MARIO BENEDETTI – la realtà della poesia, un’interpretazione del primo testo di “Questo inizio di noi” | di TOMMASO DI DIO
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1.
Per quanto il mondo umano accalchi strumenti e strategie di previsione,
gli eventi della vita sono per lo più inaspettati. Se vi poniamo
mente, ad ogni istante ci troviamo di fronte ad una massa indistinta
di occorrenze e di esiti fra loro intrecciati, una continua apertura di
possibilità che davanti a noi ci mostra come impossibile ogni scelta,
ogni decisione. Eppure persiste in noi qualcosa come un istinto
angelico, un’interruzione della coscienza ragionativa; o, a dir meglio,
persiste un occultarsi interno di ogni senso razionale il quale permette
che infine sì, noi agiamo, decidiamo, amiamo, odiamo, andiamo
in quella direzione piuttosto che in un’altra; il tutto, a discapito delle
conseguenze che ne potrebbero sorgere.
Capita così agli uomini, capita altrettanto ai poeti. Così capita che le
poesie scritte e inviate da un poeta italiano nel torrido di un’estate
milanese, poesie inviate nella fiducia e nel desiderio che fossero pubblicate
presso una rivista romana nei mesi successivi, siano diventate
le ultime poesie scritte da quel poeta; così capita che egli non possa
assistere al loro divenir pubbliche, cessata completamente la facoltà
di presiederne al senso e al valore.
Il poeta Mario Benedetti non poteva sapere che quella piccola sequenza
di cinque poesie, ora pubblicate nel numero 69 di «Nuovi
Argomenti» con un titolo che suona ironico e profetico insieme,
Questo inizio di noi, sarebbero state il suo testamento letterario; non
poteva prevedere l’enorme responsabilità che esse avrebbero avuto
nell’insieme della sua opera. Poesie certamente pensate in itinere;
versi precari forse, che cercavano – come appare ovvio – una direzione
da seguire verso un nuovo libro che ancora stentava a delinearsi,
data la recente pubblicazione di un’opera così densa e decisiva come
Tersa morte, nel 2014; versi di transizione, di ricerca, destinati chissà
ad essere del tutto aboliti o – come lasciavano presagire le abitudini
dell’autore – ampiamente rimaneggiati in un progetto futuro di libro.
Ma tutto questo non è stato. Essi ora se ne stanno lì, sbalorditi, tramortiti
dal compito che è stato imposto loro: essere, ci piaccia o meno,
le ultime poesie che hanno avuto la supervisione del loro autore.
Mario Benedetti, infatti, ha avuto un grave infarto la notte fra il 12
e il 13 settembre del 2014; le cui conseguenze, dopo aver lottato con
caparbietà e direi testardaggine fra la vita e la morte per alcune
settimane, sono state di ordine cognitivo tali, che l’uomo non potrà
più intervenire coscientemente sulla propria opera di poeta, sino ad
una data che il caso, la natura, o il destino sceglierà perché vi sia una
definitiva conclusione alla sua vita terrena. Chi scrive ha già pianto le
lacrime necessarie; lacrime dettate da un decennio di grande amicizia,
umana e letteraria insieme. Chi scrive è ancora alle prese con un
percorso di accettazione di questo lutto fantasmatico, in cui non è il
vivo ad essere venuto meno, ma la morte stessa ad essersi ritirata per
lasciar sorgere una nuova vita, indecidibile e fantastica, nelle fattezze
fisiche apparentemente del tutto immutate del caro amico.
Proprio a partire da queste considerazioni, da questo concreto e
doloroso percorso personale, mi è sembrato necessario approfondire
la riflessione sul valore di queste cinque poesie e in particolare sulla
prima di queste, così come si delinea nel cammino inscritto dall’opera
pubblica del poeta Mario Benedetti. Credo infatti che esse, nella loro
del tutto inaspettata significanza, delineino con forza il rapporto che
la poesia possa intrattenere con la realtà; ovvero si prestino ad essere
considerate paradigmatiche di quale possa essere la realtà della poesia,
quale sia la peculiare concretezza del fatto letterario, quale inizio
inauguri, a dispetto di ogni fine che esse sembrino indicare. Forse
Mario era prossimo ad un segreto, ad una svolta della sua scrittura
che non ha avuto il tempo di percorrere in tutte le sue implicazioni.
