Loris Ferri, Poema della residenza (Sigismundus, 2016) | Davide Nota

L’argine e la residenza

1 / Lʼargine

Scrissi nel 2012 a proposito di Loris Ferri: «Nel fondo notturno di questo guscio (che è l’immobilità della Storia congelata e percepitasi per due decenni come “finita”) germogliano i gigli manieristici e borderline di Loris Ferri, poeta nato nel 1978 a Pesaro, dove vive e lavora stagionalmente come operaio edile, dopo aver compiuto gli studi universitari a Urbino e aver vissuto alcuni anni a Bologna, città adottiva e sua seconda residenza, onnipresente come un calco baudelairiano nel gioco schizofrenico in cui l’autore esige una seconda vita, sovrapposta alla biografica, da cantare per conoscersi come una maschera caravaggesca è funzione della confidenza più intima e segreta, riscattata dal giogo della personalità socializzata. 
Questa vita seconda, che è l’elaborazione di un trauma umano e generazionale per mezzo di una serie di dissociazioni della memoria, assume per questo una postura teatrale e classica, retoricamente colta e elaborata, grondante di metafore, allegorie e personificazioni derivanti dalla poesia francese del secondo Ottocento, dalla russa del primo Novecento e in parte dai poemi epici greci e latini, in cui si manifesta la voce, come da un eterno presente proprio dello “stile classico” (come inteso da Mandel’štam) che ingloba l’ora e qui per dichiararlo “passato”, dell’alter-ego di Ferri: l’emarginato, l’escluso, l’iper-sensibile (adolescente, tossicomane o poeta è la medesima cronistoria di una rimozione): lʼincompatibile con le logiche di una storia polverizzata in pixel e nevrosi.
La resistenza dell’umano, esclusa dalla polis della fiction, anela al viaggio solitario e ad un incontro redentore (con un amico, o con un amore che assume i mille volti della realtà e della mancanza), ai margini di un evo patrigno che precipita inesorabilmente in bufera.
In ciò solo la pazienza dell’attesa è principio salvifico e vitale, la chiamata a una traversata tanto più dolorosa e biblica per una generazione che non ha conosciuto altra stagione che l’inverno. E lo stile della reiterazione è forse l’umiltà, talvolta, di riconoscersi in una crisi (come per Longhi, il maestro di Pasolini, e Hölderlin) che a maggior ragione deve essere assunta fino in fondo per essere varcata come una soglia, assumendo in sé la consapevolezza ed anche il peso dei secoli a ritroso.
Così il ragazzo alieno di Loris Ferri, il personaggio del suo libro d’esordio Borderlinea (pubblicato nel 2008 per le edizioni Thauma di Pesaro, con una nota di Gianni D’Elia), il cui titolo è già un piccolo manifesto di quanto da me ora disordinatamente espresso, assume la pluri-dimensione di un tempo più vasto di un presunto “presente” a cui aderire mimeticamente, un tempo largo e stratificato, in grado di sovrapporre l’immagine dei bari di Caravaggio al giocatore di Baudelaire, la bevitrice d’assenzio di Degas ai tossicomani di Bologna e Pesaro, il viaggio di Enea a quello di un Rimbaud o di un giovane slavo in fuga dalla guerra con cui il poeta ha conversato o condiviso una qualunque occasione di incontro.
Ma è forse nella sua seconda pubblicazione, le Corrispondenze ai margini dell’Occidente, poemetto dialogico composto assieme all’amico Stefano Sanchini ed edito da Effigie nel 2011 (con una rara postfazione di Roberto Roversi), che la vena di Loris Ferri si espone nella sua maturità più limpida e cortese.
Qui il canto civile sul presente e l’evocazione tragica del destino biologico assumono uno spessore unitario e una pulizia sentimentale e filosofica di ascendenza leopardiana, in cui la durata pasoliniana del “pensiero poetante” e un labor limae petrarchesco (ma mai petrarchista) convergono in una forma poetica plastica e ispirata, in cui il letterario dello stile mai sfrangiato e delle forme chiuse in quartina è funzione (come in Fortini) di un “pensiero in atto” da comunicare, una delle possibili risposte a quell’esigenza, cui si faceva cenno all’inizio del brano e che i poeti de “La Gru” testimoniano variamente, di ricusare gli argini della separazione estetica dai molteplici richiami e ambiti della presenza storica e della dimensione umana a tutto tondo.
Una ricerca formale che prelude al suo, ancora inedito, poema Rom; opera di incontro, anche linguistico, tra italiano e croato, nella condivisione con un’alterità sempre più estesa di un moto (ondoso) comune: l’esodo, come dimensione storica ed esistenziale: “I nostri anni non vanno, né vengono, / essi stanno insieme. Essi ricompongono / o frantumano il quadro dell’essere…”.» [1].
Da questa sete di incontro ha infatti avuto origine il poema Rom (Uomo) (Sigismundus, 2012), in cui si tenta una nuova epica (come già individuato da Valerio Cuccaroni [2]) europea e di guerra, in lingua slava e italiana. È lʼAdriatico che questa volta traccia geograficamente il limite di una scissione tra ego e alter, tra poesia e storia. Tra Loris Ferri e Havro Radaik, il ragazzo croato di cui il poema canta origine, vita ed esodo, come di fronte a uno specchio, dallʼaltrove verso se stesso. Siamo sempre nella poetica del doppio, del borderline lirico che ora si rende cifra storica e geologica: «Italia e Slavia. L’Adriatico. La linea di confine tra due mondi, l’argine di due rive parallele.» [3]. Questo doppio che ora vuole ritrovarsi.

