Manta Ray: una voce per i Rohingya
Una delle più gravi crisi umanitarie dei giorni nostri, quella che coinvolge il popolo Rohingya, perseguitato duramente in Myanmar per l’appartenenza alla fede musulmana, trova nuova voce nel film visionario di un cineasta thailandese
Quella offerta dalla Mostra del Cinema di Venezia è una delle vetrine più importanti per i cineasti da ogni parte del mondo. E avviene sempre qualcosa di significativo quando la lungimiranza della direzione artistica porta al Lido storie provenienti da realtà lontane, spesso ignorate dalla luce dei riflettori. Laddove arriva la cronaca può dunque arrivare anche il cinema, persino in quelle sue forme esteticamente più elaborate che tanto appartengono al gusto di un festival d’arte come quello veneziano. Non sorprende che un caso emblematico provenga proprio dalla sezione collaterale più importante del festival, Orizzonti, la cui giuria tradizionalmente premia i film che si sono distinti per resa estetica o avanguardia espressiva. Nel 2018 a vincere il premio come miglior film è Manta Ray, prezioso esempio di un cinema elaborato ma soprattutto sensibile, attento alla realtà così come agli stimoli raccolti e fabbricati da una figura autoriale visionaria, come possiamo definire il regista thailandese Phuttiphong Aroonpheng.
Spiegando il concepimento del suo film, Aroonpheng parte proprio da un’immagine, quella del fiume Moei, il cui corso segna il confine tra Thailandia e Myanmar. Territorio che è diventato negli ultimi anni teatro sanguinario di una delle più gravi crisi umanitarie del nostro tempo. In Myanmar, nella provincia costiera del Rakhine, si è creato un vero e proprio regime di apartheid, in cui una minoranza di fede musulmana, il popolo Rohingya, ha subito una dura discriminazione da parte della vasta comunità buddhista, incluso il governo. Un’indagine del 2017 ad opera dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha registrato serie violazioni dei regolamenti internazionali, riportando testimonianze di stupri e omicidi su larga scala e di villaggi bruciati dalle forze militari birmane, pienamente coinvolte negli atti di violenza. Lo stesso governo del Myanmar, rappresentato dal ministro degli Esteri Aung San Suu Kyi, politica insignita del premio Nobel per la Pace nel 1991, viene ad oggi accusato di negligenza nella gestione di questa grave crisi, che ha avuto l’effetto di produrre un intenso flusso migratorio oltre il confine. Molti Rohingya, cacciati dai loro villaggi e scappando dalle violenze, cercano rifugio nel vicino Bangladesh, arrivando in sovraffollati campi profughi non conformi alle norme che tutelano i diritti dell’uomo. Per fuggire da quella «prigione a cielo aperto», come è stato definito lo stato del Rakhine da Amnesty International, molti sono disposti a tentare la via del mare, spingendosi fino alle coste della Thailandia. Un tragitto difficoltoso, che spesso si conclude in tragedia, con corpi ingoiati dal mare.
Questa premessa permette di comprendere il peso che deve avere la vista del confine con il Myanmar per un autore thailandese. Questo «piccolo specchio d’acqua» che separa i due paesi costituisce evidentemente una visione intensa e profondamente problematica, che chiama a gran voce la necessità del racconto. Aroonpheng visita questo luogo nel 2009. Ne ascolta la sofferenza, diluita nella cronaca ma viva e pulsante nel territorio innanzi al suo sguardo. È qui e ora, nel brutale confronto con una realtà inaccettabile, che nasce la volontà di raccontare, di ascoltare il grido di un popolo inascoltato.
«Quello stesso anno, sulla costa thailandese, barche che trasportavano rifugiati furono respinte dalle autorità. Cinque barche di legno si rovesciarono. Trecento Rohingya scomparvero in mare. Avrei voluto per loro il destino di “Thongchai”, il personaggio principale della mia sceneggiatura; ferito e scaraventato sulla costa tailandese, ma vivo.» Phuttiphong Aroonpheng
Thongchai è in realtà un protagonista senza nome e senza parola. Il suo corpo esanime, ad un passo dalla morte, viene trovato abbandonato nel fango in una misteriosa foresta, animata da sussurri e bizzarre luci. Grazie all’intervento di un giovane pescatore thailandese, lo straniero rinsavisce da una grave ferita al petto, recuperando le forze presso l’abitazione del suo salvatore. In questo ambiente intimo e spartano nasce un qualcosa che immediatamente supera la semplice amicizia. L’impossibilità di comunicazione verbale tra i due lascia spazio ad un intenso scambio di sguardi: quando la cinepresa si sofferma sugli occhi di Thongchai (nome che il pescatore sceglie per il muto, che coincide con quello di una celebre star della musica) vi troviamo riflessi gratitudine e sofferenza. Il corpo ferito dello straniero diventa così il simbolo in carne e ossa dei Rohingya e del male inferto ad un intero popolo, mentre l’indifferenza sembra governare tutto ciò che lo circonda. Thongchai esiste per il suo salvatore e quando questi sembra essere scomparso in mare è lui, lo straniero, a prendere il suo posto, appropriandosi lentamente della vita del compagno: inizia a occuparsi del suo lavoro e a frequentare la sua donna, che arriva a tingergli i capelli per farlo assomigliare al pescatore.