Forse il poeta, ogni volta che scrive, è prossimo a questo segreto.
Giuseppe Ungaretti – un poeta che Benedetti non amava particolarmente
– scrisse pochi anni prima di morire: «nessun poeta è mai riuscito a
fare quello che ambiva di fare»; forse questa interruzione delle ambizioni,
questa costitutiva impossibilità di una singola vita a terminare
il proprio compito è ciò a cui la scrittura di Mario Benedetti si stava
avvicinando a mostrare. Fino a lasciarci così, soli, nella tragedia di
doverlo comprendere.
2.
Questo inizio di noi si presenta come un percorso di cinque testi il
cui nucleo tematico è il rapporto fra la scrittura e ciò che ne rimane
escluso. Le poesie sembrano mostrarsi come un’appendice di un tema
che già era fortemente presente in Tersa morte, ovvero il tema della
sfiducia verso la parola letteraria, la constatazione che essa, di fronte
alla brutalità del morire, perde ogni efficacia e presa nei confronti del
reale.
«Le parole hanno fatto il loro corso» è infatti il leitmotiv che, implicito
e variato, ruota, aleggia per tutti i versi dell’ultimo libro mondadoriano
di Benedetti; sempre nella stessa poesia egli scrive: «Il mio nome
ha sbagliato a credere nella continuità / commossa, i suoi luoghi intimi
antichi, la mia storia». Con una significativa oscillazione fra la prima
persona singolare e la terza del pronome possessivo, l’autore sostiene
innanzitutto che non si può identificare ciò che ha vissuto con
ciò è stato ascritto a suo nome; c’è uno iato fra la vita vivente e la vita
scritta, fra l’uomo e il poeta. Secondariamente, ritorna in chiave critica
su quanto ha scritto nei libri precedenti e segnatamente sullo stile di
Umana gloria, a cui si riferisce con il sintagma «continuità commossa».
Era convinzione di Benedetti che la postura e lo stile di quel libro
fossero assolutamente da rifiutarsi, frutto di un’illusionistica fiducia
cieca nella capacità della scrittura di sedurre il lettore sulla possibilità
di continuare dopo la morte, di prolungare, attraverso la scrittura,
la vita vivente, grazie all’emozione che le poesie provocano in chi
legge. Versi come «è stato un grande sogno vivere / e vero sempre»
, oppure «quando dici “erba” piango» sono rifiutati precisamente,
come puerili e dannosi, in quanto sottendono un’ideologia letteraria
che promuove una continuità consolatrice allorquando, al contrario,
l’esperienza che viviamo sempre è quella della discontinuità, della
irreparabilità della vita. In questo discrimine si gioca a mio vedere la
questione dell’originalità e della radicalità del percorso autoriale di
Benedetti, proprio rispetto ai tanti autori della sua generazione: la sua
poesia si dimostrerà sempre fedele ad una parola che sia un tentativo
di verità, provando sempre a stare nella frattura dolorosa, senza mai
farsi consolatrice di anime afflitte.
Il frutto di questo rifiuto è stato, come si sa, prolifico; i due libri
seguenti di Benedetti possono essere letti proprio come episodi di
questa presa di coscienza: il primo, Pitture nere su carta, è il tentativo
di distaccarsi da ogni emotività personale e cercare il più possibile
nell’oggettività della storia e dei suoi detriti quel «rinnegato canto» a
cui il poeta non crede più, ma di cui è necessario mantenere sempre
presente la diplopia fra scrittura e vita ; Tersa morte è invece il tentativo
di guardare con fermezza e lucidità alla morte della vita, limitando
al massimo l’artificio espressionistico della retorica (ancora subdolamente
in azione in Pitture nere), cercando nella secchezza del dettato,
nella sua orizzontalità scabra, una possibile scrittura dell’esperienza
discontinua della vita. Come si situano in questo percorso le cinque
poesie di Questo inizio di noi?
3.