2 / La residenza

Il Poema della residenza (Sigismundus, 2016) è il libro più importante di Loris Ferri. Non solo. Esso si pone, nella bibliografia comune composta dai poeti de “La Gru” dal 2005 ad oggi, come un titolo centrale di nuova linea marchigiana. In esso lʼispirazione lirica di Borderlinea, lʼinvenzione dialogica delle Corrispondenze e la progettualità poematica di Rom si sciolgono in unʼunica opera in cui il poeta non più canta il personaggio di una storia altra, lʼangelo rivelatore di una verità sepolta nello spleen provinciale, ma è egli stesso ad intraprendere il cammino dalla distanza allʼorigine della vita viva e esperita. È lʼelemento liquido che tutto bacia e nutre, ventre prenatale e ponte orfico tra le frazioni terrestri, il filo dʼArianna di questo moto. A ritroso, si sarebbe un tempo detto, permanendo nella cognizione lineare del tempo politicamente scandito. Ma Loris Ferri è un anarchico erede del 1848 parigino e baudelairiano, nellʼorigine mistica e non illuministica del movimento operaio e comunardo. Dunque egli spara contro gli orologi delle cattedrali scrivendo in vernice nera, sulle mura dei campanili, il motto: “ABOLIAMO IL TEMPO”. Il regressismo, quale reazione al positivismo, non lo riguarda. Parliamo dunque di salto quantico; o di differenza deleuziana contro la ripetizione degli opposti scissi. In marcia, verso una terra invisibile eppure tangibile sensorialmente, come il mare alleato con il sole de LʼÉternité. Si torna alla figura dellʼebreo errante, dentro la storia come corpo (di schiavo) eppure mai come spirito (libero). Il tempo che egli attraversa, non lʼha mai contenuto. Per questo non può esistere in nessuna dialettica (e dunque in nessuna avanguardia). E il suo ritorno non si svolge a ritroso.
Dal canto alla vista, dunque; e dalla vista al tatto. Dal «Concerto orale, detto agli amici di viaggio, a quel popolo della notte diversa, tra bettole e locande, bar e moli solitari» [4] allʼesperienza del pensiero tangibile e in cammino. Come nel mito orfico del dio Fanes, che sorge dallʼuovo argenteo negli abissi della notte primordiale, la poesia di Loris Ferri ora si schiude ad unʼimmagine non più evocata e sognata da flâneur, dai bordi oscuri della cittadella marchigiana, ma finalmente abbracciata a pieni occhi, a pieni polmoni. Il rimando allʼorfismo non è arbitrario. Il poema canta come un io-mondo («Io ero una terra di arance e limoni») la genesi cosmogonica della vita terrestre, quando «Il vento primordiale spargeva ogni seme» nel ventre della Grande Madre originaria: «Madre esoterica», «madre dei boschi», «madre terrena». È questa «umida terra» in cui «ogni cosa allʼorigine torna», la residenza di cui parliamo.
Dal moto terrestre al cammino umano. Ecco apparire infatti il nomade antenato, in «una carovana di occhi». Egli traccia così il primo insegnamento: «questa solitaria grandezza del cammino» in cui lʼio si scioglie nel movimento collettivo, come «il richiamo di una danza estinta» che fa la vita viva nella continuità dei mutamenti. È lʼessere stanziale, separato dalla spontaneità degli eventi, ad avere determinato politicamente (e cioè linguisticamente) la percezione presente di discontinuità tra io e mondo. La grande separazione. Da questa percezione indotta ha origine la “melanconia” quale nostalgia poetica di unità e al contempo speranza di un futuro a venire, di un «orizzonte / [che] a terra giace al cospetto di una nuova primavera».
