Lettura di Ritratto automatico di Umberto Fiori: identikit di un camaleontico ricercato destinato a restare ignoto ⥀ La Punta della Lingua 2023
Danila Saracini scrive della nuova raccolta di poesie di Umberto Fiori, Ritratto automatico, un racconto in versi dell’immagine dell’io impressa da una macchinetta. Lunedì 3 luglio l’autore sarà a Portonovo di Ancona alle 21,30 per il festival La Punta della Lingua
Cosa muove Umberto Fiori alla scrittura del suo ultimo lavoro Ritratto automatico, edito a febbraio 2023 da Garzanti nella collana La biblioteca della spiga?
L’ispirazione io non so cosa sia.
Me, quello che mi spinge
è sempre una mania, una fissazione.
(Movente, p. 28)
La fissazione è quella di sempre, quella che sin dagli esordi poetici spinge l’autore allo scandaglio della verità delle cose al di là della loro esterna facciata, oltre l’apparente chiarezza con cui esse si manifestano, comunque accompagnata per un occhio più attento da perenni domande inesauste che la rendono, nella sostanza, incomprensibile. Per Fiori gli attributi delle cose sono nelle cose, non nel soggetto che le guarda, e vanno pertanto cercati con una osservazione realistica quasi maniacale che sola permette di nominarle con il loro linguaggio. È lo sguardo fisso sul mondo nel suo ripetersi che può consentire di cogliere lo straordinario che è sotteso all’ordinario, di scorgerne il meccanismo che lo regge, di trovarne, appunto, gli attributi mediante le varianti della sua manifestazione. La poesia diventa allora per lui una possibilità che «il mondo, e la realtà nella sua forma oggettuale, torni ad essere quello che è, si riappropri del suo vero nome»1 al di là di ogni interpretazione individuale.
In linea di continuità con tale idea si muove la nuova raccolta di Fiori, anche se questa volta la ricerca, in modo per lui del tutto inusuale, sembrerebbe centrata sull’io. In effetti il titolo ci promette un ritratto, che subito però viene definito «automatico» perché tracciato non da una persona ma da un dispositivo meccanico che ne fissa l’effigie: la cabina per fototessere. Il motivo dell’interesse per l’io ci viene in particolare chiarito in Movente: ad un certo punto «nel marasma del mondo […] si accampa una figura» che diventa insistente e che alla vista appare come una «ovvietà gravissima», già nota al soggetto, sempre la stessa ma anche mille volte diversa, ovvia ma seria e pesante da sopportare, una immagine che lascia tutto il resto sullo sfondo e che chiede tacitamente attenzione. Diventa allora inevitabile «covarla in segreto» nel tentativo di identificarne meglio i contorni. È appunto questo che ha spinto il poeta, sin dal 1968, a raccogliere una collezione di 750 sue fototessere, custodite gelosamente «come fa nella favola / l’avaro col suo tesoro» e mostrate in parte al lettore sin dalla copertina, 750 «santini» con cui ha riempito «l’album delle figurine», origine del suo ultimo lavoro.
Gli intenti da lui perseguiti sono precisati nella iniziale Presentazione e nel Colloquio fra il Ritratto e un giovane Visitatore, una prosa collocata al centro del volume ed organizzata in forma quasi teatrale, tesa a «fornire al lettore qualche chiarimento intorno alla collezione», attraverso alcune battute del colloquio istauratosi tra le foto e un «giovane intelligente, curioso, assai letterato», venuto come «intruso» a sfogliare le pagine di questo album. La conversazione, spesso inframezzata da interventi autoriali, è interessante perché ruota intorno ai temi portanti del libro ed è volta a stabilire un rapporto di condivisione con il Lettore, che sin dall’inizio comprende di essere anche lui in qualche modo direttamente coinvolto nella ricostruzione di questo ritratto automatico.
