L’ufficiale e la spia: il castigo in cerca di una colpa
Quante orribili farse si annidano nelle pagine della Storia. Spesso, come nell’affare Dreyfus, ci sono di mezzo i servizi segreti e dunque un governo, uno Stato che come un popolo in subbuglio ha bisogno di un capro espiatorio, lo individua, lo trattiene, perseguita lui e tutti quelli che sostengono trattarsi di uno sbaglio. Niente di nuovo sotto il sole, direbbe l’Ecclesiaste. In un doppio salto carpiato del pensiero, Proust, tra gli intellettuali che sottoscrissero il “J’accuse” di Zola, ebbe a scrivere in una lettera: «Per nessuno di noi suonerà mai l’ora in cui il dolore si trasformerà in esultanza, la delusione in conquiste insperate… Ma per Dreyfus e per Picquart la vita è stata “provvidenziale” come una fiaba. La ragione di tutto ciò è che i nostri dolori hanno una base reale, sia essa fisiologica, umana o sentimentale. Le loro disgrazie invece furono il risultato di errori. Beate le vittime degli errori giudiziari e no! Solo per loro, fra tutti gli uomini, esistono la riabilitazione e la riparazione». Vale la pena di soffermarsi sulle sue ultime parole: solo per loro, fra tutti gli uomini, esistono la riabilitazione e la riparazione. Proust era un pessimista, sostengono alcuni, ma quale pessimista si darebbe così minuziosamente a ricercare il tempo perduto?
Quando l’ebreo Dreyfus venne giudicato un traditore, degradato dal rango militare e spedito in una colonia penale della Guyana francese, mancavano solo una manciata d’anni all’avvento del ventesimo secolo. Non molto distante dalla Repubblica francese, in Boemia, il giovane Franz era un ragazzino di undici anni di origini anche lui ebraiche. Al secolo Franz Kafka, egli sarebbe diventato a sua insaputa il cantore non di un affaire in particolare, ma della condizione esistenziale dell’intero continente europeo. Quella di Kafka, come tutti sanno, è una letteratura enigmatica che trabocca di comica disperazione, concepita agli albori di un secolo che avrebbe prodotto due guerre mondiali e l’Olocausto. Come la lettera K del suo cognome e dei suoi principali antieroi – il Joseph K. del Processo, il K. del Castello e il Karl Rossmann di America – per suo tramite è diventata il simbolo del “castigo in cerca di una colpa” (così Kundera a proposito della letteratura del praghese), c’è un passaggio, nel processo contro Dreyfus ripreso ne L’ufficiale e la spia, ultimo lavoro del regista Roman Polanski, in cui un dossier segreto di dubbia validità come prova, la lettera di un spia italiana a un’ufficiale tedesco – lo stesso col quale, per gli inquirenti, collaborava Dreyfus – funge da test determinante per la colpevolezza dell’imputato. Nella lettera in questione si legge a un certo punto: «Quella canaglia di D». Solo una lettera: D. Questa la prova irrefutabile che Dreyfus fosse la spia che informava i tedeschi degli armamenti militari francesi (ragguagli che, altro dato kafkiano, non erano di alcuna rilevanza). La lettera D diventa nell’Affaire l’evidenza dell’altrui colpa. In realtà, come quella di Kafka e di molti di là da venire, la sua colpa era quella di essere l’altro ebreo.

I genitori di Roman Polanski vennero internati nei campi di sterminio; la madre morì ad Auschwitz e il padre sopravvisse a Mauthausen. I film del regista polacco sono stati spesso accostati a incubi kafkiani. Sul finire degli anni ottanta, Polanski portò in Italia uno spettacolo teatrale in cui egli stesso interpretava il celebre scarafaggio Gregor Samsa. Prima, sposò l’attrice Sharon Tate, che morì per mano della Manson Family a Los Angeles, incinta del figlio. Tra i due eventi, venne accusato di violenza sessuale ai danni di una minorenne e fuggì dagli USA, dove pena l’arresto non può tornare – è stato più volte perdonato e difeso dalla stessa vittima, oggi cinquantacinquenne, la quale ha fatto richiesta di archiviazione del caso; ma è fuggito dal processo e ciò naturalmente fa di lui uno che si è sottratto alla giustizia americana. Insomma, la vita di Polanski è un film che racchiude tutti i generi da lui esplorati: lo storico, il picaresco, lo spionistico, il grottesco, il surreale, il thriller. E tutti sono illuminati, si fa per dire, dall’ombra oscura della persecuzione.