Linguaggio come catena, dunque, come colonizzazione culturale. Tra le abitudini al pensiero determinate dalle parole vi è il fraintendimento supremo di esistere in quanto “io”, in quanto individui separati dagli altri individui e dal cosmo quale oceano di materia ondivaga e ritornante. Ma la lingua poetica neutralizza nel musicale il linguaggio mondandolo da ogni utilità. Ecco perché è il poeta che può sconfiggere, nella parola, la parola stessa, sciogliendola dallʼillusione apollinea del “principio di individuazione” nel mare dionisiaco della musica e del gioco. Come nel mito della Sibilla appenninica, che difatti compone i propri oracoli su foglie, lasciando al vento il compito di disordinarle. Donando al “fato”, e cioè alle “fate”, il compito di ricreare un nuovo ordine espressivo. Precivile. Così la parola, liberata dalla logica sintattica, svolge su tutte una funzione specchio dove ciascuno può riflettere su di esse la propria rivelazione.
Non parlo di puro informale, poiché questo non è sempre necessario e talvolta può rivelarsi addirittura controproducente (nella misura in cui, spiega Nietzsche, il dionisiaco ha bisogno dellʼapollineo per manifestarsi; la musica della figura. Giorgio Colli va anche oltre, ipotizzando lʼorigine unitaria dei due dei, verso un monoteismo liquido così detto: “il dio della contraddizione”). Il poeta canta cioè un apparente dettato lineare ma nel frattempo è il suono, questo concerto fonico sottocutaneo, che andando da sé altrove produce sdoppiamenti, allargando i sensi e le cognizioni, provocando contraddizioni perfettamente compatibili con lʼimmagine che le contiene. Il musicale sottocutaneo riconduce ad una complessità esistenziale la cognizione della vita, interrompendo lo standard linguistico e politico fondato sulla ripetizione dellʼidentico e dei suoi conflitti dualistici.
Ecco perché Orfeo, a cui il poema è dedicato, dio della musica ma anche della vista, contro ogni scissione, contro ogni dualismo, nella piena “differenza” del vivere unitario, è il modello sacro del poeta: «un viaggiatore immobile», come lo definisce Loris Ferri, in opposizione alle città dallʼapparente moto dove, per nota citazione, «tutto cambiava affinché nulla cambiasse».
Definizione che trova una precisa corrispondenza anche stilistica, nella cifra classica assunta dal poeta il cui dettato è mosso da un verso di estrema plasticità, che si espande liberamente dal metro tradizionale alla prosodia più irregolare ed etrusca senza mai sfrangiarsi e mantenendosi sempre allʼinterno di una forma regolarmente scandita in quartine. Ne deriva quello spirito del canto di cui ho già detto, il cui movimento più libero è nascosto, nel ritmo e nella trama di assonanze disseminate internamente, mentre la forma complessiva, vista dallʼalto, è quella di un apparente ordine aderente alla tradizione.
Apparente, per lʼappunto. E su questa “apparenza” potrebbero essere scritte numerose pagine di filosofia estetica a partire dal concetto di “avanguardia della tradizione” che Ferri muta da Gianni DʼElia e dalle sue lezioni pasoliniane [5] fino alle riflessioni di Mandel’štam sul classico come funzione di superamento del presente [6]. Lʼordine a cui fa riferimento Loris Ferri è difatti un ordine ciclico, geologico e cosmico («il ciclo delle ere»; «ciclo infinito»), fondato sullʼinfrazione e impermeabile ad ogni normativa formalistica e politica.
È in questa forma acquitrinosa e anfibia, dove lʼelemento liquido permea ogni contenuto («la ragione dellʼacqua», la chiama il poeta), che fermentano le voci della rivolta: i Versi eretici che conducono alla migrazione con cui si chiude il libro. In questa lotta orfica e incivile contro il presente storico il portuale, il migrante e il poeta sono fratelli, figli del mare, nella bufera comune che li avvolge.