«Fissare il cambiamento, l’identità»
Dalla introduzione si apprende che l’autore con la sua collezione, al di là del naturale divertimento derivante dalla pratica del fotofun, desiderava scoprire «cosa manifestasse quell’impresentabile, inafferrabile prima persona singolare» (p. 10). In seguito, nel corso del colloquio, il Ritratto precisa di non aver mai pensato di realizzare un’autobiografia per immagini. Il vero soggetto della raccolta non è la propria biografia ma la faccia. «O meglio, la faccia in generale […]. Quello che è in scena, quello che è in gioco, qui, è l’identità». (p. 76). Come precisato in Reportage (p. 48), in un efficace botta e risposta con un generico interlocutore che gli rimprovera di essersi concentrato su se stesso mentre nel mondo accadevano gravissimi disastri, egli «scatto per scatto» ha inteso fare un atto di denuncia documentando la prima disgrazia umana: la difficile identificazione della vera identità.
Del resto è subito chiaro che dietro la raccolta di questi autoritratti non c’è alcuna forma di narcisismo o di autocelebrazione e anzi, come emerge in Vanità (p. 59), la reiterata immagine impressa in quegli scatti non consente proprio di pavoneggiarsi: quel pavone non eccelle per la sua bellezza, fa la ruota con «tre penne spelacchiate» e «quattro ocelli sbiaditi» ed è in realtà «un disgraziato che nuota nuota e si sbraccia / tra i flutti della sua faccia / per richiamare i soccorsi». Tra le fluttuanti trasformazioni della sua fisionomia, esageratamente evidenziate dall’accumulo delle «figurine» collezionate, è già tanto riuscire a rimanere a galla e non essere travolti dalla tempesta. Quel Narciso, specchiandosi nell’obiettivo senza «profondità né superficie» della macchinetta automatica, non riesce a far altro che domandarsi con sgomento se è di quella faccia che dovrebbe innamorarsi, visto che non vi scorge né «un viso» («lucente, tremolante / d’ombre e misteri») né «un volto», ma solo gli effetti generati dal trascorrere del tempo sulla sua faccia (Favola (Non-), p. 47). Quello che si vede nello specchio è un Narciso «imbalsamato»2 che «non si trasforma in fiore: diventa vecchio».
A spingere il poeta ad entrare nella cabina della macchinetta automatica non è certo la volontà di immortalarsi, come ben ci si dice con tragica ironia in Verbi (p. 56). «Lì dentro di posa in posa… altro che eternità». Quando spunta fuori dalla scatola la striscia «uno si trova là, fresco e vitale / come il giornale dell’altroieri […] perfettamente mortalato con zigomi, labbra, palpebre da archiviare». La molla che rende attraente quel gabbiotto è invece il ricordo di un’ombra imprecisata che rimane nella testa come un sogno persistente un attimo dopo il risveglio, un’immagine nota ma indeterminata di cui non si riesce a ricostruire i dettagli. Ad essi il poeta spera dunque di risalire scatto per scatto, facendosi guidare dalle foto verso la vera faccia (Foto-ricordo, p. 61). Ed è appunto Verso la faccia il titolo della prima sezione di poesie del volume.
Se poi queste immagini […] si riuniscono in un album,
la collezione può forse diventare uno strumento
per giungere ad una più vera conoscenza di sé
In quella cabina si riceve un responso come «nell’antro della Sibilla» (Obiettivo, p. 45), ci si ritrova nudi e fermi di fronte a se stessi «senza cielo né terra, senza gambe» e ci si vede come «si sporge / dalla mela / il verme» (Qui, p. 43). Essa diventa allora un luogo in cui recarsi con la stessa ritualità di una liturgia (Rito, p. 20), in una sorta di «pellegrinaggio» verso «il miraggio dell’identità» (MM, p. 21); un confessionale (Foto-tessera, p. 19) nel quale il penitente non può che dichiarare le proprie colpe; un «abisso di intimità», una nicchia dove rifugiarsi «tra le ombre / del corteo senza faccia e senza voce» formato dalla gente incrociata ogni giorno; una garitta che in solitudine offre riparo a chi, trattenuto da «un muro di pudore», vigila in attesa di veder spuntare la propria identità profonda (Mezzanino, p. 36). Al suo interno, «prima di premere il pulsante verde» dello scatto, si prova lo stesso «languore» che si avverte «in piedi, con la matita in mano, / nella cabina elettorale» (Seggio, p. 23); si è avvolti dallo stesso imbarazzo da lui intercettato da bambino, camminando per le strade di Milano, in chi entrava in un vespasiano, latrina pubblica dal nome ridicolo, col sapore «di stantio, di malsano» posta «all’aria, senza porta», da cui sotto le paratie si vedevano spuntare due gambe mentre, sopra, una faccia pensosa guardava lontano (Impianti, p. 50).
