Le mani che cullavano il caldo – Annalisa Ballarini (Racconto, 2014)

Seduti al tavolino della caffetteria, cercavano le mani che facevano ondeggiare l’aria sulla piazza.
L’uomo e la donna guardarono la panchina: forse era lì che esse si appoggiavano per imprimere lo slancio che cullava il caldo. Le doghe in parte divelte rimandavano riflessi che diffondevano intorno il verde di cui erano dipinte, sicché la panchina aveva acquisito le sembianze di un Sebastiano sdraiato, ma già con l’aureola dei Santi.
Il caldo riposava a occhi chiusi nel suo letto e respirava affannoso sui loro volti ogni qualvolta il movimento lo sospingeva accanto al tavolino.
Lei prese un fazzoletto dalla borsa e se lo passò con imbarazzo sulle guance levandosi parte del trucco, lui estrasse un panno sottile dalla tasca e lucidò con garbo le lenti degli occhiali. Nella speranza di un contatto più diretto con ciò che li circondava, ripresero a cercarle, certi che le mani avrebbero evitato di imprimere il loro peso al corpo sofferente della panchina. Cercarono lungo i muri della piazza, per scorgere qualcosa su cui si sarebbero potute posare come sulla sponda di una culla: il manubrio di una bicicletta, le lesene orizzontali che incorniciavano i pilastri dei portici. Ma non le videro. Cercarono anche tra i sentieri della piccola aiuola non lontano dalla caffetteria. Lì erano arbusti riarsi e cespugli secchi di rosmarino.
La donna si girò bruscamente. «Non c’è nessuno in questa piazza. È tutto fermo e senza vita, tranne quest’aria calda». Così dicendo, indusse l’uomo a distogliere per un attimo l’attenzione dall’aiuola e vide chiaramente i suoi occhi dietro le lenti. Li trovò pieni di gioia.
Lui accennò un sorriso e i suoi occhi divennero ancor più ridenti: «Non è così. Guarda dietro di te. Piano», le disse, quasi mormorando. «Vedi? Lì, sulla recinzione!», aggiunse con lo stesso tono di voce, mentre lei si voltava con indugio nel timore di non ritrovare, dopo, quello sguardo che tanto le era mancato. Un uccellino saltellava sulla ringhiera dell’aiuola aprendo e chiudendo le ali. Di tanto in tanto volava poco più sopra e poi tornava a posarsi sul bordo. Era dunque il suo battito di ali a cullare il caldo e a farne giungere il respiro lì accanto?
La donna continuò a seguire quella danza e poi si girò di nuovo tenendo gli occhi bassi per paura di incrociare quelli di lui, che avrebbe potuto ritrovare diversi. Facendoli passare sopra il bicchiere di granita e la tazza accanto ad esso, decise di rivolgerli alla Chiesa e farli fermare per un poco sugli scalini allora deserti, vicino ad una delle statue che reggevano le colonne. «Quando ci si siede ai piedi dei monumenti, si ha l’illusione di sottrarsi allo scorrere del tempo e per un attimo si diventa come quelle pietre che sembrano quasi eterne. Non si prova né gioia né dolore: è un istante di perfetto equilibrio». Dopo aver pronunciato queste parole, le parve di avere due baratri aperti sotto le sopracciglia. Si infilò un paio di occhiali da sole, rimanendo in silenzio, ferma come una statua, e poi sentì tutti i ricordi volare via da sotto le lenti scure. Essi si fecero farfalle colorate, insetti simili a piccoli fiocchi di cotone, libellule di fiume. E ogni cosa divenne respiro.
Così, svuotata, la donna avvertì il respiro dell’aria nella piazza che ancora faceva da base per la culla, e le sembrò fresco. Lo immaginò sfiorare le braccia dell’uomo che aveva di fronte e gli occhi abbandonati sulla gradinata della Chiesa. Li lasciò ai piedi della statua fino a quando non fu ora di tornare a casa, con l’immagine nitida di quello sguardo che vi si era rispecchiato e che lei, per un momento, aveva voluto sottrarre alle mani del tempo.