La lirica della ragione. Le cavie di Valerio Magrelli ⥀ La Punta della Lingua 2022

In occasione dell’incontro con Valerio Magrelli che si terrà sabato 25 giugno alla Punta della Lingua, pubblichiamo oggi un breve excursus sulla sua vicenda poetica che approda alla sua ultima raccolta, Exfanzia (Einaudi, 2022)

 

Qui arrivano a coincidere
l’oggetto che cerco e la causa
di questo ricercare.
Per me la ragione
della scrittura
è sempre scrittura
della ragione.
Da Io non conosco, Ora serrata retinae.

 

Che rigore scientifico e ironia possano andare d’accordo, perlomeno che siano capaci di convivere pacificamente, è accettabile dal senso comune; la commistione tuttavia del primo con la poesia, dunque l’unione fra scienza e arte musaica, è qualcosa di concettualmente impossibile, per noi, lontani dall’olismo tipico degli antenati. Eppure, Valerio Magrelli (poeta, scrittore, traduttore, critico letterario e accademico italiano, uomo insomma dagli interessi e dalle occupazioni proteiformi) condensa nel suo poetare tutte queste caratteristiche, sviluppate ed articolate attorno a certi temi cardine che lo accompagnano in una carriera viva da più d’un quarantennio.

Magrelli difatti si affaccia attivamente sul Parnaso verso la fine degli anni Settanta del Novecento, in un periodo in cui l’intellettuale non aveva, qui in Italia, più riferimenti stabili, mandati politici; in questo contesto culturale, in cui le stelle polari si erano spente, o perlomeno affievolite, dando ascolto alla vocazione razionale e gnoseologica che lo caratterizza («Per me la ragione/ della scrittura/ è sempre scrittura/ della ragione»1), si isola in un laboratorio ideale in cui, alla ricerca della Verità, del Senso, inizia a studiare e a studiarsi, attraverso i suoi componimenti, che chiama «cavie», cioè esseri animali vivi, animati: infatti per il poeta le poesie sono organismi viventi, composti da cellule verbali, dotati quasi di autonomia nella loro esistenza, ma tuttavia dipendenti dal lettore, che deve comprenderle e «ricaricarle di senso», senza il quale restano solo «cavalli di Troia» carichi di potenzialità, di «particelle in attesa»2. Alla fine, se fine si può chiamare, di questo percorso Magrelli è giunto ad «illustrarsi», a disegnare sé stesso, prospettando una «descrizione di un punto da infiniti altri punti»3, comprendendo altresì che riflettendo su di sé, poetando, diventa come «un sarto che sia la sua stessa stoffa»4; una metafora spesso usata dal poeta stesso per descrivere questi sdoppiamenti dell’Io (sempre presenti, o comunque allusi, nelle sue liriche) è l’anello di Möbius: due superfici che collassano e si fondono in una sola.

Un dato interessante è che Magrelli ha scelto di salpare per questo mare oceanico spinto da una propria debolezza, da un proprio «mostro», che però è il suo «motore»: la miopia; il difetto di vista che lo affligge sin dalla giovinezza infatti è sempre al centro delle sue raccolte (la prima, Ora serrata retinae, prende il nome proprio da un termine tecnico dell’oftalmologia), presentandola però non tanto come patologia del corpo, quanto più dello spirito; la miopia, cioè, è la «prodigiosa difficoltà della visione»5 da parte della ragione del mondo, della realtà circostante: il poeta è ignarus della verità, ma lo sa, sa di non sapere, e ha inoltre uno strumento potente per la conoscenza, che è la poesia (pur nello «scarto» naturale che caratterizza quest’arma): per questo motivo Magrelli scrive «Io non conosco/ quello di cui scrivo,/ ne scrivo anzi/ proprio perché lo ignoro»6.

Ad ogni modo, spende numerose liriche sul tema della malattia (forse pure su un’ideale influenza materna, dato che tale figura era un medico), poiché la considera una «dilatazione della conoscenza», cioè un nuovo ed ulteriore paio di occhi, un «nuovo passaporto del regno dello star male», richiamando una citazione di Susan Sontag spesso ripresa dall’autore, che ci offre una nuova ed ulteriore visione del mondo, costringendoci pure a rallentare i nostri ritmi, per focalizzarci sugli oggetti che ci circondano, permettendoci dunque un’analisi più attenta e profonda della realtà, altrimenti ignorata.

La patologia del corpo e dello spirito divenne poi nelle raccolte successive (specie in Nature e venature) una «venatura» degli oggetti e dei soggetti che si hanno intorno, una crepa, «il tintinnio familiare del meccanismo rotto»7, cioè l’imperfezione che testimonia la sostanziale debolezza della natura, ma anche la sua immane resilienza: la vita va avanti, regge, prospera non per la sua perfezione, ma nonostante la sua fragilità, ricomponendosi quando si infrange, guarendo quando si ferisce; inoltre, è attraverso tale frattura che è possibile spiare il funzionamento del congegno essenziale e individuarne le parti che lo compongono («un pezzo si separa,/ si annuncia»8, usando sue parole, che seguono la frase «La salute è il silenzio degli organi» di un clinico francese ottocentesco ripreso proprio da Magrelli durante un’intervista), pervenendo anche qui ad una migliore conoscenza dell’esistenza.

