unico detentore di una verità inconfessabile proprio perché confessatagli, il McGuffin da cui la vicenda si tinge di giallo da camera – non a caso Andò si sbarazza presto del duplice accostamento hitchcockiano, sia “confessando” per tramite di un personaggio la somiglianza dei soggetti (Salus vieni inquisito in quanto probabile omicida come il prete di Io confesso), sia spostando il centro tematico su altre tonalità di genere, via via decentrando l’attenzione dall’enigma e da ciò che l’ha generato.

Come è già stato notato, per temi, ambientazioni e toni il film richiama Todo modo e Youth, ma Andò sceglie un registro meno grottesco di quello di Petri e condivide con Sorrentino la passione per la sentenza e la citazione, cosa che rende le battute d’effetto e spendibili quando si vuole colpire qualcuno, col rischio però che si venga accusati di parlare come un libro stampato. Ma fin qui si sta al gioco, perché Servillo è un fuoriclasse e potrebbe, come già Gassman, tenerci avvinti a una lettura della lista della spesa, tanto meglio se deve citare Sant’Agostino. Strada facendo, purtroppo, nell’autoriale esigenza di voler uscire da ogni classificazione di genere (compresa quella del giallo dell’anima, che è già un ibrido) e voler rendere il discorso ancora più “alto”, il sermone più efficace, Andò e il suo cosceneggiatore Angelo Pasquini accumulano altre piste che non ci erano state presentate a dovere, e il risultato è un patchwork che più che di difficile identificazione sembra averla smarrita, un’identità.

Il saggio, colto, poco ortodosso monaco Salus è la chiave di volta spirituale in un contesto in cui perdere l’anima è meno sconveniente che possederne una, e anche se, viste le premesse, si sta naturalmente dalla sua parte, c’è qualcosa che non funziona nell’ossatura, come per esempio il tentativo di depistare lo spettatore più smaliziato attribuendo al monaco un vizio segreto (il fumo) e un’ossessione “francescana” (il canto degli uccelli) che lo rendano più umano – e non solo il portavoce spirituale dell’implicita denuncia al potere materiale.

A proposito invece dell’economista italiano di Pierfrancesco Favino, la cui interpretazione è piaciuta generalmente poco alla critica, vorrei citare un’intervista in cui l’attore dichiara: “Mi sono ispirato a questo tipo di persone quando fanno questi summit, rivolgendosi ad una platea che in qualche modo già sa che cosa avranno da dire. Si assiste ad un distacco fra il corpo e la voce, come se la voce non raccontasse nulla di empatico”. In questo senso le intenzioni mimetiche di Favino mi sembrano riuscite; il tono della voce non si modula sulla fissità magnetica dello sguardo, così che il suo ministro, in assenza di empatia, possa proferire le parole più feroci (contraltare alla pietà che professa il monaco): “Sono giunto alla conclusione che l’uomo è impotente, e con ciò intendo un miscuglio di arroganza e mediocrità”.

Si prenda, a confronto, il recente Il club di Pablo Larrain, simile per certi aspetti a Le confessioni (i titoli potrebbero essere intercambiabili), dove però il discorso sul male si attiene a una tesa, efficace drammaturgia. Il discorso sul potere di questo film di Roberto Andò invece s’incarta su se stesso, e gli elementi fantastici che giungono come a voler riscattare l’epilogo dall’impasse hanno l’effetto contrario; uno di quei casi in cui si può dire che la chiusura del cerchio non giova al disegno generale.