Fin dal primo componimento siamo di fronte non solo alla massima
espressione del problema fra scrittura e vita, fra segno e realtà che
la poesia di Mario Benedetti abbia saputo mostrare, ma anche al suo
primo e chiaro tentativo di superamento. «Se le vite si ritraggono
ognuna / nel suo continuare o nel suo rimembrarsi / avremo sempre
le parole in posa»: sia la via del ricordo elegiaco, sia l’opzione di una
parola poetica non consapevole del dramma fra vita e segno sono qui
rifiutate, in quanto conducono sempre alle «parole in posa», ad una
reiterazione meccanica della retorica linguistica, ovvero della continuità
illusoria di cui dicevamo sopra. Le parole sono nella retorica
meri «ornamenti dell’oscuro», nel senso che Carlo Michelstaedter
attribuiva a questa espressione: apparenza assoluta, il cui contenuto
non è altro che promulgare il deterministico istinto alla vita, tutt’altro
da svelarlo.
Dopo questa dichiarazione programmatica, nella seconda terzina siamo
di fronte ad un apertura verso un interlocutore. Già in Tersa morte
il poeta scriveva «le parole non sono per chi non c’è più»; ma tutto il
libro appare rivolto direttamente ai morti, intrattenendo con loro un
impossibile quanto privato colloquio. Qui invece la poesia è destinata
chiaramente a chi legge, anzi a chi sta leggendo: «Vedi, il libro ti è davanti,
le frasi / mozze bene assottigliate sussumono / anni di giornate
con le loro ore». Quasi in chiave didattica, Benedetti cerca di far sì che
il lettore si renda conto delle operazioni concrete che si attuano nella
lettura; cerca di rendere consapevole chi legge dell’operazioni della
macchina alfabetica, la quale è in grado di sussumere – impropriamente,
ma è proprio questo il suo lavoro – «anni di giornate con le
loro ore», nei versi che sono «ben assottigliati», in quanto frutto delle
operazione del poeta. La peculiarità algoritmica della scrittura alfabetica
è qui messa in mostra e non lasciata implicita, nascosta nella
pieghe della scrittura: il lettore è chiamato fin da subito a percepire
il dislivello contenutistico che le parole portano con sé, a profanare
l’illusione retorica, a non vivere ingenuamente ciò che lì sta accadendo,
a non dimenticare che tante ore, tanti anni, tanti attimi della realtà
sono lasciati fuori dalla scrittura, per sempre perduti e mai recuperabili.
Questo invito all’attenzione trova un parallelo ancora una volta in
Tersa morte, al termine della sezione che reca il titolo Idiot Boy. In
questa parte di testo, prende vita un alter ego dello scrittore, un
ennesimo sosia di questo libro, il cui nome è Marco e di cui si raccontano
ellitticamente alcuni momenti della vita. La sezione termina
con una poesia insolita, dal titolo Fiaba, in cui la scrittura, in misura
maggiore delle precedenti, si perde in un’evocazione di rara bellezza
e dolcezza, del tutto fuori chiave nel tono scabro e severo del libro.
Ma la poesia che segue, nella nuova sezione, dal titolo Nella grotta del
bosco Làndri, cambia bruscamente tono, riportando il lettore al nocciolo
tematico, con un effetto di shock che è uno dei punti più alti di
strutturazione del libro: «Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
/ la pura inconcepibile assenza, non distrarti». Queste parole suonano
come se il poeta le dicesse innanzitutto a se stesso e, retrospettivamente,
incolpasse la scrittura che ha praticato nella sezione precedente.
Nel passo invece della poesia proemiale di Questo inizio di noi,
l’appello all’attenzione è direttamente rivolto al lettore e la distrazione
è fin dall’inizio bandita: leggere poesie è sapere esattamente quanta
realtà rimane esclusa dai versi, percepirne la mancanza immedicabile
e al contempo essere coscienti del lavoro che il poeta ha compiuto
sulla propria esperienza perché quei versi siano leggibili.
