Le vie di “Prove aperte” di Marco Palladini | di Antonino Contiliano

Solo le crisi delle ragioni possono istruire la ragione.
Gastone Bachelard, La psicologia della ragione

 

Prove Aperte, opera edita da Fermenti Editrice (Roma, 2015-2017), è libro (due volumi) che, tra il XX secolo e il XXI italiano, scrive il/i focus del/i teatro/i italiano/i e dei suoi protagonisti dal punto di vista di una logica polimorfica, plurale. Come sottotitolo l’opera porta la seguente dicitura: “Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato (1981-2015)”. Non a caso, come scrive lo stesso autore nella nota che ne accompagna la pubblicazione, il suo sguardo è arco zibaldonico; ma non per questo l’iter dell’attraversamento è tuttavia privo di un orientamento d’ordine teorico-pratico. C’è una scena “teatrica” (per usare un termine proprio allo stesso Palladini come direttore della web-review, www.retidedalus.it) che viene fotogrammata come pluralità polimorfica del far teatro in Italia dal 1981 al 2015.
In questa panoramica differenziale, il nostro autore, naturalmente, non è solo un osservatore e critico dell’altrui lavoro teatrale. Scrittore, poeta e regista egli stesso, il nostro autore è anche un soggetto-attore singolare. Un punto di osservazione e azione posizionata che, impegnato, non esita a esporre all’occhio altrui le proprie scelte e le pratiche teatrali di rottura di cui si fa portatore, o fratello, o prossimo. Così, per veloce batter d’occhio ed esempio sintomatico, il lettore che vorrà provarsi a leggere le pagine di Prove aperte troverà che accanto alle diverse personalità (quasi un censimento) di attori, attrici e soggetti dediti all’attività teatrale c’è dell’altro. C’è infatti sia il ciglio aggrottato del taglio impegnato sul glamour becero, osceno osceno e scemo del teatro neo-pop di regime corrente e sedativo; sia la condivisione appassionata con la sperimentazione sonoro-vocalizzante e fono-sillabo-gestuale di Carmelo Bene; sia la prossimità alla fusione arte-vita del Living Theatre et alia; sia le dichiarazioni, giustificate, del proprio far teatro di poesia coinvolgendo attori come Antonio Campobasso, l’anomalo fratello (compagno di lavoro per una sola volta: impossibile lavorarci insieme una seconda volta!); sia la poetica del masticare e rimasticare le proprie e altrui parole per rivitalizzarle in partiture ritmiche mutanti poetiche (il suo, di Marco Palladini, è un teatro di poesia!).
Sono le messe in atto musicale-teatrale di certe scritture scenico-verbo-sonore – Al calor bianco (allestimento performativo) – che, a ritmo turbolento e aggressivo, pescando nell’oscuro dell’animale umanizzato ed esponendosi al regno del “qualunque” con le devianze incontenibili e proposte in posti extracanonici, hanno sfidato pure il rischio non previsto. Una per tutte, è l’esperienza al limite che Palladini ha portato in terra dei “Mocheni”, un genia di isolati e (in toto) degenerati sia per nascita che per recinzione e modo di vita. I Mocheni sono gli abitanti di una valle a «soli venti chilometri da Trento, […] una valle che è rimasta per secoli una valle chiusa, dove venivano confinati tutti i tipi