Mario Benedetti, Il tempo della vita dopo ⥀ Estratto da 2020 L’Europa dei poeti
Per celebrare i suoi venti anni di attività la rivista Argo dà alle stampe il suo n.20: 2020 L’Europa dei poeti, in uscita ad Aprile in libreria.
Argo n. 20 attraversa il territorio della Poesia pensata nel suo stretto legame con il tòpos, l’origine, la culla di una civiltà, la lingua madre che si moltiplica in molte lingue che animano una regione della terra: è L’Europa dei poeti. Il volume pone l’attenzione su alcune delle voci più autorevoli della poesia contemporanea in Europa; sollecita domande, riflessioni, propone traduzioni e visioni in versi del nostro continente, da lingue e latitudini differenti.
Argonline.it pubblica in anteprima alcuni contributi contenuti nel volume; è possibile prenotare 2020 L’Europa dei poeti in libreria, oppure cliccando qui.

Mario Benedetti, Il tempo della vita dopo
La panchina è vuota. A guardar bene, da lontano, si scorge un libro, un poeta in un libro. Attorno solo le ultime foglie sui rami, «vecchie cose» da non dimenticare nell’inverno freddo, un giornale. Il «lungosenna» è quieto, di una bufera calma che grida nel vuoto. Il poeta si alza, abbandona il libro con un gesto lento, calcolato, una foglia rossastra si stacca e si poggia sulle altre, sul prato.
Mario Benedetti mi piace pensarlo così, nella forma di un lascito, in una lontananza che non urla, sussurra, piano. Se si tende l’orecchio, nella distanza s’avverte un sibilo, la gelida bora della Slavia italiana: il turbine sommesso di un’esistenza sospesa tra la favola della poesia e la storia di un io scisso, tra l’esperienza di un’impossibilità e la memoria di una solitudine, tra l’idillio friulano e la cronaca urbana di Milano.
La poesia è il luogo di questa tensione, il racconto dell’esperienza esistenziale e del suo limite. È la testimonianza di una fiducia che lentamente viene meno, di un ritrarsi dalla forma a favore della scheggia, del frammento; è il luogo in cui alla scissione si può dare voce, dove il passato si accumula e si ripresenta.
Il poeta vive nella parola e, scomposto, affida al suo doppio il muoversi nel mondo. Il sosia ascolta, guarda, vive, gioca a carte nel bar del paese, assiste la madre nei suoi ultimi giorni. Pensa al «protrarsi della vita» che sopravvive al poeta: Benedetti sa bene che scrivere significa morire, che esistere significa vivere il limite, la morte, come condizione inalienabile dell’esistenza. Sa che scrivere implica il lascito, la consegna di una memoria che si fa altra memoria, di un limite che si fa altro limite. È un tema già presente in Umana gloria (2004), al tempo della fiducia nella poesia come luogo del racconto esistenziale, il tempo degli occhi fissi sul dissolversi, del crescere dell’abisso nei Rientri di fine agosto in città; sono occhi onnipresenti, che si posano sulla materia di lontano alla ricerca di una traccia, oltre il passare, dell’emergenza di ciò che è stato nella realtà piccola delle cose. È uno sguardo che si muove dall’alto, sul dipinto del «cielo che resta fermo ogni sera», che cerca l’immagine del restare negli alberi, nella legna, nella terra, nel mondo che rimane, dopo.
È la ricerca della memoria di ciò che è stato nel mondo che ci sopravvive, nei tratti minuti della materialità, negli oggetti che si fanno immagini di un altro tempo; una ricerca attenta celata nella cronaca del quotidiano, sotto il manto avvolgente della poesia, dell’altro, che pensa e che scrive.
Ma il tempo non aspetta: l’inverno incalza, le foglie cadono ai primi freddi, la «vita dopo» è già lì, in una giornata di vento: la parola si fa più asciutta, frammentaria, resta nuda di fronte al limite. Veste il nero di Goya, l’amore per l’«insaisissable», per l’inafferrabilità della memoria e veleggia oltre la «furia del mare». In Pitture nere su carta (2008) l’evidenza della scissione si accompagna all’impossibilità della poesia stessa; ora lo sguardo dell’io necessita di una rifrazione, di una finestra, di un filtro attraverso cui poggiarsi sul mondo. Nella scissione del corpo, dell’identità, anche il limite perde consistenza: «nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino», non c’è fine e non c’è inizio, solo una stratificazione dell’io che si moltiplica, sospeso tra la materia e il pensiero, una coscienza che si scompone nelle immagini. La direzione della ricerca è mutata e, dal mondo, si rivolge all’io «che guarda negli occhi i suoi occhi», che conosce l’abisso, il nero del mondo impraticabile e, nella caduta, si fa memoria, reliquia per il tempo a venire. Si fa pietra e calce, polvere, scrigno d’argento, terracotta; diviene l’unica realtà del ricordo, della sedimentazione, del movimento di frammento in frammento, di nuove immagini che si depositano su tracce baluginanti. Diviene fiori di tiglio nell’orto del verso, della poesia come «domanda», lasciata su una panchina d’inverno, lontano.
La vita è distante, oltre una frattura invalicabile, là dove il sosia continua e il poeta conta le ore, gli attimi che il tempo gli ruba; si ferma sulla soglia e, sospeso, canta la tersa banalità del dissolversi.
Le cose intorno tacciono, la memoria passa e, su una pagina esile, già scrive di un nuovo inizio: è «il tempo della vita dopo».
Poesie
Che cos’è la solitudine (da Umana gloria, 2004)
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
*
Torna morta la carne che s’indora (da Pitture nere su carta, 2008)
Torna morta la carne che s’indora, la muta del sangue nero.
La zolla dei sassi, diradati dopo il rumore, è tutta la terra.
Hanno chiamato arance le anatre, fuori dai cappotti, sul lungosenna.
Tentano ancora, dopo il tramonto, nella bufera dei loro occhi.
Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino.
Promisero agli scolari il cielo che si vedeva.
Niente di questo è vicino. Va dura la mano
sulle tue spalle bianche, i piccoli denti, nel tuo sorriso.
Dagli uomini agli uomini va, imposto a credervi.
Questo anno Santa Lucia era mio padre, col suo fantasma.
*
Transizione, maggio 2010 (da Tersa morte, 2013)
Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare i pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.
*
Il sosia guarda, la vita ha deciso (da Tersa morte, 2013)
Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
È avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
È una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.
*
Dedica (da Questo inizio di noi, 2015)
Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Era lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.
Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? hai
studiato? Come passano gli anni,
vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, che non si scriva più
per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando sarò non presente a me…
Solo offuscati… e piano piano andarcene.
Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955. Ha iniziato a scrivere tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, al tempo della tensione tra neo-orfismo e riprese neoavanguardistiche. La sua scrittura, sempre fedele al racconto esistenziale, ha attraversato i temi dell’esperienza, della memoria e del limite. Per Lo Specchio ha pubblicato Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013), raccolte, insieme a Questo inizio di noi (2015, inedito in volume), in Tutte le poesie (2017, Garzanti).