Il verso che segue è nuovamente all’imperativo e giunge con violenza:
«Getta quel libro, è odore della carta». Il libro appena preso nelle
mani, quel libro di cui stiamo imparando il funzionamento, attraverso
cui stiamo prendendo coscienza dei processi della macchina alfabetica,
quel libro deve essere gettato via, perché non è altro che «odore
della carta». Questo verso è esattamente a metà del componimento e
spacca in due momenti distinti la poesia. Perché ci viene ingiunto di
gettare il libro? La poesia nega se stessa, eppure si apre, si smaschera,
ma fiorisce e chiede che il lettore non stia sul libro, dentro le sue
trappole, dentro la realtà rettorica, ma fuoriesca e vada a caccia del
mondo che sta tutto fuori e sempre al di là delle pagine di un libro:
eppure tutto ciò è scritto. Questo verso all’apparenza così nichilistico
e contraddittorio sembra essere al contrario il tentativo di tracciare
un nuovo limite nella poetica di Benedetti. Oltre il depotenziamento
della lingua poetica, oltre l’assunto per cui «futilmente presente è la
parola», sembra aprirsi un rinnovato spazio energico, una fessura per
un’azione che per ora è semplicemente liberatoria; un gettare, uno
stracciare, che è già oltre la atona ammissione di sconfitta e ben oltre
la paradossale afasia su cui Pitture nere e Tersa morte indugiavano
così impietosamente. Significativo poi che tale imperativo si rivolga
direttamente al lettore: al lettore si chiede un percorso preciso, che
dal libro, vada oltre il libro, ma non prescinda dal libro. Quello che
Benedetti sta affermando non è l’inutilità della letteratura tout court,
ma la futilità di un’esperienza letteraria che si arresti alla sola fruizione
retorica del testo o che, al contrario, si perda in mondi immaginari
al di là della parola. Invece è ribadita la necessità di un’espressione
che sempre sia rivolta al concreto interlocutore e che lo ingaggi in una
dialettica fra il testo, il suo funzionamento e la realtà che non entra
nel testo, ma di cui si invita – lo vedremo fra poco – a comprenderne
la dimensioni.
Gettare il libro, abbandonare la cultura; lo abbiamo già letto, la cultura
occidentale ha già consumato questo indicibile tedio e già gli siamo
sfuggiti cento e cento volte, per andare via, fuggire: sì, ma dove? Per
saggiare la distanza di questa impostazione da una poetica decadente,
da cui pur innegabilmente proviene, si faccia un confronto con il
celeberrimo attacco di Brise marine di Stéphane Mallarmé: «La chair
est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres. / Fuir! là-bas fuir! Je sens que
des oiseaux sont ivres / D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!».
Mallarmé propone la fuga verso l’ebrezza onirica degli uccelli, poiché
è rimasto tradito dalla noia dei libri e dei piaceri carnali. Nella poesia
di Benedetti invece al lettore è chiesto di gettare il libro non perché
ci sia da qualche parte una vita che sarebbe ebbra, superiore e che
sempre «lève l’ancre pour une exotique nature». L’imperativo «Getta
quel libro» accoglie il lettore, lo sprona, lo coinvolge: dice qualcosa
che riguarda tanto il lettore quanto lo scrittore. È tutt’altro dall’ingiunzione
presente nella terza edizione de I fiori del male di Baudelaire,
la quale invece mira a escludere dal libro il lettore che non ha
appreso la retorica «chez Satan»: «Lecteur paisible et bucolique, /
Sobre et näif homme de bien, / Jette ce livre saturnien, / Orgiaque et
mélancolique». Come del resto è diverso ancora da quanto André
Gide dice a Nathanaël, fittizio interlocutore, vivo solo in quanto maschera
di un processo educativo verso i «nutrimenti terrestri», infine
scacciato quando l’estasi creativa tutta solitaria ha ormai terminato il
proprio arco: «Nathanaël, à présent, jette mon livre. Émancipe-t’en.
Quitte-moi. Quitte-moi; maintenant tu m’importunes; tu me retiens;
l’amour que je me suis surfait pour toi m’occupe trop. Je suis las de
feindre d’éduquer quelqu’un».
