Natasha o la Julie novissima ⥀ Lettere a Natasha di Franco Ferrara

La Vita Felice ha recentemente pubblicato il libro Lettere a Natasha di Franco Ferrara. Abbiamo chiesto a uno dei due curatori, Ivan Schiavone, di scrivere un’introduzione al libro, che pubblichiamo qui insieme a due estratti. Ricordiamo che di Ferrara Argolibri ha pubblicato la raccolta Il cielo era già in noi, disponibile qui

 

lavarci dagli occhi l’ingiuria
della polvere
e riaffermare un sentiero legittimo
sul versante di un’altra era.
Franco Ferrara, Lettere a Natasha

 

Accade talvolta d’imbattersi in figli di amici frequentati in età giovanile talmente simili ai genitori da risultare perturbanti, specie nel momento in cui la fortissima prossimità esteriore viene fugata da irriducibili alterità d’intelligenza, aspirazioni, intenti. Accade ciò talvolta anche con opere ed autori, e il caso di Ferrara potrebbe passare per emblematico, per quella prossimità che subito salta all’occhio tra la sua opera e quella di alcuni protagonisti delle avanguardie vecchie e nuove. La paternità sanguinetiana di una serie di scelte stilistiche che caratterizzano le Lettere a Natasha s’impone immediata: l’uso insistito della parentetica, dell’autobiografismo – passato qui dal diaristico all’epistolare, tutto considerato una forma di diario anch’esso –, della sintassi franta, tra il congiuntivo e l’avverbiale, della citazione erudita e il referto bibliografico, etc. E ancora Pound, il Pound dei pisani e della perforatrice, il cui uso dell’ideogramma e della disposizione spaziale rima all’occhio con queste lettere, e ancora Saint-John Perse e il suo profumo esotico e visionario scaturito dal trapassare dal mito all’ora, all’allora, all’altrove. Si potrebbe continuare su questa strada a lungo, ma non risiede in ciò l’interesse per l’opera di Ferrara. Se questa poesia si limitasse ad essere, come molta poesia composta tra gli anni ’70 e oggi, la ripresa epigonale di forme, modi, temi e procedure, delle avanguardie novecentesche non avremmo sentito la necessità di ripubblicare, noi di Adamàs e gli amici di Argo, quest’autore che, perturbante come il giovinetto somigliante al padre e da questo totalmente altro, cela una novità talmente deflagrante da averlo reso un emarginato assoluto nel panorama poetico di fine novecento e, allo stesso tempo, uno degli autori più necessari al panorama attuale e nostro, molto più necessario di autori ritenuti imprescindibili allora, inutili all’ora.

Se una compiuta riflessione sul postmoderno si sviluppa tra il ’79 della condizione postmoderna di Lyotard e l’84 dell’articolo sul Postmodernismo di Jameson, la seconda metà degli anni ’80 segnerà l’affermarsi di questa categoria, passata dal sociologico all’estetico, anche in Italia; sono gli anni in cui si delineeranno le poetiche del gruppo 93 e del suo postmodernismo critico, si definirà la poetica di Magrelli e di alcuni esordienti degli anni ’70 che radicalizzeranno le proprie poetiche dall’innamoramento iniziale all’accettazione acritica del postmoderno, sono gli anni di merda, per dirla con Balestrini, gli anni in cui Ferrara, prima di abbandonare la poesia, ci consegna con Lettere a Natasha (1986), Imzad (1989), Questo intendevo dire (1990) la sintesi compiuta di un lavoro pluridecennale; eppure in queste opere non vi è nulla, o quasi, della temperie culturale degli anni ’80. Ferrara è tra i pochi, allora come ora, che sono riusciti a smarcarsi dalle obbligazioni culturali di marca americana virando il proprio operato verso una letteratura postidentitaria, parente di quella world literature che da Cesaire a Walcott stava ribaltando gli assunti coloniali attraverso l’elaborazione di una linea postcoloniale, verso una letteratura cioè che rifiutando gli assunti culturali, gli epigonismi imposti e le genuflessioncelle d’uso allo zio Sam abbia avuto il coraggio d’elaborare una poetica della relazione in cui il mondo potesse essere chiamato in causa attraverso le sue molteplici culture, irriducibili a qualsivoglia egemonia o modello unico. Altro che gita a Chiasso, in questi versi finalmente il mondo invade l’angusta provincia poetica italiana con tutta la forza della sua irriducibile alterità con una radicalità tale da suscitare un senso di smarrimento in quei pochi che con quest’opera si son provati, ricusandone una vertigine difficilmente componibile e imputabile non all’epigonismo, a certo sentire naïve, o al sublime amoroso ma proprio a quel salutare disorientamento geografico-culturale a cui questa lettura ci sottopone. E che Ferrara fosse consapevole di ciò lo intuiamo dalla bandella dell’edizione Achab dell’85, non autoriale ma certamente informata dal volere autoriale, che recita:

il «diverso», l’«irregolare» in Ferrara provengono da latitudini culturali, umane e geografiche coltivate e strappate nel vivo di un’esperienza enormemente complessa e autentica […]. Un caso unico e inquietante che rinvia ad arcane conoscenze, saggezze e orizzonti non frequentati, di cui una cultura cosmopolita nella sua più ampia accezione si sposa felicemente al fervore di una autenticità esistenziale difficile da ridurre a tassonomica classificazione; esulando dal canone e dal repertorio d’uso si connota in una dimensione di valori senza alcun punto di consonanza con l’oggi.

Una geografia del lontano che si sublima in geografia interiore, una cartografia resa percorribile dalla relazione amorosa, per il tramite di una pedagogia tesa a istruire la dedicataria su luoghi fisici, metafisici e culturali che ne fanno una sorta di Julie novissima – e sarà un’altra traccia presente nella bandella a spingerci verso il volume di Rousseau quale ipotesto privilegiato:

il modello è quello filosofico-poetico a cavallo tra ’700 e ’800 assorbito comunque nella vertigine di una scrittura personalissima e altamente densa che via via dissolve l’iniziale intento didascalico.

Ferrara, nei panni di un novello Saint-Preux mette in scena un amore contemporaneo basato sugli studi o, meglio, sulla causalità, natura, luoghi, assonanze e implicazioni molteplici dei nostri studi, per citare il sottotitolo dell’opera, un amore che, scaturito dal rapporto tra insegnante e discente, deflagra nella proiezione dell’enciclopedia personale del poeta sul contesto reale della relazione sentimentale e del suo ambiente, esploso nell’anamnesi di dialoghi eruditi-amorosi occorsi tra le due personae lungo le epoche e le latitudini. Conosciamo l’esito tragico della Nouvelle Héloïse, che nel morire lascerà all’amato il compito d’educare i propri figli, noi, i veri e primi destinatari di queste lettere, figli di una cultura morta, per educarci al futuro che Ferrara intravedeva, per educarci al presente.

(Ivan Schiavone)

 


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