Negli anni il corpo afflitto e fratturato dalla malattia non fu più un corpo umano, né appartenente ad altro essere vivente unitario, passò ad essere in realtà un corpo sociale, le cui cellule sono i cittadini: lo scienziato uscì dunque dal suo asettico laboratorio, e divenne un «commissario». Le sue poesie non furono più cavie da sperimentare, da sottoporre ad analisi razionale, ma divennero armi, strumenti messi in azione dal desiderio di giustizia che anima l’autore (speranza definita infantile dal medesimo); in queste vesti «gialle» tuttavia non indagò i colpevoli, coloro che compivano angherie, quanto più quelli che subivano i soprusi, ovverosia, le donne, i giovani, il paesaggio, ed i più deboli in generale: animate da compassione e pietà verso le vittime, anche della società in genere, da indignazione verso il mondo violento, che gli ha pure reso il «sangue amaro», da virulenza verso gli scellerati sono le liriche del commissario Magrelli.

Alfine, l’attenzione del poeta ritorna sulla sua sfera (anche se non completamente), riflettendo, nella raccolta Exfanzia (neologismo, indicante la senilità, nato dall’opposizione semantica delle preposizioni in ed ex in latino), sulla famiglia, sui figli, sulla vita passata, e, appunto, sulla vecchiaia; riaffiora la debolezza intrinseca dell’uomo, ormai incapace di contenersi e rattopparsi, colpito com’è dai malanni, si ripassa la vita trascorsa, rivedendo i dolori che ha dispensato proprio quando si era felici, corroborando la fragilità propria di chi vive («Siamo fatti di vetro soffiato:/ l’unica cosa buona sta nel soffio»9), e scoprendosi estranei ai Sé del passato («Forse lo sconosciuto sono io,/ altro che Alfio»10), ci si sente smarriti, spersi nel fiume della vita, inabilitati a scegliere, e si teme la morte; la morte, ed il desiderio di immortalità, ritornano dopo aver fatto capolino, con atteggiamento pessimistico, nella prima raccolta, Ora serrata retinae: a cambiare, sono gli strumenti di vita eterna: nel primo caso a donarla erano le poesie, capaci di «illustrare», cioè di «dare lustro» e gloria, di far rimanere «aldiquà» come pensiero sostenuto dall’«ossatura esile» della matita, ora invece la si ritrova grazie all’amore che ha fatto nascere i figli, nei quali permangono i tratti somatici dei genitori, di coloro che gli hanno dato la vita («Poi mi guardo allo specchio/ e vedo papà e mamma/ che abitano il mio volto»11).

Tuttavia, pur in questi umori, che tentano fortemente la poesia ad essere lirica sentimentale, a dominare Magrelli resta la razionalità, l’analisi condotta non dalla sfera più primitiva, emozionale, ma dalla coscienza, dall’Io vigile ed acuto; questa caratteristica è una costante in tutta la produzione del poeta, sebbene nel tempo passi da un linguaggio molto misurato, «chirurgico», ad uno invece spolverato di colloquialismo, in cui prende il sopravvento una forte e tagliente ironia, sfociante in taluni casi nel sarcasmo; purtuttavia, le sue poesie vengono intessute da riferimenti dotti, spesso inerenti alla cultura latina, molto forte in lui (fors’anche per la città in cui nacque, nel 1957: Roma).

Una delle varie espressioni latine esistenti dà pure il nome ad un poemetto dell’ultima raccolta: Navigare necesse est, vivere non est necesse: un invito, uno sprone in questo caso ad affrontare le tempeste della vita, del fato, con ostinazione, con coraggio, per riuscire ad affermarsi, cioè per riuscire ad ottenere la libertà, anche di essere sé stessi, evitando una vita che è a metà, una vita da pazienti attaccati per inerzia ed ignavia a flebo. Quia navigare necesse est, navigemus!

 

 


Note

1 Io non conosco, da Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980.
2 La poesia, da Didascalie per la lettura di un giornale, Einaudi, Torino 1999.
3 Senza accorgermene ho compiuto, da Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano 1980.
4 Di sera quando è poca la luce, ibid.
5 Sto rifacendo la punta al pensiero, ibid.
6 Io non conosco, ibid.
7 I mestieri, da Nature e venature, Mondadori, Milano 1987.
8 Ibid.
9 Che sorrisone faccio, nella foto!, da Exfanzia, Einaudi, Torino 2022.
10 Poi sbuca fuori una foto, ibid.
11 È possibile uscire vivi dalla vecchiaia?, ibid.