L’imperativo nella poesia di Benedetti ha una funzione di vettore
energico: ci dice sì di leggere, ma non ignorando ciò che è lo scarto
residuale della lettura; ci invita a percepire tutta la potenziale riduzione
che la poesia compie a partire dall’esperienza reale e di rimanere
pronti sempre a tornare nella vita che non trova segno; ma ci dice
anche che questo percorso è da fare insieme, insieme ogni volta che
prendiamo in mano un libro, chiunque noi siamo. Questo è forse il
più grande realismo che la parola poetica possa permettersi, ovvero
di essere medium di un ritorno non ingenuo e lucido al mondo,
veicolo concretissimo che conduca alla percezione del taglio che ogni
azione, perché possa mettersi all’opera , compie sul vasto e indifferenziato
regno del reale, al fine di tornarvi con una maggiore consapevolezza
di ciò che le nostre pratiche concretamente fanno. Proprio
perciò, i versi successivi all’ingiunzione di gettare il libro sono dentro
il libro: non propongono una fuga, non escludono nessuno, né sono
ironici; ci dicono che il mondo, una volta letto, è conosciuto attraverso
la lettura, piegato e ripiegato nelle pieghe delle pagine.
4.
La seconda parte della poesia (dal v. 8 in poi) è sicuramente più enigmatica
e complessa della prima. È struggente, per chi scrive, dover
proporre un’interpretazione che non può, come è accaduto spesso,
essere verificata, discussa, contraddetta da chi figura esserne l’autore.
Quale può esserne l’interpretazione? Qual è la realtà del testo poetico?
Quale realtà descrive? Come stare dentro questa imposta assenza
di dialogo che al contempo impone che un dialogo vi sia? Il testo
poetico è questa interrogazione ininterrotta, questo abisso che sprofonda
nella domanda la cui risposta giace un metro più là del buio
dove, pallida, sempre più pallida, traluce Euridice. Il testo poetico
impone un dialogo, un dialogo nel vuoto assoluto, tanto teso da farsi
superficie specchiata del lettore stesso: ogni poesia esige che il lettore
(e quindi chi scrive qui, per primo) cerchi una verifica, frughi nelle
sue conoscenze come nella sua esperienza culturale e umana, infine
individui cosa e come nella sua realtà viva si trovi una corrispondenza
fra lo scritto e il vissuto, fra i segni d’inchiostro gettati sulla pagina
e il respiro che lo anima leggendo. Il testo rimanda inesorabilmente
ad una voce che fu viva, che visse, e che ora – «incerta, mite e senza
impazienza» – tace, mentre affonda nella «prodigiosa miniera delle
anime» per farsi «radice» di infinite interpretazioni e infine specchio
di mille autobiografie. Mario Benedetti, nella sua persona che non
risponde, che ora non può rispondere, incarna ormai l’enigma vivente
della scrittura poetica, l’eccedenza del segno da ogni segno, la buia
cavità che si intride di tutte le domande, le parole, le ansie, le interrogazioni
che non troveranno risposta e che pur traluce dell’umida
acqua che dentro vi scorre segreta, serena; anche questa è la realtà del
poema: questo ritrarsi dalla vita, pur restando dentro una vita che
ormai si piega e si ripiega, totalmente affidata alle altre vite.
I versi successivi propongono infatti, attraverso un ellittico salto
temporale, un passaggio narrativo, una riflessione sugli effetti della
macchina alfabetica e contemporaneamente un tragico affondo
biografico che ognuno di noi è invitato a fare proprio. Dopo l’ingiunzione
perentoria, dopo il comandamento, siamo proiettati dentro
la vicenda di un bambino che legge e di una madre; egli, dentro la
lettura, inizia a ripiegare e ad aprire il proprio mondo come fosse un
libro, inizia a cercare nel mondo il libro e a vedere il mondo attraverso
le figure d’inchiostro. La letteratura ci permette di andare indietro
nel tempo e in avanti, di rievocare aree espulse della nostra soggettività
e di ritornare a vederle, continuare ad abitarle emotivamente e
di porgerle all’azione altrui. Davanti a quel bambino, ci viene detto,
c’è «la madre giovane»: ecco l’effetto della parola, la sua efficienza
suprema, il suo lavoro. La parola, nel momento in cui si fa algoritmo
del mondo, riproduce la presenza di ciò che non è, riporta in vita e
fa agire un’assenza. Ma subito dopo paradossalmente ci viene detto
che «il bambino la vedeva una morta / ma anche non era una morta».