Gli attributi propri di questo luogo aiutano a comprendere che le fototessere, come dice anche il Ritratto colloquiando con il giovane Visitatore (pp. 81-83), hanno caratteristiche del tutto particolari. In uno studio fotografico per esempio il fotografato si trova di fronte ad una persona in carne ed ossa pronta ad intervenire per fargli assumere una postura «decorosa», una faccia «ufficiale» e l’ immagine da scattare è studiata in tutti i dettagli tanto che i lineamenti talvolta sembrano persino ritoccati. Nella cabina invece non si è condizionati da nessuno, ci si trova soli: «non c’è un dito a scattare, / un mezzo sorriso complice, la parola / che stimola e rassicura. / Non c’è mestiere, arte, volontà. / La faccia è sola, nel vetro» (Collezione, p. 24). Anche davanti ad uno specchio la situazione è diversa. Lì ciascuno si aggiusta e si sistema come vorrebbe apparire cercando l’espressione migliore; qui invece «non ci sono verifiche […] per quanto ti giri e ti rigiri, alla fine un risultato arriva, si fissa, e non è mai quello che pensavi». L’obiettivo registra «quello che c’è, non la faccia che sogni di avere»; esso coglie insomma la «faccia involontaria», quella che sempre ci sfugge e che Fiori cerca, sentendola ogni volta sfuggire. Le fototessere non sono neppure dei selfie, autoritratti oggi tanto in voga, scattati in diversi contesti reali e sempre volti a fissare un attimo considerato più o meno memorabile con l’intenzione di poterlo condividere con gli altri. Qui invece non ci sono occasioni da celebrare; c’è solo l’identità da ricercare mediante la «ripetizione, addizione, raccolta» (Raccogliere, p. 51).
Quando si entra «nel vano bianco della cabina» e si tirano le tendine si è totalmente soli; il fotografato smette di essere «un collettivo, / un soggetto di classe», non si sente parte delle «masse popolari» ma, sotto la luce del flash che illumina la faccia come il faro del dentista, avverte «tutta la miseria […] di questa prima persona» (Soggetto, p. 52); percepisce la propria lontananza dal Mondo, ridotto a «un fondalino pallido, una parete / dietro le spalle, lavata dal lampo bianco» (Faccia, p. 25). L’imbarazzo che prova è tale che spesso per difendersi dalla «serietà livida» del luogo si serve dell’autoironia, nota caratterizzante dell’intera raccolta: «labbra di tartaruga storte in un bacio, / strabuzzamenti, sghignazzi, boccucce», tutte forme burlesche che hanno in sé qualcosa di tragico in quanto assunte solo per sdrammatizzare la percezione di quello squallore cianotico e cadaverico che promana dalla situazione. Da foto come queste emerge proprio la «scempiaggine» di un morto, la stupidità di un uomo che non sentendosi in grado di affrontare la sua mortalità non sa far altro che sdrammatizzare deridendola (Lapide, p. 27). Questo comportamento diventa ancora più frequente se lo scatto viene fatto in compagnia: nel piccolo spazio di quella cabina la presenza ravvicinata dell’altro rende prevalente la relazione sociale e, come è risaputo, si finisce con il fare «gli scemi»; boccacce e smorfie che la macchina inchioda per l’eternità (Scemi, p. 26). Lo stesso avviene quando si sfregiano le effigi delle collezioni, sfigurando e «sgorbiando» un ritratto «così gravato dall’identità». «La macchina non ride mai di te, / fa il suo mestiere: prende la mira, e scatta. / Ma in ogni autoritratto stanno in agguato / i baffi della Gioconda» (Monna Lisa, p. 49).
