Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti ⥀ Valerio Cuccaroni

Valerio Cuccaroni recensisce il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti in “Lo chiamavano Jeeg Robot”

 

Lo chiamavano Jeeg Robot non è un film di supereroi, ma il primo lungometraggio di una serie di pellicole in cui il regista Gabriele Mainetti usa l’immaginario dei supereroi, con cui è cresciuto lui e la sua generazione, per interpretare storie di disagio sociale.

Nel suo cortometraggio Basette (2008) gli attori, vestiti come i personaggi di Lupin III, interpretavano il ruolo di piccoli delinquenti che morivano ammazzati dai poliziotti durante una rapina finita male: Valerio Mastandrea era il protagonista Antonio, sfortunato epigono del ladro più famoso dei cartoni animati. Nel corto Tiger boy (2012, vincitore fra gli altri di un paio di premi al nostro film festival Corto Dorico) il piccolo protagonista Matteo (Simone Santini) si ribella, con una mossa alla Uomo tigre, alle ripetute molestie sessuali subite a scuola dal preside. Lo chiamavano Jeeg Robot riprende da entrambi i precedenti film il tema del costume e della megalomania come fuga da una realtà di disagio ed emarginazione.

Al contrario di Antonio e Matteo, però, nel lungometraggio Lo chiamavano Jeeg Robot il protagonista Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) non aderisce mai completamente alla maschera del supereroe che tutti vorrebbero cucirgli addosso: se lo facesse, diventerebbe un pagliaccio con il costume cucito all’uncinetto, mentre lui è un uomo della strada, un invecchiato ragazzo di vita, un cinico che non può ridicolizzarsi né illudersi. Quando lo fa, infatti, viene disilluso dalla legge della strada, che determina la sua esistenza. Ed è proprio dalla strada che Mainetti sembra assorbire la lezione della modernità, che non è l’epoca antica dell’epica e della tragedia: nella modernità l’ironia è una funzione essenziale e imprescindibile della conoscenza e quindi della rappresentazione, per cui la tragedia si trasforma in hilarotragoedia, in tragicommedia, l’epica in eroicomicità, i generi e i personaggi si ibridano.

Il collettivo Wu Ming, teorizzatore e creatore della nuova epica nella letteratura italiana contemporanea, sceglie infatti la strada dell’anonimato e del meticciato per i suoi eroi. L’eroe moderno non può essere una maschera epica, perché pirandellianamente non può aderire a nessuna maschera, non ha un’identità fissa, ma semmai è sempre alla sua ricerca e può trovarla solo sul punto di morire, cioè di perdere definitivamente la propria identità: infatti, Ceccotti, quando decide di aprirsi ad Alessia (Ilenia Pastorelli), la ragazza di cui è innamorato («de te me frega» le dichiara), produce le sue confessioni, crea la sua autobiografia, partendo dalla fine, dal momento in cui credeva di essere morto, allo stesso modo di tanti suoi compagni di strada, cioè dopo un atto criminale, e per descrivere la sua vita parla solo di morti, perché la morte sarebbe stato il destino della sua vita. Eppure Ceccotti non muore, perché non è Don Chisciotte, né Madame Bovary, né il V di Alan Moore, riletto dal regista James McTeigue, per venire a un personaggio dei fumetti transitato nel cinema, come quelli usati da Mainetti.

Ceccotti finisce per essere una semplice comparsa in uno spettacolo molto più grande di lui, in cui sono le merci le vere protagoniste. Il personaggio di Jeeg Robot, infatti, a cui l’identità del piccolo delinquente viene ricondotta dalla sua ammiratrice Alessia, è un prodotto commerciale, un anime proiettato dalle tv private italiane anni ’70 e ’80, rimesso da qualche tempo in commercio, in cofanetti di dvd che il Ceccotti potenziato compra puntualmente, distribuiti nelle edicole per i nostalgici. In effetti, a parte gli irreali superpoteri, l’unico potere reale che acquista Ceccotti, grazie alle rapine, è il potere d’acquisto: con i soldi rubati compra così un proiettore, i dvd di Jeeg Robot e il vestito da principessa per la sua amata, tutti mezzi magici con cui riesce a conquistare il suo oggetto del desiderio, il corpo di Alessia.

Infine, salvando i tifosi dello stadio, Ceccotti garantisce alla società dello spettacolo di perpetuarsi. È un perfetto ingranaggio di questa società, insomma. Egli non mette mai in discussione il sistema, in effetti. A uccidere i mafiosi, infatti, che controllano il commercio della droga, non è lui, sebbene ne avesse più di un motivo, ma l’antagonista, Zingaro (Luca Marinelli), dopo aver acquistato gli stessi superpoteri di Ceccotti.

Il protagonista diventa funzionale, vincente, quando si integra nel sistema delle merci, quando inizia a viaggiare con i ciclomotori, mentre all’inizio del film scappa a piedi, e quando salva il business del calcio, con il primo atto della sua carriera da vero supereroe; mentre l’antagonista diventa disfunzionale, perdente, quando non domina più la tecnologia, quando non riesce a far esplodere una bomba con un telefono mobile arcaico.

Lo chiamavano Jeeg Robot ha il pregio di affrontare con realismo magico il linguaggio della contemporaneità, generato da piattaforme audiovisive e da dispositivi elettronici, decostruendo un mito della moderna epica popolare e calandoci nelle periferie disagiate, ma ha il difetto di non andare fino in fondo, di sottrarsi al confronto con il proprio linguaggio, mantenendolo su un codice dualistico riconoscibile dal pubblico (buoni contro cattivi), quindi consolandolo, fornendogli un happy end moralistico, con i cattivi giù e i buoni su, invece di continuare a spiazzarlo fino alla fine.

Il film è comunque la prova coraggiosa di un regista italiano al suo esordio nel lungometraggio, che ha finito di aprire, dopo Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, ma ha anche definitivamente chiuso la storia del genere supereroico all’italiana: nessun supereroe del cinema italiano , infatti, sarà più credibile dopo Ceccotti.

Valerio Cuccaroni