Com’è possibile? Cosa significa questa strana situazione antifrastica?
Essa è viva in quanto rievocata qui dalla macchina alfabetica; è
viva non solo perché la lingua può ingannare e sedurci e può quindi
riportarci nelle condizioni che non sono più: è viva perché siamo noi
che la riportiamo in vita. Noi lettori – anzi io adesso mentre la leggo
e mentre sto scrivendo queste righe – in quanto viventi, consentiamo
con la nostra energia alla riattivazione di questa vita che non è più, la
trasferiamo altrove, ci offriamo come veicolo di questo trasferimento.
Eppure, proprio a causa del prodigio della lingua, di questo «grande
dominatore» (Gorgia), la madre non può essere detta che morta e non
morta insieme: presente in noi e al contempo assente, affidata alla
nostra vitalità perché ritorni e contemporaneamente abbandonata per
sempre e morta nella sua vicenda storica.
La grandezza di questa poesia di Benedetti è che riesce a stare pienamente
nel dramma, nella divisione e nello spacco che la parola
comporta. Non solo enuncia il problema, ma vi consente: si immerge
nel ricordo e vi consuma un frammento rischioso di biografia. Anche
questa è la realtà della poesia: un testo dov’è in gioco lucidità e
consentimento, partecipazione e distanza, immersione nella vita che
sentiamo più vera e al contempo esercizio consapevole dell’artificio.
La scomparsa della madre di Mario Benedetti è al centro dell’opera
Tersa morte; dirla qui ancora viva, sentirla viva, acconsentire a questa
suggestione e poi raggelarsi nella consapevolezza che non lo è
più e di tutto questo farne un canto: questa esperienza è ciò che noi
siamo indotti ad incarnare nuovamente, a nostro rischio e pericolo.
Se non leggiamo così questo testo, se non prestiamo il nostro vivere
a questa voce che risuona in noi, non stiamo leggendo una poesia:
stiamo facendo altro, stiamo facendo del testo un uso diverso, legittimo
certo, ma irresponsabile nei confronti dell’impulso originario da
cui proviene. Forse è questo quanto possiamo cogliere dalle parole
di Paul Valery: «C’est l’exécution du poème qui est le poème […] Les
oeuvres de l’esprit, poèmes ou autres, ne se rapportent qu’à ce qui fait
naître ce qui les fit naître elles-mêmes, et absolument à rien d’autre».
La realtà della poesia non è quella della cronaca, non è quella della
prosa: essa non ci dice di guardare la realtà nell’illusione che essa sia
lì, oggettiva, fuori di noi, né ci dice che essa è tiepidamente relativa ai
tanti punti di vista, debolmente assegnata all’ipotesi di una pluralità
a venire di frammenti, come se questi frammenti non ci riguardassero;
neanche ci dice di immergerci nella finzione e di consentirvi in
uno spazio di pura fiction perdurante, dove è sospesa e smemorata
ogni nostra presenza corporea. Essa ci dice che la realtà è un plesso
simbolico in cui la nostra vita, la nostra gioia e il nostro dolore, sono
in gioco tutt’altro che ingenuamente e ogni volta in cui la mettiamo
all’opera; ci dice che se non prestiamo il nostro veicolo corporeo nella
coscienza di questa esecuzione, stiamo semplicemente aggirando
il problema e tradendo l’istanza fondativa del testo poetico, la sua
crudeltà che impone di essere partecipi, del dramma e nel dramma di
ogni segno.
5.
Il mondo, anche se ridotto a «quell’angolo di muro», è aperto e ripiegato
dalla scrittura, pervaso dall’algoritmo che dobbiamo reincarnare.