«Lineamenti: parecchi. Quanto basta.
Irrevocabili. Comunque transitori»
Dopo lo scatto, davanti alla striscia uscita ancora vibrante per l’asciugatura dalla buca del casottino, quella faccia, destinata ad essere sempre invisibile alla vista dell’io nel momento della sua relazione sociale, impegnata com’è a costruire pirandellianamente la «maschera sonante» della persona da far vedere agli altri, diventa una realtà oggettuale, una cosa concreta da tenere tra le mani e contemplare dall’esterno per individuarne le prerogative (Carta, p. 60).
Se poi queste immagini, fissate e vetrificate nella cabina come sulla lapide di una tomba, si riuniscono in un album, la collezione può forse diventare uno strumento per giungere ad una più vera conoscenza di sé. Questa operazione (p. 75) non è però così semplice come potrebbe sembrare perché chi sfoglia l’album, tessera dopo tessera, riesce a scorgere in realtà solo «il Pischello, / gli Innamorati, il giovane Padre», tutte le varie e infinite maschere indossate dal soggetto in ruoli e situazioni diverse. Ad essere visibile non è la sua identità intera ma «una Faccia / (sempre lei, mai uguale) che si muove / – guance, fronte, capelli – / verso se stessa». Girando le pagine «come nel Calendario dell’Avvento» si aprono delle finestrelle e si rimane in ansiosa attesa che possa finalmente giungere il momento del proprio Natale (Avvento, p. 41). La disamina insomma non facilita la ricerca della propria identità profonda perché il soggetto, nella iterazione esagerata delle immagini in cui viene fastidiosamente raffigurato «come alla radio / l’inciso appiccicoso / del successo del giorno. / O il tormentone del comico, / lo scroscio dello sciacquone», riesce esclusivamente a scoprire di essere fatto di ripetizione. Nient’altro sembra emergere per la sua identificazione ed anzi «ad ogni scatto / ci vuole ancora un attimo / per riconoscerlo» (Sfogliare, p. 46). Anche l’identikit del ricercato sembra farsi difficile perché, come avviene quando si guarda un panorama dal finestrino di un treno in corsa, le immagini si sovrappongono a tal punto che i tratti fisiognomici ne risultano sfigurati:
Lineamenti: parecchi. Quanto basta.
Irrevocabili. Comunque transitori,
insufficienti. Occhi a sventola.
Mento aquilino. Orecchie azzurre, tarchiate.
Labbra castane; poi, brizzolate.
Colorito composto, eretto.
Collo: uno solo, come il petto. Attaccàti.
Guance due, ben ravviate.
Capelli sfuggenti, equini.
Denti biondastri, a caschetto.Settecentocinquanta nasi.
Nei primi della serie
è stata in qualche caso riscontrata
la bellezza dell’asino.
In quell’ammasso di fotogrammi gli attributi degli elementi costitutivi della faccia si sovrappongono, si deformano trasferendo le proprie prerogative l’uno sull’altro e, pur «irrevocabili», risultano alla vista «comunque transitori / insufficienti». Dunque, non solo sull’io interiore ma neppure sull’aspetto esteriore può dirsi nulla con certezza, una scoperta tanto angosciante che lo sgomento può essere superato solo grazie all’autoironica costatazione che nei primi della serie dei settecentocinquanta nasi «è stata in qualche caso riscontrata / la bellezza dell’asino». Alla tragica risata che sorge spontanea grazie al rovesciamento carnevalesco della classica armonia, fa poi seguito la conseguente totale assenza di attributi della propria interiorità. Certo sarebbe bello poter esaltare romanticamente la propria figura, i sentimenti, il proprio modo di sopportare una vita sventurata, come faceva Foscolo nel suo sonetto «Solcata ho la fronte», ma di queste qualità non si scorge traccia e l’interiorità rimane un mistero (Identikit («Solcata ho la fronte…»), p. 37).