Questa trasformazione avviene con spontaneità, ma cela un messaggio di violenza che non può passare inosservato in un film mai lontano dall’elemento del reale. Se in una prima parte del film è messa in scena la potenza scaturita dal salvataggio di un altro essere umano, dopo la scomparsa del pescatore emerge una rappresentazione dello straniero molto vicina alla più classica retorica xenofoba. Lo straniero è colui che sottrae qualcosa, una presenza che si intromette, che crea uno squarcio nella normalità. Manta Ray mette a nudo questo rimosso, esumando corpi dal fango della storia e dando finalmente loro un nome. Ma la denuncia di Aroonpheng vede questi ingredienti mescolati in una soluzione allucinatoria, in cui gli spiriti dei morti si manifestano attraverso suggestivi giochi sonori e di luce. In un cinema di matrice buddhista è comune trovare riferimenti al fenomeno della reincarnazione. Così un corpo umano disperso in mare può trasfigurarsi in aggraziato animale marino: la manta evocata nel titolo.
Manta Ray nasce così con una natura ibrida, frutto di una marcata sensibilità autoriale per l’elemento più materico dell’immagine e assieme di un’attenzione tutta rivolta al concreto dramma umanitario, tanto da ottenere il patrocinio di Amnesty International Italia. Il film non trova sostegno nella sua trama e nemmeno nelle scarne linee di dialogo, ma tutta la forza espressiva risiede nella sapiente commistione di suggestioni visive e sonore. Seguendo una tendenza stilistica del cinema thailandese contemporaneo, il regista lascia che il suo racconto del reale (introdotto da una dedica iniziale “ai Rohingya”) collida con il tessuto del soprannaturale, coinvolgendo così lo spettatore in un’esperienza audiovisiva pregna di elementi nati dall’immaginazione o dalla superstizione. Questo aspetto rende l’opera di Aroonpheng molto vicina al cinema di un autore già stimato per la sua visionarietà come il regista Apichatpong Weerasethakul. L’autore di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, racconto di una reincarnazione premiato con la Palma d’Oro nel 2010, è esponente di un cinema densamente connesso al mondo buddhista, in cui corpi e spiriti si sposano nell’illustrazione surreale di scenari quotidiani. Aroonpheng resta fedele a questo evidente modello di riferimento, tanto che nel suo film sembra comparire la bizzarra figura del Power Boy, soggetto di una fotografia di Weerasethakul presentata tra le installazioni della mostra “The Serenity of Madness”, dedicata alla cultura, alla spiritualità e alla quotidianità delle fasce marginalizzate della società thailandese. Indossando sul proprio corpo stringhe di luci colorate, il power boy è presentato dall’autore come simbolo di una contraddizione politica, che in questo caso riguarda le proteste attorno alla costruzione di una diga nel fiume Mekong, necessaria al fabbisogno energetico del paese ma ostacolata.
L’arte di Weerasethakul arriva a coinvolgere dunque la storia del territorio, la mitologia, la spiritualità e differenti codici visivi, ma l’elemento più importante resta l’attenzione verso l’attualità problematica di un paese in cui sussistono importanti crisi politiche e lotte sociali. Proprio come il film di Aroonpheng: Manta Ray non immerge lo spettatore nello scenario della crisi umanitaria dei Rohingya, perché il regista rinuncia a sfruttare il codice stilistico del documentario, ma sceglie con questo film di parlare direttamente alle corde emozionali, costruendo un’esperienza visiva della sofferenza dall’accento lirico e spirituale. Avere libertà creativa su un materiale così intensamente intriso di realtà significa per Aroonpheng, che professionalmente nasce come direttore della fotografia, adottare un linguaggio visivo fuori dagli schemi, accompagnato dalla colonna sonora atmosferica degli Snowdrops. Un repertorio di melodie oniriche, mescolate a voci sussurrate registrate dal regista. Pochi elementi sono importanti in questo film come il bisogno disperato di ascolto, che diventa una sorta di dichiarazione d’intenti per l’autore. Una delle strane attività che il pescatore e Tongchai svolgono assieme consiste non a caso nell’ascolto del terreno: poggiando l’orecchio sulla nuda terra i due sono in grado di sentire curiose vibrazioni, associate alla presenza di pietre preziose. Queste, in una delle scene più surreali del film ambientate nella foresta, emergono dalla superficie, ricoprendo il buio terreno di luci colorate. Siamo alla presenza di un’epifania di spiriti, forse la testimonianza della presenza di anime senza riposo. Così il regista evoca i «corpi dei rifugiati rohingya, la cui voce rimane inascoltata. Al contrario, questa voce non deve scomparire, né venire dimenticata. Io l’ho registrata, perché voglio che continui a esistere, nel mio film».
Manta Ray è un meraviglioso prodotto di chimica delle sensazioni, una visione cinematografica espressionista pensata per comunicare direttamente alla coscienza. Opere come quella di Aroonpheng contribuiscono così a sostenere un discorso attorno al cinema contemporaneo, proponendo una via di mezzo tra la ripresa del reale e la sua proiezione su piani altri, che chiamano in causa la sfera della spiritualità e del subconscio, dando forma ai miti e sostanza alle allucinazioni. Ma dietro il fascino di una visione infusa di sonorità soprannaturali e luci impazzite, si cela il dramma di una voce inascoltata. La voce di un popolo massacrato, che risuona nel mare e nella terra.
Michele Bellantuono
Veronese classe 1991, ha conseguito studi universitari umanistici ottenendo il titolo di dottore magistrale in Filologia moderna. La passione per la fotografia e in genere per le arti visive, unita a quella per la letteratura, lo porta a sviluppare un interesse per il cinema. Dal 2013 si interessa di critica cinematografica, iniziando a collaborare con riviste online. Dal 2017 è socio ordinario e critico del Circolo del Cinema di Verona, tra le più longeve associazioni culturali cinefile italiane. Ha collaborato con gli uffici stampa di festival cinematografici della regione Veneto (Mostra del Cinema di Venezia, Lago Film Fest, Ca’ Foscari Short Film Festival) e realizzato cortometraggi. Nel 2019 ha ottenuto un master in filmaking presso Università Ca’ Foscari.