Le verità di “Ecce femina”. Così parlò Cavalera

Ospitiamo oggi un saggio di Antonino Contiliano che affronta la conflittualità contemporanea del movimento femminista, a partire dal pensiero di Nadia Cavalera, dalla sua enigmatica opera Ecce Femina (1994) alla curatela di Umafeminità (2014), antologia poetica che denuncia la crisi dell’umanesimo patriarcale.

Cosa pensare e dire, a lettura ultimata, del volume della Cavalera Ecce femina, che raccoglie “CI” (Centuno) testi latini tradotti in italiano e in interlinea, con a fondo pagina un commento in parallelo? Crediamo che sia un interrogativo cui nessun lettore sfuggirebbe nell’affrontare le pagine di Ecce Femina. Per quel che ci riguarda, siamo di fronte a tre mondi paralleli (del resto non c’è discorso in versi o altra forma che non proponga un “mondo”). E se le forme sono tre, anche tre saranno i mondi accessibili e compatibili, una volta conosciuti i linguaggi, le regole e le determinazioni che ne veicolano il pensiero e le particolari verità possibili, o modali. Tre sono anche i soggetti implicati nei testi: Lumilla, Nadia, Kristina. Se leggissimo questi testi solo in termini di “parodia”, il nostro punto di vista apparirebbe inevitabile: l’equivalenza semantica e del senso dei tre mondi è nel fatto che le verità, di cui sono indicazione, hanno lo stato di astratte verità credibili (un modo epistemico di conoscenza per niente incompatibile con la logica binaria; in gioco entra, infatti, la realtà del contesto storico-ambientale e il confine in cui le tre figure intersecano concetti, proposizioni e oggetti di diversa tempera etico-politico conflittuale).

Ecce Femina (Altri Termini, Napoli, 1994) di Lumilla Cavalera è, infatti, un libro di testi “poetici” che Nadia Cavalera ha tradotto dal latino “d’epoca”– frutto di un ritrovamento). Dal canto suo, a Marcello Carlino, che è prefatore dell’opera, non sono mancati gli interrogativi. Domande poste in ordine alla filologia della traduzione e dell’identità dei tre soggetti – Lumilla Cavalera (autrice?), Nadia Cavalera (traduttrice?), Kristina Donnicola (commentatrice?) – che si co-scrivono co-costruttori per ognuno dei “CI” (n.101) testi del libro, che nel volume si presentano impaginati come un unicum sfaccettato. Il firmatario del volume è sì “Lumilla Cavalera”, ma il nome di Cavalera è Nadia, non Lumilla (Lumilla è “Anna Aureliana Galeria Lumilla Angusta”, p. 5).

Ma questo unicum, secondo noi, è anche tale per il fatto che tutti i testi che ivi parlano delle proprie “verità generali” (generiche), e nella forma di aforismi in versi, hanno una certa omogeneità stilistica “letterale”. Versi che dal latino sono tradotti in italiano e in interlinea (senza particolari rilievi di modifica nella stessa sintassi); per ogni pagina, inoltre, in fondo ad essa, l’azione di straniamento di un commento in chiusura con altra sintassi e semantica. Un tessuto discorsivo complessivo che, rielaborazione euristica (crediamo), è intersezione di linguaggi come espressione teoretico-critica veramente sorprendente (direi frutto di una “logica induttiva” – non vero funzionale –, ma egualmente portatrice di nuovi sensi conflittuali, sebbene espressione discorsiva semanticamente aperta, ma non estranea all’uso saputo di certa tecnica costruttiva del verso). Uno-due-tre è poi la poeta “Lumilla Cavalera” come unitaria articolazione è lo stile della traduzione, lì dove la tecnica delle “parentesi”, per esempio, blocca e al tempo stesso dilata i versi tradotti e riproposti in sintassi ri-formata. Così l’identità di-pluri-dipolo del soggetto – Lumilla Cavalera – poeta si ripropone anche sul dorso della copertina del libro, mentre il suo titolo si nomina “Ecce femina”. Un sintagma piuttosto provocatorio, per non dire mitico, per il rimando quasi immediato all’ecce homo di Ponzio Pilato. Il governatore romano della Giudea che consegnò Cristo al popolo che lo voleva comunque colpevole, condannato e ammazzato in croce. Quel “Gesù” che alla domanda del governatore – ma tu chi sei –, il povero cristo avrebbe risposto: “qui adest” (chi ti sta davanti). Ora, nel caso del libro Ecce femina, il “qui adest” (associabile e trasferibile per generica ed astratta-estratta somiglianza) è anche, crediamo, l’ecceità come principio eteroclito (un presupposto ad hoc, e potenza generativa di una combinazione insolita di proposizioni in versi e commenti in discorso). E ciò, in tempi di triste semplificazione del logos e sciatta stereotipia a-conflittuale, ammannita dal potere dominante, come scientifico assoggettamento sacerdotale, non è cosa da passare sotto silenzio. Il silenzio sarebbe un crimine a danno del poetare-contro-verso e della diversità della mente della “femina”:

“ultima linea rerum est mors, / Ultima linea delle cose è la morte,

alienis bonis acerba / acerba per gli altri beni //  […] //

E brilla nel cielo della sua mente la verità come una mina telecomandata. La diversità sta nell’opposta aspirazione ad un assetto scientifico e alla sacerdotalità” (XIX, p. 31).

 

Perché l’“ecceità” della femina, recita un altro testo, è la ricerca nelle diramazioni del mondo:

«saepe vos inveniri nescio. Mundi / Spesso non so trovarvi. Del mondo

audax gloria: corda meminisse / audace è la gloria: gli animi di ricordare / […] /

la mente ha orrore (conosce dove sta la virtù) / […] /

e audace la fame preme / può /  […] /

Partorirò ciò che / foemina può di verità. Caeli/ […] /

[…] nasca qualche vendicatore / […] /

Io perisco: dei fanciulli la verità vane / esercita minacce (beato chi / […] /

abbandona l’uomo» (LV, p. 67).

 

La nuova ecceità è, dunque, se possibile e necessario, abbandonare l’umanità dell’uomo per un’umanità al femminile, scrive Nadia Cavalera. Lo scrive e lo propone però in Umafeminità (Umafeminità – Cento poeti* – Per un’innovazione linguistico-etica, Joker, 2014). Un’opera antologica (posteriore a Ecce femina), che denuncia la crisi dell’umanesimo coniugato solamente al “cogito” del patriarcale io rational irrazionale (riproposto come verità eterna dall’attuale mondo, il global-capitalismo neoliberista), ma non fuori sintonia con le enunciazioni e le verità di quella.

Di questo lavoro (per inciso) già avevamo notato la progett-azione di una coralità poetica come divenire-poesia-impegnata e mediatrice sul fronte di una “parola/lettera” collettiva, che volgeva in direzione metamorfosante (Antonino Contiliano, a questo link). Un’azione cioè che investiva la parola come conatus politico-sociale modificante i luoghi comuni del “maschile”, quelli ormai fuori luogo quale aggregante persuasivo generale e attorcigliato nella spirale delle guerre del terrore, delle paure securitarie, degli infanticidi, dei femminicidi o, per dirla spinozianamente, delle “passioni tristi”, etc. I poeti, ivi raccoltisi in attivo poetare plurale di soggetti diversi, così condividevano i propositi di questa interazione atta a modificare la condotta pratica delle relazioni umane concrete, lasciando che la teoria si facesse corpo e insieme comportamenti coerenti con le nuove pratiche delle soggettivazioni non violente. Pratiche “foemine” sottratte all’arché (principio e dominio) del maschio, “invidioso” della potenza generatrice della “femina” (capovolgimento del dogma freudiano: la donna come l’essere che è invidioso del pene maschile; un maschio mancato?). L’opera così avanzava una proposta più che innovativa, una vera rottura paradigmatica! Un taglio che toccava sia la lingua sia la praxis comunicativo-politica di ciascuno e tutti.