Tutto nell’uomo appare indeterminato e transitorio e, se ci si contempla dall’esterno, l’impressione che si riceve è la disorientante idea di un perenne metamorfismo:
Colli che si raggrinzano nel colletto,
capelli sempre più grigi, poi bianchi,
occhiaie molli da lèmure, guance cascanti:
era questa l’idea, fin dall’origine.Fissare il cambiamento, l’identità.
Contemplarli da fuori,
come in certi documentari il fiore
che di colpo si apre
con lo sprazzo di un fuoco d’artificio.Tutto previsto tu dici, tutto scontato:
il lavoro del tempo
(e della vita, e della gravità).
Ma quando poi
uno si è visto là
tutto insieme, e si sfoglia e si risfoglia
anno per anno, scatto dopo scatto,
il gioco rischia di cambiare aspetto.
Tu che non sei il soggetto
di questo crollo, tu che non hai collo
né capelli, né età,
segui tranquillo il cammino
delle immagini, séguilo
come gli spasmi di un insetto
nella tela del ragno,
come si guarda un naufragio
dall’alto di una montagna.
(Tempo, p. 33)
Lo scempio dei «colli che si raggrinziscono», dei «capelli sempre più grigi» e delle «guance cascanti», al di là dell’inevitabile rammarico prodotto dalla costatazione del progressivo svanire della propria «bellezza dell’asino», non ha altro pregio che quello di consentire a chi guarda di prendere coscienza dei cambiamenti causati dal tempo. Era quello lo scopo della collezione: «Fissare il cambiamento, l’identità. / Contemplarli da fuori».
Raggiunta la meta però è subito chiaro che la speranza di un lucente spiraglio capace di squarciare il buio dell’identità, il desiderio di assistere al suo improvviso apparire tra le tenebre con la semplicità meravigliosa mostrata da un fiore in sboccio nei documentari naturalistici, sono destinati purtroppo a rimanere mere aspirazioni. Davanti agli implacabili scatti fissati dalla macchinetta, infatti, altro non si riceve se non la sgradevole impressione di trovarsi di fronte ad un «naufragio». Il «disgraziato» che guarda dal fuori questo spettacolo scorrergli sotto gli occhi non è però il saggio epicureo di lucreziana memoria3 finalmente giunto alla atarattica felicità dei templa serena del cielo, appagato dalla vista di sofferenze da cui sa di essere ormai lontano, ma anche lui nuota nella tempesta e fa ancora parte della schiera dei naufraghi incapaci di scorgere un possibile approdo. Nel contemplare il naufragio altrui, privo anch’esso della serenità raggiunta, egli viene allora invitato a seguire «il cammino delle immagini» come se fosse di fronte agli «spasmi» agonizzanti di un insetto rimasto imbrigliato nella tela di un ragno. L’esistenza umana sin dalla nascita cattura gli uomini nella sua rete e li destina all’estinzione. L’unica verità, di sapore leopardiano, a cui si giunge osservando la sequela delle facce raccolte nella collezione, è che l’esistenza individuale è solo attesa della morte.
Tra l’altro, ai malefici effetti della corrosione del tempo sono soggetti anche i ritratti. Come osserva il Visitatore leggendo al Ritratto un passo dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello: «L’immagine invecchia anch’essa, tal quale come invecchiamo noi […] invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane lì diviene d’anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi» (p. 80). Quel ragazzo, lì fissato in un momento ormai morto per noi un attimo dopo lo scatto della foto, non può più guardare davanti a sé verso l’avvenire ma, nel passare degli anni, sprofonda in un passato che lo fa apparire ai nostri occhi sempre più vecchio e lontano. Così, l’io che lo guarda ora, cercando di leggere nel pensiero del giovane di allora, pur conoscendo meglio di chiunque altro cosa gli passava per la testa, sa perfettamente che, se «per un errore / nell’ordine del mondo» loro due si potessero di nuovo incontrare, non avrebbero assolutamente più nulla da dirsi e, divenuti estranei l’uno all’altro, starebbero «come / per sei o sette piani in ascensore / l’idraulico e un inquilino» (Ordine, p. 40). Questa consapevolezza accresce ulteriormente il disagio generato dalla condizione esistenziale umana perché rende ancor più difficile la ricerca della propria vera identità.
