L’eco di uno sparo. Massimo Zamboni. Einaudi, 2015. (Recensione di Giuseppe Merico)

Massimo Zamboni è stato la chitarra storica e fondatore assieme a Giovanni Lindo Ferretti di quel gruppo punk rock emiliano che andava sotto il nome di CCCP, Fedeli Alla Linea che attraversò con i suoi testi e la sua musica fortemente politicizzata gli anni ottanta e che ancora oggi risulta essere un’inesauribile fonte di ispirazione per numerose band italiane. Artista esplicitamente di sinistra e penna di numerosi testi del gruppo, Zamboni non è nuovo alle incursioni nel mondo della narrazione. L’eco di uno sparo è un libro sulla memoria, frutto di una minuziosa ricerca d’archivio che l’autore compie spinto dalla necessità vitale di scoprire qual è il nome che aveva, il suo personale, Massimo e Ulisse, primo e secondo nome (cita Cita Anna Maria Ortense che in suo breve saggio dal titolo Corpo Celeste scrive: “L’inquietudine è questo, ricercare senza tregua, il nome che avevi”), e quello collettivo, della sua gente, gente della sua terra, quell’Emilia Romagna che vede in Reggio Emilia e circondario un progressivo affastellarsi di nomi, piccoli e grandi, e di storie, anch’esse grandi e piccole, che forniscono al lettore un disegno preciso di una parte della Storia italiana.

Il 29 febbraio del 1944 un uomo di quarantanove anni viene ammazzato, sta percorrendo in bicicletta uno stradello della campagna emiliana, “gli sparano in tre, da dietro; in corsa”, tre colpi. Quel giorno Zamboni perde suo nonno Ulisse, Membro del Direttorio del Fascio di Reggio Emilia, i sicari, “gli sparatori” fanno capo alla 37a Brigata GAP, il loro Bollettino recita: “Giustiziato uno squadrista già segretario politico di Campegine”.

Diciassette anni dopo, il 16 marzo del 1961 un secondo sparo uccide. L’eco del primo sparo, viene attutito, si smorza, si zittisce, in mezzo viene scritta la storia familiare di Zamboni. A morire questa volta è Rino Soragni, prima comandante e poi vicecomandante della Reggiana 37a Brigata, il suo nome per incarichi partigiani è Muso. A sparare è il suo amico, prima vice e poi comandante della Brigata, Alfredo Casoli, nome da partigiano: Robinson.

“Il sangue degli oppressi scorre di colore uguale al sangue degli oppressori, mescolandosi ripetutamente, scivolando verso il basso per vie misteriose fino al fiume Po. Resta a noi onorarne le differenze”.

In mezzo con una voce partecipe, coinvolta, che vuole e sa rendere conto al lettore, ma prima ancora e prima di tutto a se stessa, Zamboni canta la sua terra, le creature che la abitano, gli animali: le mucche – al bésti, il maiale – al nimèl. “Altre razze non ce n’è, per gli uomini della pianura”, scrive. Il Parmigiano Reggiano, “da cui tutto il mondo discende”. Canta il socialismo reggiano del primo novecento, le biciclette e il modo tipicamente reggiano di portare la bici, riporta le parole di Cesare Zavattini che degli emiliani che pedalano dice: I par usei / la gent in bicicleta. Sembrano uccelli. Anche le case sono creature emiliane, possiedono una vita propria come i loro abitanti, le case rurali che si mimetizzano con la terra dove uomini e animali vivevano fianco a fianco, le “porta morta”, con il portico chiuso sul fondo.

Viene scritto il sangue, come sia stato fatto scorrere dalle squadre fasciste, come sia stato il segno riconoscibile dei soprusi, delle schiene bastonate, come ribolliva avido di vendetta, di rivalsa anche nel corpo del nonno di Zamboni, Ulisse, che marciò su Roma per non essere emarginato perché, come tanti altri, reduce dal primo conflitto, queste erano le ragioni, questi erano gli incendi foraggiati da intere famiglie e questi erano gli occhi che hanno ricevuto il dono di guardare la realtà e di comprenderla prima che si rivelasse per quella che davvero era, che sarebbe stata, una giovanissima Marguerite Yourcenar che nel suo viaggio italiano incrocia gli uomini vestiti in nero che marciano chiamati a raccolta da Mussolini nella sua rivoluzione fascista.

Ma il sangue detta anche la discendenza, si tramanda nei cognomi, arriva da lontano, nasce da antiche linee paterne, materne e Zamboni in questo libro lo intercetta seguendone le traiettorie, lo descrive come portatore di ideali che non restano sospesi in una terra di nessuno, inattivi, ma si concretizzano nelle storie di intere famiglie, quelle dei suoni nonni, quella dei Cervi, le cui vicende  in questo libro sono raccontate e sono oggi raccolte nel Museo e nell’Istituto Cervi ai Campi Rossi di Campegine. Infine a chiudere questo complicato mosaico vi sono almeno due consapevolezze in Zamboni: che questo libro sia già scritto in lui e che “il male irrimediabilmente continua a sconfiggere se stesso”.

Nota biografica: Massimo Zamboni è stato chitarrista e compositore dei CCCP, Fedeli Alla Linea e del Consorzio Suonatori Indipendenti (C.S.I.), nel 2004 ha intrapreso la carriera solista, ai suoi album hanno collaborato Nada, Lalli, Marina Parente, Fiamma e Angela Baraldi, nel 2015 torna a suonare con i componenti del Consorzio Suonatori Indipendenti in un progetto che prende il nome di Post-Csi nel quale Giovanni Lindo Ferretti è sostituito da Angela Baraldi, ha scritto colonne sonore per il cinema e ha pubblicato sei libri.