Direi così, in conclusione, che è necessario, divenendo l’essere e l’esserci nel tempo, continuare la scrittura poetica come molteplicità d’essere e forme espressive sperimentali quanto conflittuali e poli-referenziali. Una varietà che l’evoluzione temporale prospetta, proprio perché la società contemporanea l’è avversa e l’avversa come distorsione rispetto al piano globale che persegue l’omologazione estetico-estesica? – l’estetizzazione mercificata –, cioè la negazione delle relazioni fra le differenze delle “cose” e degli “oggetti” del pensiero critico (differenze che, fra l’altro, sono proprie alla globalità stessa, come un insieme di forze in supposto rapporto dialettico fra di loro; lì dove invece le diseguaglianze etico-politiche e sociali fioriscono continuamente). L’evoluzione e le sue variazioni geo-planetarie e storiche, per altre vie, sono del resto un insieme piuttosto complesso. Una complessità di cui nessuna disciplina e sapere, in fondo, può dire “io” so tutto, ma è di sicuro pure che il modello in corso è affatto condivisibile. Esistono processi nell’evoluzione e nelle rivoluzioni dei rapporti che nessun sa come funzionano se non a costo di speculazioni e supposizioni, se è vero, infatti, che Kristina Donnicola (Lumilla Cavalera, Nadia Cavalera?)  pensa e scrive che occorre «distinguere la storia dell’essere dall’essere storico politico» (LIV, p. 66) e che «il senso di queste parole è molto contrastato e non si può qui neppure accennare alle molte divergenze alla quali dà luogo. Nessuno di voi se n’è accorto» (lV, p, 67).

Non esiste globalità senza relazioni, o, in senso generale, un’estetica delle parti della globalità senza contatti e interferenze mescolate (chiare e scure…). Non esistono percettività di una singolarità, o di una collettività, ristretta o allargata, e geografie diverse che non coinvolgano un individuo e il pianeta, il cosmo e il caos come un “conatus” di quiete e moto in continua evoluzione, rimescolamenti e, a suon di modelli e rapporti di potere esclusivi e inclusivi, riadattamenti organizzativi.

Necessario è allora continuare a scrivere poesia e sperimentarla con/in nuove espressioni; e non è affatto necessario che sul mercato della comunicazione abbia simmetrica armonia (sebbene possa presentarsi riflessiva e transitiva). È proprio perché la società avversa il dissenso nei confronti delle forme che deragliano, è kairós che si rimescoli e ibridi i linguaggi che lo dicono: la sperimentazione scopre nuove cose, inventa nuovi termini e parole per organizzare diversamente la realtà del mondo; e ciò in modo da controllare che l’“estetica” dei rapporti tra il mondo e il modello (perseguito per formarlo) non sia ridotta ad “estetizzazione”, o stereotipo pubblicitario di consumo e mercificazione dell’immagine.

Necessario allora è interessarsi all’estetica passando attraverso ciò che estetico non è – come può essere il portato di certe “verità generiche” ma contestualmente possibili –, e far lavorare la dimensione variabile dell’in-forma-zione, della plasticità della lingua e della vita come realtà evolutiva in relazione e passione. Il sapere-potere speculativo della globalizzazione capitalistica estetizzante può negare e guerreggiare ciò, ma – dice Lumilla Cavalera – è «di nuovo la violenza della passione che permette al “diverso”, all’escluso dalla vita, di immergersi in essa registrandovi quelle eterne pulsioni che agitano» (XIV, p. 26) l’animo, perché «mutatisi mutandis / […] il comando di risparmiare i subietti / […] / non è da discutere» (XV, p. 27); perché «mentre si proporziona l’atto dell’amare – scrive sempre Kristina Donnicola (ivi) – si deve verificare seriamente la preparazione o l’impreparazione socialista».

Antonino Contiliano

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