Come se ciò non bastasse l’uomo vive nella propria interiorità mille contraddizioni spesso insanabili perché connesse alla propria natura. La faccia infatti, come tutte le cose, ha un rovescio, suo elemento essenziale seppure non visibile nella foto: la nuca, «l’angolo più cieco, / il rovescio più vero / della fisionomia» (Di spalle, p. 38). Accorgersi della sua esistenza genera «sorpresa rifiuto sgomento», come leggiamo in Adamo (p. 53), dove l’esperienza vissuta per la prima volta in età infantile di guardarsi di profilo allo specchio genera nell’io una sensazione di forte disagio capace di permanere conficcata nell’interiorità anche a distanza di molti anni, impossibile da cancellare totalmente. Gli occhi, infatti, non trovano davanti a loro lo sguardo di un’immagine riflessa che risponde allo sguardo, come in genere accade quando ci si trova davanti ad uno specchio, non hanno di fronte un viso, un volto che si volge verso di loro, ma quasi scompaiono puntando altrove. Quella è «la faccia che non sappiamo / e che non sa di noi», una «faccia voltata da un’altra parte» che non consente al soggetto di riconoscersi e che per questo incute timore. Chi la vede per la prima volta è indotto istintivamente a spiare il suo «pomo d’Adamo», cioè ad osservare il proprio corpo nel punto che rinvia al boccone rimasto in gola al personaggio biblico mangiando la mela nel giardino dell’Eden. Il vedersi di profilo è dunque connesso in qualche modo con il peccato, con un senso di colpa derivante dalla scoperta di essere «cattivo»: «(Voltato l’angolo / il maniaco spalanca l’impermeabile)» (Soggetto, p. 52). In questa posizione traspare la presenza interiore di aspetti in qualche modo ignoti e non dominabili con cui è però necessario fare i conti. Si tratta di un «fantasma sghembo», che una volta scoperto è impossibile non considerare. Come diceva Eliot nel passo della sua ballata The love song of J. Alfred Prufrock riportato in esergo di Di spalle, volgendo il capo e vedendo luccicare fra i nostri capelli una zona calva, qualcuno messo in coda dietro di noi, senza sapere chi siamo, sentirà stringere il cuore nel vedere di cosa siamo fatti.
In quell’ammasso di fotogrammi gli attributi degli elementi costitutivi
della faccia si sovrappongono, si deformano trasferendo
le proprie prerogative l’uno sull’altro
Quello di Fiori dunque, per dirlo con i versi di Montale, non è un uomo che «se ne va sicuro / agli altri e a se stesso amico / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro»4; è uno che sa voltarsi e vedere «il nulla alle sue spalle»5 senza riuscire però neppure per un attimo ad avere accesso al miracolo dell’epifanica visione risolutiva. L’identikit dell’ignoto non potrà quindi portare alla cattura del camaleontico ricercato, una verità affrontata dal poeta con un atteggiamento ironico del tutto privo di toni satirici e semplicemente volto all’accettazione della misera condizione umana.