devianti, delinquenti, bizzarri e fuori di cervello della zona […] una sorta di prigione a cielo aperto. […] In questa Valle-galera si sono riprodotti per secoli tra consanguinei, generando soggetti spostati, psico-deformi, mattoidi e criminaloidi e scimuniti in quantità. […] Ovvio che trovandosi in una situazione musical-teatrale imprevista, con sonorità che non gli consentivano di dimenarsi e di sconvolgersi, i Mocheni presero parecchio ad innervosirsi, a sbuffare…» (Campo (ob)scenico di battaglia, in Prove aperte, vol. II, p. 283).
Per il nostro autore l’azione teatrale è, sì, un intreccio con la poesia (se vuole continuare a vivere…), ma è anche una mimesi-praxis da ‘combat’!
In ogni modo Marco Palladini è testimone della resistenza e del persistere dell’attività teatrale variamente dislocata e attenta alla produzione altrui. Uno sguardo plurale e non certamente votato all’agonia. In una storia italiana del teatro che sembra volerne certificare se non la morte, il suo essere “minoritario” (e “minoranza” in via di estinzione), Palladini, confrontando però i registri della Siae, verifica che i biglietti venduti per l’anno teatrale 2011 sono tutt’altra spia. Confrontando le cifre con il numero dei biglietti staccati per le partite di calcio, scopre così che «ad onda di una flessione del 3,1 %, il box-office ha registrato 22,3 milioni di biglietti staccati. Tanto per capirci nello stesso anno il calcio ha toccato la cifra di 22,6 milioni di biglietti. Che cosa concludere? Che anche il calcio (almeno come evento dal vivo) è minoritario? » (Teatro minoritario? – Gennaio 2013), in Prove aperte, vol. II, p. 187).
L’aspetto di “minoranza” dei teatri plurali però, deleuzianamente, ci dice un’altra cosa; ci dice che sono le minoranze ad essere numerose; e ci dice altresì che è la categoria della maggioranza invece ad essere in crisi di minoranza e in declino. Maggioranza e minoranza, scrive Gilles Deleuze, è questione di modelli e non di numeri. Ed è in questa accezione rivoluzionaria e impegnata che, secondo noi, Marco Palladini colloca il suo teatro di “minoranza”, una lingua cioè che fa balbettare la lingua della maggioranza come una ripetizione senza mutazioni; lì dove invece propone e pratica una singolarità teatrale-espressiva che si sperimenta in divenire permanente; un’insonne “avanguardia” cioè (non pensiamo che la parola sia fuori posto) che ascolta e batte criticamente il polso del tempo come “auttore” e soggettività protagonista oggettivata nel suo fare-divenire teatro sperimentale e scrittura scenica “sofopoetica” e “sofopolitica”. In ogni momento/durata del suo farsi teatro-scena, Marco Palladini si sperimenta come singolarità: nuova ‘individuazione’ (l’individualità dell’individuo pre-formata non gli appartiene).
Minoritario. Minoranza. Singolarità. Scrittura scenica. Sofopoetica. Sofopolitica. Avanguardia. Sono termini, meglio espressioni, queste, che nel linguaggio dell’azione teatrale (solo per agganciarci a una parte delle categorie aperte (analitiche e concettose) richiamano necessariamente l’attenzione al secolo deleuziano, la temporalità scardinata che il nostro ‘auttore’ sembra incarnare senza reticenza alcuna.