Alfred Dreyfus è un perseguitato. Che siano pregiudizi razziali, nessi casuali, coperture spionistiche o un insieme di moventi che comprendono queste e altre ragioni, la necessità ultima è quella di indicare un colpevole tra i papabili. L’innocenza è del tutto relativa; agli occhi dei servizi segreti Dreyfus è comunque colpevole di essere un ricco ebreo. Su Doppiozero Clotilde Bertoni, in un bell’articolo che confronta le verità storiche con quelle sceniche de L’ufficiale e la spia (Polanski e Robert Harris, dal romanzo del quale hanno tratto insieme la sceneggiatura, a quanto pare si sono presi molte libertà), si domanda come sia possibile che tanti giornali abbiano avallato l’identificazione del “reo confesso Polanski” con “l’innocentissimo Dreyfus”. Una domanda più che lecita, tuttavia Polanski sceglie il punto di vista dell’ufficiale Georges Picquart, il retto antisemita (quasi una contraddizione in termini), in cui il pregiudizio convive col senso di giustizia. Nella sua acuta disamina ciò naturalmente non sfugge alla Bertoni, che anzi fa dell’elezione dell’ufficiale come unico eroe uno dei principali tradimenti della verità storica nonché una delle scelte registiche più convenzionali, giacché finisce per “conformarsi a un immaginario già cristallizzato”. Preso doverosamente atto di ciò, il Picquart polanskiano è un uomo che non permette alla sua avversione verso gli ebrei di frapporsi nel quotidiano esercizio della disciplina militare. Sua è l’indagine e la scoperta della verità per la quale è disposto a pagare ogni prezzo. Allo stesso modo, paradossalmente, Dreyfus è un militare tutto d’un pezzo che ama la patria Francia e odia il nemico tedesco che ha sottratto l’Alsazia da cui proviene ai francesi (Louis Garrel fa un lavoro di sottrazione ineccepibile rispetto al pur bravo Jean Dujardin). Nel suo orgoglio patriottico, Dreyfus è un uomo quadrato che non smette d’amare chi lo sta perseguitando. Non sa esprimere i suoi sentimenti se non attraverso il suo contegno marziale. È un uomo giusto, anche lui, di una rettitudine quasi commovente alla luce di ciò che gli è cascato addosso. Uno che non si tira indietro se si tratta di discutere un voto accademico con Picquart, che lui sa essere antisemita, ma che accetta la separazione tra personale e pubblico che gli viene fornita senza dubitare della sua buona fede, così come non batte ciglio quando Picquart sostiene che non sia possibile fargli recuperare i gradi maturati mentre era in esilio, altra ingiustizia che il povero Picquart accoglie con senso di abnegazione sesquipedale. Nella sua figura quasi tragica è un personaggio che ha del comico.
Sia la “spia” che l’ufficiale, specularmente commoventi nella loro purezza, sono incastrati in un meccanismo pregiudizievole, una macchina del fango che coinvolgerà anche i più grandi intellettuali francesi tra cui in prima fila Émile Zola, esponente del naturalismo amante della verità non solo sulla pagina. Il bordereau incriminato, documento che consentirà di riconoscere la scrittura di Dreyfus da parte del grafologo antisemita e noto criminologo del tempo Alphonse Bertillon, è quanto di più aleatorio e kafkiano si possa concepire come prova provante; Dreyfus avrebbe contraffatto la propria calligrafia, e dunque, come egli chiede in tribunale: “Se la scrittura è come la mia sono colpevole ma sono colpevole anche se la scrittura è diversa dalla mia?” – “Esattamente”, risponde Bertillon.
Ma solo per loro (Dreyfus e Picquart), fra tutti gli uomini, esistono la riabilitazione e la riparazione, dirà Proust. In assenza della grana della pellicola che fa tanto film storico, Polanski sceglie una messinscena glaciale, citando in apertura, nella sequenza della degradazione per alto tradimento, l’opera dell’illustratore Henri Meyer. Ne usa i colori, le atmosfere, l’inquadratura. Entriamo nella Storia attraverso un suo ritrattista dell’epoca. Poi è puro Polanski in levare, il regista non ha bisogno di rimarcare i toni grotteschi perché l’intera vicenda si presta all’incubo dei burocrati e del loro ufficio, e allora dissemina il tessuto narrativo di piccole ripetizioni e incidenti: l’edificio fatiscente dei servizi segreti ha come sorvegliante un vecchio che dorme impunemente; al suo interno dei sospettosi impiegati lavorano con cavillosa solerzia per interpretare o contraffare documenti (mentre, dall’esterno, il tetro palazzo è osservato dall’angolatura dal basso inclinata prediletta da Polanski quando ci mostra qualcosa di sinistro, qualcosa che non possiede una sua manifesta interezza).

Un luogo dove accadono, tra le altre, cose noiose e meccaniche, dove non c’è luce né aria – e difatti la finestra dell’ufficio di Picquart è rotta e non si apre, per quanto lo spettatore vorrebbe con lui prendere una boccata d’aria fresca. Enormi mazzi di chiavi che aprono porte che aprono cassetti che aprono forzieri; toppe in cui cercare la verità, che è sempre dentro un ulteriore contenitore, in attesa che qualche anima pervicace e in grado di riconoscerla – che ne abbia lo statuto morale e il coraggio – la porti alla luce e ne affronti il calvario. È questa la riabilitazione e riparazione di cui parla Proust: se sopravvivi alla verità, sei salvo; giustizia è fatta, riabilitati i presunti colpevoli. A volte la Storia sa riscriversi, correggere gli errori. Altri, fra tutti gli uomini, non sono altrettanto fortunati nelle loro disgrazie private e imponderabili.
All’inizio delle sue tribolazioni per mano loro, le alte cariche militari offrono a Dreyfus una scappatoia: una pistola con cui spararsi. Questo Polanski ce lo suggerisce soltanto, ma è abbastanza perché lo spettatore comprenda che Dreyfus rinuncia alla colpa. Chi si fa carico di una responsabilità che non conosce si sente in qualche modo colpevole: lui è un militare devoto, un patriota, un uomo che possiede la propria lealtà alla causa. Lui non è K, è ancora per un soffio nel secolo in cui l’innocenza era ancora possibile.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it