Chi scrive è nell’attesa, abbacinato e stordito per quanto «da sogno a
sogno / le figure quasi si raccolgano»; lo scrittore sa che parla rievocando
ciò che non è venuto da lui, ciò di cui lui è soltanto un filtro, un
veicolo. Eppure non è soltanto preso dalla nostalgia, dalla malinconia
a cui questa condizione sempre postuma lo ascrive. Sa bene che la
condizione è quella di «cadere fuori pagina, mentre un’altra penna /
guarda». Si cade fuori dalla pagina, ogni cosa che si scrive omette e
abolisce ciò che stiamo vivendo e infine ci esclude; eppure il poeta si
scopre nella prospettiva che un’altra voce, un’altra penna sia pronta
a guardare, a continuare quanto qui si è inaugurato. La realtà che la
poesia descrive è sempre a venire, promessa e avvento insieme. Gli
ultimi versi dell’ultimo componimento di Questo inizio di noi oscillano
fra la malinconia del trapasso e il flebile presagio di una presenza:
«Una sola voce lontana…, / quando sarò non presente a me… / Solo
offuscati, e piano piano andarcene».
Nell’interpretazione di questa «sola voce lontana» che questi struggenti
versi ci invitano ad ascoltare sta forse il segreto di queste ultime
poesie di Benedetti. È possibile un’interpretazione luttuosa, che
indichi in quel sintagma la presenza di un lento morire, un’eco a ritroso
che piano piano si spegne, come l’immagine di Euridice che già
evocammo. Questa lettura troverebbe il sostegno di una concordanza
con quanto è scritto nell’ultima poesia di Tersa morte: «Ma non c’è la
mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».
Oppure, forse, un’altra lettura è possibile, che non escluda la prima,
ma la comprenda in un luce più larga; una lettura che dia ragione del
titolo di questa sequenza di cinque testi e che mostri un avanzamento
della poetica di Benedetti in una direzione implicitamente richiamata
dalle poesie precedenti, ma certo sì, ancora embrionale, incerta e forse
destinata al rifiuto. Di chi è questa voce? È una voce dal futuro: è un
ricordo al futuro? Chi è quel soggetto capace di porsi nella dimensione
del suo ascolto? È come se Benedetti consegnasse ogni sua cosa
alla possibilità di questa eco, come un suono che va, nella lontananza,
e si affida a null’altro che a Questo inizio di noi. Come se ogni scrittura,
e infine ogni vita, non possa che affidarsi ad un inizio che le è estraneo,
fuori fuoco, offuscato, privo di individualità; ma a cui non può
che cedere, andandosene piano piano, ogni cosa che ha avuto, nell’attimo
in cui ne percepisce il bisbiglio. La realtà della poesia forse non
è altro da questa promessa e da questa etica dell’ascolto che ambisce
ad un «noi», una comunità inconfessabile fra vivi e morti, fra presenti,
passati, futuri; tale che accada non già in una presunta e superba
futura oggettività, ma dentro ognuno, quando è precisamente preso
nel proprio tramonto, nella percezione del proprio cedere e recedere
da se stesso, verso il trasferimento nell’altro di tutto ciò che ha e che è:
«Cose fuori pagina, che si vivono e basta».
da Questo inizio di noi
Se le vite si ritraggono ognuna
nel suo continuare o nel rimembrarsi
avremo sempre le parole in posa.
Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
mozze bene assottigliate sussumono
anni di giornate con le loro ore.
Getta quel libro, è odore della carta:
e il bimbo apriva e ripiegava, apriva
e ripiegava l’odore d’inchiostro
e delle figure: la madre giovane
ma il bambino la vedeva una morta
ma anche non era una morta, davanti
quell’angolo di muro che si apriva
e ripiegava, apriva e ripiegava.
Dedica
Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Eri lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.
Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? hai
studiato? Come passano gli anni,
vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, non si scriva più
per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando sarò non presente a me…
Solo offuscati… e piano piano andarcene.
Mario Benedetti è nato a Udine nel 1955. Ha trascorso i suoi
primi venti anni a Nimis (UD). Si è poi trasferito a Padova, dove
si è laureato in Lettere con una tesi sull’opera di Carlo Michelstaedter.
Dal 1994 vive a Milano. Le opere più recenti sono: Umana
gloria (Mondadori, Milano 2004), Pitture nere su carta (Mondadori,
2008), Materiali di un’identità (Transeuropa, Massa 2010),Tersa morte
(Mondadori, 2013). È presente in varie antologie tra cui Poeti taliani
del Secondo Novecento (Mondadori, 2004).
Foto di Francesco Terzago