Manga e maghi tra le strade di Galway ⥀ Il citazionismo straniante di Alessandro Di Prima in “Dobby, Yuko e la neve di Joyce”
L’originalità della scrittura poetica di Alessandro di Prima nel libro di poesie Dobby, Yuko e la neve di Joyce (Puntoacapo, 2022)
Da quando gli schermi governano le nostre vite, l’immaginario è dominato dai frame del mondo del cinema e della televisione. Prima di tale epoca, la parola scritta aveva bisogno di ampi margini per descrivere paesaggi e oggetti, animali e persone: oggi, al contrario, basta fare accenno a qualcosa di già visto per rievocare nella mente del lettore estetiche ben definite. Forse, il citazionismo postmoderno non è nient’altro che una nuova forma di concisione, un modo per saltare le parti descrittive e concentrarsi solo sugli intrecci.
Il libro di poesie Dobby, Yuko e la neve di Joyce di Alessandro Di Prima, pubblicato da Puntoacapo, sfrutta in una maniera del tutto peculiare la citazione. È un libro ambientato in Irlanda e questo non appare chiaro da precise descrizioni del paesaggio, ma dal continuo ripetersi di nomi di strade e di villaggi: in questa poesia, è il suono della toponomastica a essere il paesaggio. La presenza di termini stranieri costringe la lingua italiana a proiettare immaginari lontani, oltre i confini della penisola: Di Prima ha bisogno di disinnescare dal lessico italiano l’evocazione di sfumature mediterranee per piegarlo verso tinte più fosche, dai tratti gotici:
Vinegar Lay’s
All’uscita del Crane, ieri sera
all’angolo di Sea Road con il Farragher’s store
c’era una bambola di quelle di pezza
con tutti i bottoni di perla, sapete
una specie di Betty Boop dell’orrore
ma più domesticaEppure, lo giuro
non avevo bevuto più d’una
forse due pinte, al bancone di Rory
intriso del Bushmills più bruno e torbato
e di certo non tutto d’un fiato
come prima il suonatore di banjo
con l’intero supporto corale
della Galway Street BandOk, non ci perdiamo
la bambola era lì e mi fissava
sgranocchiando spietata
un pacchetto argentato
ancora pieno di Vinegar Lay’sCosì ho pensato di parlarle
di dire qualcosa di sensato
una battuta elegante, con spirito
per apparire un minimo sveglio
possibilmente educato
non dico intelligente ma almeno
credibile, senza segretiSi è voltata, e in un salto
ha preso la via verso casa
oltre il Corrib e la baia, svelta
prima che osassi (pp. 24-25).
In estrema sintesi, il libro di Di Prima è un’opera di traduzione, nel senso più vasto del termine. È il tentativo di trasferire linguaggi e immaginari ripresi da culture diverse in nuovi luoghi, al fine di farli incontrare e poi detonare tra di loro, e poi creare da questo big bang un nuovo universo per un immaginario lirico. E, nei fatti, Dobby è anche un’opera di traduzione in maniera letterale: il ritmo narrativo del libro è scandito da alcune poesie che sono variazioni di A couple of local boys di Gus Weill. Traduzioni che, più che trasferire, deportano le parole di Weill in un contesto del tutto estraneo: prima di tutto, un’opera sorta dall’immaginario della Lousiana viene non solo condotta in una nuova lingua, l’italiano, ma anche in un nuovo luogo, l’Irlanda; in secondo luogo, le traduzioni non sono precise, ma piegate alle esigenze del mondo di Dobby. La prima di queste variazioni è emblematica per rappresentare l’intera atmosfera del libro:
Il racconto di Evangeline
La mia relazione più strana
fu con un fantasma.
Ci incontrammo al cancello di un sogno
mentre portava dei fiori e le sue mani
rilucevano di un pallore lunare.
Non mi sono mai avvicinata troppo
sapendo che sarebbe svanito:
le regole del gioco erano queste.
Parliamo, o almeno io
e forse le sue risposte sono il vento.
Credo di amarlo
e quando me ne vado piange.
Mi giro per confortarlo, gli dico che tornerò
ma c’è solo una quercia
tra le trine del sogno
e quell’odore di rose
nella luce serale (p. 29).
Dobby è un mondo di fantasmi, ma senza essere orrorifico. È il nostro mondo che si somma a quello delle epoche passate, a quello del sogno, a quello della fantasia. È un mondo che mostra come l’esistenza sia sempre qualcosa di più rispetto a ciò che c’è. La cosa non è tutto: ci sono anche gli spiriti. Ma che cos’è questo fantasma? La citazione di Lacan che apre il libro cerca di chiarirlo: «Se il sogno significa qualcosa è per il fatto che lo si racconta»: il fantasma è il nostro desiderio di dare un senso a ciò che vediamo, non importa se in questo mondo o in quello della fantasia. Un senso che sia nostro, che abbia valore per la nostra vita. La scrittura di Di Prima è una traduzione che più che trasferire crea compresenze, sovrapposizioni di sensi:
L’angelo
Per Angelo D’Arrigo
La scena che ogni notte si ripete
è pressappoco questa:
un’enormità di alberi
e dietro, l’acquario della casa
un lucernaio di vetri
dentro la corolla del buioLa prima volta che lo vedi
è il centro della grande stanza
al primo piano, in piedi
solitario, intento a un qualche cosa
nel silenzio siderale.
