Luca Bontempi illustra il racconto di Manuela Mazzi | Mixis #9

Fra scelte, solitudine e cantine buie. Nono appuntamento con Mixis.

È in un vorticare frenetico e martellante, che l’elencazione paratattica di Manuela Mazzi, propedeutica a soluzioni terapeutiche, incontra l’illustrazione sintetica di Luca Bontempi. Un ronzio interno che esplode nello spazio privato dei propri pensieri, un verbo esausto che inventa punizioni e disperazioni.

Oggi sei salvo

Mi martella il cervello. Il cervello. Il cervello. E tu pensi, no. Non voglio. Non sento. Non. No. È un angelo che trasfigura e sbava come un dobermann rabbioso che ti lecca mostrando i canini gocciolanti. Gocciolano le dita. È colpa sua. Tasto il suolo con le mani. Il pavimento è ruvido e sporco. Non vedo lo sporco. C’è odore di sporco. Sento lo sporco con i polpastrelli. Sassolini su lastre di vecchio granito scolpito dall’acqua del fiume che scende dalla montagna. Aria. Che manca. Sento scricchiolii nel buio. Ho gli occhi aperti, ciechi. Sono sorda. Voglio essere sorda. Non è scroscio, è un muoversi viscido. Caduta in ginocchio non prego, ho il culo che mi pesa a destra. Sento un filo d’aria come una lama sul collo, che si affila con l’appiccicoso sudore, umidità di cantina, casa antica. Culla di morti e spettri. Mi giro per respirare. Cerco ossigeno. Ma la bocca si riempie solo di polvere. Sento salirmi sulle mani. Camminano zampette che mi solleticano. Insetti. Scarafaggi o formiche, forse ragni. Mi camminano. Mi abitano. Li lascio abitarmi. Potrei nutrirli con il mio male: vorrei raggiungessero il collo, che me lo riscaldassero e poi che entrassero nei miei orecchi, perforassero i miei organi, si cibassero della mia polpa cerebrale. Sto meglio. Starei meglio. Mi appoggio sulle mani e mi tiro in piedi. Mi fanno male le ginocchia; sono rimasta troppo tempo per terra. Le mie membra si sono scrollate di dosso gli insetti che ora, a piedi nudi, lentamente, schiaccio per raggiungere la parete. È rugosa. Calcestruzzo granulato tirato con una spatola. La porta è chiusa a chiave. La chiave è da qualche parte dopo essere rimbalzata contro qualcosa. Nel buio. Lanciata a terra. Magari la sentirò sotto i piedi. Tasto centimetro per centimetro quei granelli piccoli e grossi che pungono le dita, certe volte, mentre altre sono tonde che mi viene voglia di leccarne la superficie, come capezzoli poi da mordere, fare andare a sangue, secchi. Sento una fuga, una crepa nella muratura, odoro la fessura, sentore di mattoni. Sanno di ferro e terra, i mattoni. Non ha finestre questo posto. Faccio un altro passo, alzo il piede, sento il ginocchio ancora rigido che appesantisce la coscia, e invece il polpaccio pare essere animato di vita propria. Sono instabile. Non è colpa mia. Non dovrei essere qui. Faccio quello che posso. Appoggio il tallone e sotto la pianta che adagio piano piano percepisco un rigonfiamento di stoffa, uno straccio. Mi chino a raccoglierlo e lo avvicino al naso. Olio di motore. Mi sarò sporcata mani e faccia. Sento salirmi una strana eccitazione. Ancora sporco. Sporca come mi sento vorrei sporcarmi di più. Cammino con le mani a tastare il buio, braccia tese. Colpisco con il mignolo del piede sinistro una scatola. Un dolore affilato mi ferisce in mezzo alla fronte, una scossa elettrica che dal piede mi attraversa in un lampo. Sento un brivido di gioia. Ho bisogno di scaricare la tensione. Il cuore che mi batte in gola non perde colpi. La rabbia di prima mi morde ancora la giugulare. Quando ti senti soffocare tendi a liberarti del male, vorresti cacciarti una penna in gola o infilarla negli occhi del cane che ti azzanna. Scuoterlo. Lanciarlo. Bruciarlo. Colpirlo. Zittirlo. Fermarlo. Mi martella il cervello. Il cervello. Il cervello. Dentro. E gli insetti sono troppo piccoli per mangiare martello e cervello. Placenta marcia che partorisce aborti. Il cervello. Mi lascio cadere a terra dopo aver raggiunto la parete più a sud. Allargo le gambe, sputo sulle mani e le lavo immaginando che si sporchino spalmate dello stesso sporco di prima. Poi le asciugo nella maglia, alzo la gonna tirandomela sopra le ginocchia. Inserisco le dita in bocca due di entrambe le mani, ci stringo sopra le labbra e le ciuccio. Sanno ancora di latte e pappa. Perché l’odio fa male? Le faccio scivolare in mezzo alle cosce, scosto gli slip, e sdrucciolo tra le labbra, cerco quella piaga maledetta e con forza ci infilo le due dita della destra, appoggiandomi con l’altra mano a terra. Saliva sputo polvere sporco. Finisco sulla chiave della porta. L’ho trovata ma non sono pronta. Levo le dita della destra poi le succhio mescolando i miei umori alla mia saliva, e con quello che mi resta in bocca succhio e bagno anche la chiave; gigantesca vecchia ferrosa chiave da portone di legno. Con la sinistra mi infilo la chiave lacerando le pareti interne, facendole fare avanti e indietro e con la destra che quasi gocciola scivolo tra le labbra e sforbicio il clitoride, poi aumento poco a poco la forza l’energia con la chiave a farmi male a simulare una violenza che distrugga il piacere che rovini la possibilità di godere di desiderare di prendere ancora dentro di me danni e maledizioni che non debba più fare figli e sentirli piangere e strillare e vociare e martellare il cervello. Il cervello. Tutte le notti. Da sola. Tutti i giorni. Tutto il giorno. Il cervello che vorrei venisse risucchiato da quel buio e morire stanca in quella cantina dove mi rinchiudo per non impazzire, per non fargli del male per non guardare in faccia il mio piccolino che piange e piange e piange e piange e piange e non so nutrirlo o accudirlo e piange e io non lo sopporto più e se non ci fosse la cantina dove rinchiudermi nel buio gettando la chiave dove non so per farmi passare questo attacco di rabbiosa voglia di soffocare quell’esserino che non ha fatto niente di male che non sono io una buona madre che forse non so che cosa e come si fa se ha mangiato ed è pulito. Che. Cazzo. Vuoi? Non piangere più per piacere.