Davide Nota

Loris Ferri da Poema della residenza

[Io ero una terra di arance e limoni]

Io ero una terra di arance e limoni
che il sole arava con il suo oro,
verdeggiante di carrube selvatiche e possenti olmi;
splendeva un astro giallo sulle grandi alture

e l’aria spirava e danzava e cantavano i merli.
Là riposavo in un letto di ciottoli e pietre
le sere d’estate, tremule, vicino ai ruscelli
sotto una pallida luna, amante delle maree.

Là ero senza nome. Là ero il tuono profondo!
Il vento primordiale spargeva ogni seme lontano
e cresceva nel mio ventre il mondo.
Crescevano argille dal fango, tufo e grano,

poi fiori e blatte dalla oscure miniere,
ciechi pipistrelli, ortiche alla bocca di un platano,
nella fecondità del buio crescevano le zagare
nelle viscere rosse, giorno e notte prendevano

forma dove presto sarebbero giunte le mani
con falci di primavera e lunghi vomeri
a dissodare e piegare al crepuscolo le giovani
schiene. Era il regno delle lucciole e dei corvi neri!

Ditelo con gli occhi di un popolo ancestrale,
ditelo che ero labbra, sangue e fatiche,
profonda come la notte, alta spina dorsale
dai fianchi di marna, spuma di alghe acquatiche,

serpe la cui muta è sepolta tra le avene.
Io ero la maestosità delle acque, la tenera
fronte dell’alba che illuminava i calanchi e le arene
sabbiose; nuda ero il suono, ero la bocca dal fragile utero!

Io ero la culla, la selva, l’approdo
ero Bisanzio le cui tele d’oro
dai lunghi abissi all’altopiano intrepido
la lingua perduta parlavano del Bosforo;

ero colei che odorava di foglie di menta,
di tempesta, di squarci alle porte dei cieli
dove l’azzurro si faceva una lampada spenta
di voci e di suoni di navi, dalle Indie orientali.

È giunta l’ora del crepuscolo, la polvere
bianca della calura estiva e dei cocchi
illuminava, come una palma d’avorio, un cuore
dilaniato. Come un fiore esule dalle terre aruachi

io ero la piccola Maia in catene, ero le Americhe
a macinare cacao, a tritare caffè, selce incatenata
ai remi salmastri dalle spalle tolteche,
la cui radice d’agave era fatalmente imbrigliata!

Io ero con loro e non ero nulla,
alla mano dei boia vivevo schiava;
ero berbera, odore di aspra cannella,
desiderio di paprica all’ombra di una casba.

Madre esoterica e saracena come il grano,
madre dei boschi, smeraldo di acacie,
labbra di porpora con masala indiano
cuore pulsante dalle miniere buie,

madre terrena, frontiera barbara
voce antica, acqua delle viscere
marea dell’oblio, sudore di zolfara
seno delle tarante, vulva di cerere

ero la notte furtiva, ero il cielo stellato,
l’immenso e infinito slancio, il tedio d’amore.
Io ero Didone, colei che ha mutato
l’odore del viaggio in odore di carne.

[1] D. Nota, I poeti de “La Gru”, in “La Gru” n. 9, 2012; ora in Lettera ad un giovane poeta in Italia e alcuni scritti precedenti (In realtà la poesia, 2013)
[2] V. Cuccaroni, Borderlinea di Loris Ferri. Appunti per la nuova epica italiana 2/3, in “Absolute poetry”, 31 luglio 2009
[3] M. Jodic, Il Deuteragonista. Parole dʼamore per Rom di Loris Ferri, in “La Gru” n. 7, 2010
[4] G. DʼElia, Il poeta è un traduttore, in Borderlinea (Thauma, 2008)
[5] G. DʼElia, Lʼeresia di Pasolini. Lʼavanguardia della tradizione dopo Leopardi (Effigie, 2005)
[6] O. Mandel’štam, Sulla poesia (Bompiani, 2003)