Immenso, nella sua concentrazioneOra è a terra, o più precisamente
sopra rotoli di carte di cui segna il cuore
prende appunti, quote
calcola spazi e il tempo
quel buco nero
nel segreto delle traiettorieUn aeronauta
che ridisegna il proprio atlante
sul corpo celeste della cellulosaCome gli uccelli gioca con l’aria
impara una più alta
geografia delle correnti
i lampi in cui compare
il punto esatto di passaggio
dove è certo che si apra il ventoSi prepara un’altra volta a trasvolare (pp. 39-40)
«Angelo» da nome proprio diventa comune, minuscolo, per dare avvio alla creazione artistica. Di Prima fa detonare il senso mitologico sopito nel nome dell’amico. E a sua volta il termine «angelo» si apre sui campi semantici della dimensione dell’alto e del volo: l’«aeronauta», gli «uccelli», i «buchi neri», il «silenzio siderale», i «lampi», l’«aria», il «corpo celeste», per poi rievocare anche i suoi contrari, con termini che si rivolgano al basso come «a terra», gli «alberi», l’«atlante».
Anche il titolo del libro partecipa a questo gioco: Dobby rievoca l’universo di Harry Potter, citato esplicitamente a p. 18, Yuko quello dei manga, e non a caso appare Death Note a p. 74, e Joyce quello del grande scrittore irlandese, che è presente fin dalle prime pagine con una frase ripresa dal racconto I morti. Eppure, i primi due sono dei gatti e l’ultima una ragazza che si è appena trasferita in città (p. 100). In questo meccanismo citazionistico Di Prima sembra prendersi gioco del postmoderno: il legame tra l’opera precedente e Dobby appare oscuro, la citazione crea effetti di confusione e spaesamento. Di Prima mette alla prova il lettore contemporaneo, che a causa del bombardamento mediatico viene invaso da certi immaginari. Il poeta sembra chiederci: è possibile scrivere, oggi, il nome «Dobby» senza rievocare l’elfo di Harry Potter? Oppure è ancora possibile usare un termine giapponese senza dover pensare subito all’estetica manga? E Joyce può essere solo un nome anziché un intero pezzo della storia della letteratura mondiale? Dobby è un testo sui fantasmi, ma allo stesso tempo un rituale di esorcismo contro le fantasie che ci invadono. L’io poetico di questa raccolta lotta per creare una propria fantasmagoria, senza doverla necessariamente prendere in prestito da altri:
La clessidra di Barna
La spiaggia che ci hanno raccontato,
Stephen, è tempo capovolto, frantumato
in sabbia da tenere tra le mani
clessidre dei morti
che vogliono comporsi
nuovamente in tempo
viverlo diverso
ogni volta diverso, ma oggi
non resta che affidarci al corpo
di questa casa senza suoni
o meglio, lasciare che ci parli
l’indice del poco
quel punto luccicante nella sera
che preannuncia il sonno(l’azzurrorosalino di sirena
riemerso dal profondo) (p. 94)
In quest’ultima poesia si trova l’essenza della scrittura di Di Prima. Chi sono i «morti»? Ogni personaggio del passato che cerca, con insistenza, di rigenerarsi infiltrandosi nell’immaginario contemporaneo. Quello che «ci hanno raccontato» vuole impadronirsi dell’energia di vivi, nella speranza di usare la loro voce per tornare in vita: l’artista costretto a essere un semplice cosplayer. Di Prima, al contrario, contrappone all’immagine della clessidra quella del sonno: anche il sonno è un linguaggio formato da frammenti, presi dai ricordi di chi è tra le braccia di Morfeo, ma allo stesso tempo è il racconto di un desiderio intimo. Il riemergere del mito, come la sirena nei versi conclusivi, deve essere un modo per alimentare la propria macchina del desiderio e non un modo per lasciarsi colonizzare dagli immaginari della tradizione o della società dei consumi. E quindi bisogna scuotere il lettore, bacchettarlo per le sue associazioni troppo rapide e semplici, fargli capire che ogni opera è un mondo nuovo e non un “tributo” a qualcos’altro.

Gerardo Iandoli
La mia biografia: Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna e dottorato all'Università di Aix-Marseille, entrambe le volte in Italianistica. Si occupa di teoria letteraria e rappresentazioni della violenza nella letteratura, nel fumetto e nelle serialità televisiva italiana degli anni Duemila. Scrive per la rubrica UniversoPoesia di Strisciarossa. Ha pubblicato un libro di poesie, Arrevuoto (Oèdipus 2019).