A conclusione della nostra lettura è d’obbligo affrontare ancora una questione che assume rilevanza all’interno della raccolta: quale lettore Fiori immagina di avere, quale rapporto intende stabilire con lui e cosa spera di regalargli con il suo lavoro? Già in apertura del libro, in una forma che per certi aspetti ricorda la manzoniana introduzione dei Promessi sposi, vengono offerte a chi legge precise indicazioni a riguardo e vari sono i riferimenti all’argomento inseriti nel corso del volume in molteplici occasioni. Da subito si comprende che si tratta di un lettore che desidera essere informato sull’origine della scrittura; con lui chi scrive vuole stabilire un rapporto di cooperazione, consegnandogli «senza riserve la […] documentatissima faccia nella speranza che anche in lui affiori la risata che cova in queste pagine» (p. 13). Rispetto alla collezione il lettore è un «intruso» che «porterà del foraggio, del mangime, dell’acqua» e non «un bastone, un cappio, una siringa» (p. 63); è un altro da sé capace di colloquiare con l’Autore come il Ritratto con il suo Visitatore per dirimere le questioni poste dall’esagerata trafila delle facce della Collezione. Egli è un Voi capace di diventare un Noi, sentendosi anche lui rappresentato in quei ritratti 6. È un uomo curioso, pronto a sottolineare contraddizioni o discrepanze nel comportamento o ad approfondire il discorso con riflessioni che rinviano ad altri autori che si sono già posti le stesse domande nel tentativo di trovare ad esse una risposta; è uno poco interessato ai pettegolezzi, alle quisquilie della vita dei singoli e volto invece a questioni di interesse comune, attento alla «faccia di chiunque», di tutti (Pettegolezzi e somiglianze, p. 73). Questo lettore deve essere in grado di scorgere nell’album «fisionomie perfettamente definite ma ignote» come quelle di che si incontra in un vagone della metropolitana. Qui infatti ciò che importa non è scoprire l’individualità del soggetto ma l’identità umana di un ignoto che sempre si cerca ma sempre sfugge (p. 76), «la faccia di tutti» (p. 79).
A questo lettore Fiori dedica la poesia con cui aveva chiuso la sua precedente raccolta intitolata Voi. In essa egli regalava la sua faccia agli altri, intesi come altro da sé, confessando loro di aver dovuto fare molte rinunce per evitare di perderla e di aver per questo inizialmente sofferto. In seguito però questa perdita era diventata tanto naturale che egli aveva dimenticato del tutto l’oggetto delle sue rinunce e se davvero desiderasse quanto perduto; nella sua testa era rimasto solo un vuoto privo di desideri (Voi, p. 85). La relazione con il voi è complicata. Essa chiede all’io non solo di spossessarsi della faccia (Carta, vv. 10-14) ma anche di sottoporsi alla potentissima influenza esercitata sul vivere sociale dalla Moda che, non a caso, nelle fototessere della collezione inchioda il soggetto: «Uno si veste e – zac – il tempo lo infilza» (p. 66). A riguardo il Visitatore, parlando con il Ritratto e richiamando esplicitamente alla memoria il leopardiano Dialogo della Moda e della Morte 7, dice: «Ti ricordi, nell’operetta di Leopardi, le imprese di cui si vanta con la Morte? Deformare le teste dei neonati, storpiare i piedi per farli entrare negli scarpini…» (p. 67). Nessuno si può considerare esente da queste costrizioni, tanto che il Ritratto conclude amaramente: «nel look […] anche i grandi trasgressori» sono in accordo col loro tempo, «vicini, senza volerlo, a chi viveva intorno a loro» (p. 67). I costi della relazione sociale sono dunque molto salati ma senza l’altro l’uomo non può stare, come ben dimostra anche la seconda parte di Ritratto automatico. Qui l’argomento viene ripreso in modo indiretto con i testi di tre piccole sezioni della raccolta che si aprono ora ad esperienze biografiche soggettive del poeta, in Altre poesie; ora alla relazione con un tu con cui egli ha condiviso momenti importanti della propria storia di uomo, Seconda singolare; ora ad un dialogo con la propria moglie, Tre poesie per l’Orientina.
Di particolare interesse per la nostra lettura risulta la poesia A mio fratello Andrea (p. 115), dove nell’ultima strofa si legge:
Così vorrei io che suonassero
a chi la vita la sa già
le quattro poesie che scrivo.