Alla fine del XX secolo, in un tête-à-tête dialogico con Gilles Deleuze, Foucault ebbe a dire che il XXI secolo sarà deleuziano. Marco Palladini con i suoi “multi ego in movimento” e la sua sperimentale ‘individuazione’ ne attualizza la facies teatrale, mentre Deleuze e Foucault ne hanno messo in scena i drammi del pensiero come filosofia in azione; un’azione che strappa il pensiero nomade alla rappresentazione classica dello spettatore che non agisce, lì dove occorre invece farsi spett-a-ttore.
Sono gli sconvolgimenti eretico-teorico-pratici che il pensiero di G. Deleuze e F. Guattari, con quelle chiavi di lettura, hanno immesso nel circuito della storia moderna in ebollizione e in divenire come ‘diveniri’ (in questa sede naturalmente vogliamo dare solo l’orientamento del nostro modo di sbirciare quanto il libro di Palladini ha visto e letto sul teatro di quegli anni). Egli ha registrato non solo il buon teatro, ha denunciato anche le esperienze non creative e responsabili di connivenza col potere dominante, con i saperi costituiti fiancheggiatori e con le critiche dei critici compiacenti.
Così lasciamo che ogni lettore, se può e vuole, vada a spulciare il ventaglio dei numerosi contatti che Marco Palladini ha messo sotto le lenti di ingrandimento del suo microscopio singolare. Specie quando ha costruito le sue azioni scenico-teatrali da auttore, o delucidato il suo pensiero teatrale durante i dialoghi fatti tra una intervista e un’altra (testi essenziali sia per addetti ai lavori che per un pubblico più vasto). Utile precisazione anche sul ‘ri-uso’ dell’estetica dello straniamento di B. Brecht. Una applicazione rivisitata dal momento in cui il Novecento ha sanzionato con i suoi eventi etico-politici catastrofici che il “Male” non è solo della/nella storia economico sociale e nei suoi rapporti di forza asimmetrici. Il male “sadiano” del piacere vitale è nella vita stessa della natura e dell’uomo, così che l’ideologia brechtiana, nonostante l’utopia del suo razionalismo critico marxista e della sua poesia, non pare che ignori il problema del male e del fallimento dell’utopia. «Tranne, in parte, Gruscia, le eroine buone del teatro brechtiano sono, infatti, delle perdenti. […] Niente lieto fine per le utopiche anime belle, invece amarissime conclusioni con trionfo dei cattivi […] Possiamo aspirare ad essere i figli di Abele, però dobbiamo sapere che siamo, prima di tutto, i pronipoti della tribù di Caino» (Ragionamenti d’autore per un ri-uso di Brecht (A quarant’anni dalla morte) – Gennaio 1996, in Prove aperte, volume II, p. 218.). Ri-uso di Brecht, scrive Palladini, nell’epoca del crollo dell’utopia ideologico-politica brechtiana, significa intervenire sull’assetto delle responsabilità della forma e ricercare «una nuova interfaccia tra l’orizzonte problematico e aperto e transdefinito dove cade, forse come mise en âbime, la nostra interrogazione di senso, e la forma compositiva teatrale. Vale a dire come cercare di riannodare con lucida strategia, poetica ed estetica» (Ibidem, p. 216). Così se la verità non è possibile, almeno la speranza e sebbene “Spes contra Spem”. Se la verità co-abita con le lacune, i vuoti, la perdita, la sottrazione …, che la ricerca del senso, del valore e del pensiero critico non vengano almeno meno!
È nella storia così com’è, scrive Palladini, e non come vorremmo che fosse; una storia cioè che deve fare i conti con le verità di potere del più forte sui più deboli. Darwin e il Mercato confermano. E il ri-uso brechtiano di Marco Palladini – come lui stesso testimonia – è nel «personale approccio ‘sadiano’, […] laddove il rinvio sadiano – è – alla naturale materialità delle pulsioni-ragioni del corpo desiderante (erotico-teorico)» (Ibidem, p. 218). Perché la materialità del corpo e dei bisogni è avanti qualsiasi ideologia.
E chi volesse seguire il “ri-uso” brechtiano, potrebbe, a questo punto, se può, godere degli spettacoli allestiti o progettati sotto il nome di Giovanna: la Ballata degli Squali e Giovanna dei Processi.
Chiudo confessando di aver letto con passione partigiana questo lavoro di Marco Palladini. Le sue “imprudenze” metodologiche, per dirla con Gastone Bachelard, sono accattivanti, illuminanti. E allora buon viaggio in fondo alle parole di questa erranza teatrale palladiniana nel Caos e nel Fuori in compagnia dei giorni che non sempre sono gli stessi, così come accade nei dommatismi di ogni epoca. La ragione per crescere ha bisogno delle crisi delle ragioni e, con spirito shakespeariano, trovarci pronti nelle intemperie materiali e storiche di cui ogni ‘instant’ è irrefutabile testimone.
C’è qualcuno che è fuori?

Marsala, 31 maggio 2018