L’aspirazione di Fiori è che il lettore dei suoi versi provi il piacere dell’ascolto e la stessa emozione in lui generata dalle «trecentomila barzellette» raccontate dal fratello. In esse il mondo e la gente, che normalmente costituiscono per noi «il solito mistero risaputo / con cui si son dovuti / in tanti e tanti anni / fare i conti», sono improvvisamente capaci di emozionare al di là dello sghignazzo suscitato su chi ascolta:
[…] i pupazzi e le bambole
diventano uomini vivi
e le donne, con i loro discorsi
meravigliosamente scontati
parola per parola, e la vita
un passo dopo l’altro
esibisce la sua
terribile ovvietà.
In quelle barzellette, non «nel momento in cui la storia è svolta» ma «nei preamboli» del fratello, i pupazzi e le bambole, le maschere sotto cui si celano le facce, cadono e vengono fuori uomini e donne vivi con i loro difetti e le loro fissazioni. Quel loro modo d’essere smaschera l’ovvietà dell’esistenza con un rovesciamento comico che solo può consentire di accettarla.
Note
1 Si veda a riguardo Andrea Caterini, “Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Umberto Fiori: tornare a nominare le cose, come fosse la prima volta, su «Pangea» (lettura di Fondali, da Tutti). Interessante in questo intervento anche la riflessione sviluppata da Andrea Di Consoli sul tema dell’alterità, sempre centrale nell’opera di Fiori e cruciale anche in quest’ultimo suo lavoro.
2 Massimo Gezzi, Se lo specchio riflette un Narciso imbalsamato che si autodegrada, su «il manifesto».
3 Lucrezio, De rerum natura, II, vv. 1-19.
4 Eugenio Montale, Non chiederci la parola, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1977.
5 Id., Forse un mattino andando in un’aria di vetro, ibid. Sulle relazioni con questa poesia di Montale si rinvia a Andrea Afribo, Introduzione a Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.
6 Per l’uso dei pronomi si veda quanto dice Cinzia Demi nella recensione a Umberto Fiori “Poesie. 1986-2014”, Oscar Mondadori, su «Altritaliani.net», in particolare nel paragrafo L’Io poetico e le sue declinazioni. Evoluzioni di pronomi in poesia: tu, noi, voi.
7 Giacomo Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte, in Poesie e prose, tomo II, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988. In Fiori il riferimento è teso per lo più a rilevare la potenza della Moda che acuisce la maschera sociale sottolineando il metamorfismo già proprio della natura umana. Tra le camaleontiche trasformazioni interiori ed esteriori a cui è sottoposto il soggetto quelle indotte da questa potente Entità sono le più appariscenti e lasciano trasparire più di ogni altra cosa tutta la mortalità umana. Rispetto al poeta marchigiano appare invece più tenue la critica alla stupidità umana che viene accolta in questo caso con più bonaria indulgenza.
Danila Saracini, nata a Portorecanati (MC) nel 1956, da sempre attratta dal confronto con gli altri e amante della cultura in tutte le sue manifestazioni, dotata di spirito critico e attenta osservatrice del reale, si è diplomata al Liceo Classico di Recanati, a cui deve in parte il suo immenso amore per Leopardi. Laureatasi in Lettere Classiche a Macerata, è diventata docente di Lettere prima a Sondrio ed Ostia; infine dal 1989 è approdata al Liceo Scientifico “Galilei” di Ancona, dove ha accompagnato per più di trent’anni gli allievi tra le pagine della letteratura italiana e le parole dei classici latini e greci (per alcuni anni, in qualità di docente dell’indirizzo “Umanistico”, ha avuto la fortuna di poter approfondire temi della classicità normalmente esclusi da questo percorso liceale). Dal 2021 è in pensione ma l’amore per l’insegnamento e per la relazione educativa l’ha spinta a continuare a collaborare in varie forme a diversi progetti scolastici (laboratori di scrittura e di poesia italiana del secondo Novecento) e alle attività dell’associazione Nie Wiem.