Del mercato … o vero De la chiavica di Lorenzo Marco Scremin ⥀ Passaggi
La rubrica Passaggi dedica la sua pubblicazione di oggi a uno scritto di Lorenzo Marco Scremin. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Illustrazione di Luca Cingolani, Canaliculation, 2023.
I
‘Ntra i nuguli di squarzi effati, è vero, la cuspide m’apparve, e vacillai: eburnea, sita al meridione di tra le istoffe cariate de’ tendaggj, nel mezzo di quel gramo carosello di dannati (e pur nigrata, oymei, ne ‘l giuoco chiaroscuro de’ contrarii).
‘N cieca giostra tutto a me d’intorno anc’hor a cerchio mena vertigine d’occhi. E vengo meno, ahilasso. Ma a che?
A canoscer carnalmente che quanto nuoce a l’homo è la girandola pazzesca de’ ricordi. – ‘E’ son capricci de l’anema’ – dissemi.
– ‘E’ son capricci de l’anema quando ch’è attossecata’. –
Odevi si ringhiare lli scugnizzi a far mercato, vecchiastre ‘n il trattar lor mercanzìa; a ‘mosinar bambine vedevi, di miseri stracci vestute, tutte ‘rrabiate co’ la vita; vedevi preti a bargagnare, birri equivoci et puttane, roffiani e cartomanti; vedevi sgherri e rattori, mimi ystrioni troffatori macellari et saltimbanchi; lusinghier crudeli e bugiadri: figure da trivio.
‘nsomma, poveri diaboli. E tuto a te di ‘ntorno verminava un solo acre odore. Vinagro, l’omicidial sapor di Scrofa carne.
– ‘Idola fori, Michelaccio. Tutto, ‘l vedi, hae un prezzo: roffia e lordura di fiati, libbre di tysiche carni, legumi et brodaglie, ismorti pesciarelli orribigliosi, almanacchi e stampe e libracci sgangherati, petre belle e petre false, feri vecchi et auricalchi, bugie di bronzo e bugie di rame, cornici sfondate… Vedi? A decantar lor merce si fan retori i gaglioffi.
Fra canestri di fruita verminosa sodomiti ‘n perizoma trovarrai, fanciulle d’oltramare, belle e schiave; nani e megere, fiorami d’amor decrepiti e ghirlande… ma financo uno scranno in paradiso trovarrai, per due o tre dracme dannate’. –
Sonava, forsi, a strappi ne’ rari silenzi, ghirigori luculenta ‘na ribeca; e pure solo sordo s’udiva, ma enorme, ‘l sordo tinnire sul piatto che fa una moneta.
Solo allor m’avvidi che di tanta carne a’ ganci, ‘n fondo ciò che resta, è vero, son lacerti e simulacri; che tutto a me d’intorno era, solamente, uno matto carnasciale. – ‘…Animali da squarto son l’omini. – disse a me lo Duca mio, che avea ne la boce ‘no scherzo dolciastro. – A spalancar le chiaviche, lor bocche trovarrai che sono ‘me pozzi negri di aneme: nera tabes, Michelaccio. Di voglie svogliate…’ –
Ne l’agosto torrido del nostro cupo mezzogiorno, a tracciar ne l’aria spire opache vedevi le mani cariate d’un ributto – morsicato da la Fame, nudo quasi ‘nsino a lo schelitro – negro sott’un sole negro, derisorio, linguacciuto. A lui da canto vedevi due belle fantesche far teschi di fiori ne la cupola d’ombra dei tendoni, bagnata e frusciante; hanno raccolti i capegli loro in lunghe trecce a la fiamminga, ma scure d’un biondo fiammesco, tramiste a polvere cieca; filano e tacciono. Filano un ordito tremefatto dal vento – un vento che striscia quale tenia infr’a strittule e vichi scrostati dal salmastro – e i loro occhi ardenti di gitane sono fuochi di bivacco nel buio isporco di quel mare. Vedi le dita loro correre veloci dal fuso in su la spola e così, a tratti, svolazzante, un pudico riso vola di bocca in bocca come volan sempliciotte le farfalle. Ridono, belle assai.
E pur non son che vermicelli e cartilagine di ali.
Come vedi, s’attorcono le serpi ne le ceste marce de l’ydea e strisciano le febri dentr’ai teschi letterari: tutto non è che una morta tregenda d’imagini. A’ lor piedi hai mille stagnate ricolme d’unguenti e profumi muschiati, mille anfore di cupe acque stagnanti, mosaici di putrida luce e rigagnoli di schiume.
Strillano d’intorno i cerretani, guatano in cagnesco, e intessono lunarj di sciagure. Crescea l’edera, ne’ suoi nodi d’espine, a suffocare le colonne laterizie ne l’ombra ‘rabesca d’un porticato: spuntavan ciuffi de gramigna ‘nfra le crepe, e di refe del diavolo. Ivi, tenea ‘l suo banco un robivecchi, ravvolto ‘n un pesante caffettano. E sonnecchiava, strutto ne l’accidia.
Hae ‘l viso solcato da un lungo catenaccio e veste rozzamente quel suo garzone istrano: la schiena arcuata poggiata ad un pilastro, manda torno torno certe occhiatacce d’ebreo coll’occhio suo grifagno. Mentre che arrota un coltellaccio all’assassina e cova, ben dentro a la guaina de’ denti, un certo qual sorriso da barabba.
Un odorettucciaccio greve assai saliva dal sucido carniere di cuoio, dal cui orlo sfilacciato biancore fuorescì di cosa guasta. E fue tripudio d’uno sciame di mosconi… Sicché dunque la gelida omelia monocorde appresi da una bocca sdentata: – ‘Squalente ‘na fessa disqualarcia l’ossa untuose de la razza, Michelaccio, – disse a me lo duca mio – e crepita ancora ad oggi la morte. Vecchieschi rondò d’un lercio figliare…
‘Scolta me: di tutte coteste paturnie, fiatate a pena nell’anguinaia fonte e così risibilmente umane, addenta la feccia ridendo, Michelaccio, a trarne squisiti ghirigori di bave. Che? Non vedi, forsi? Malo scherzo fa e perverte abortita petra ‘n la postura criminosa del parto. Malo ventr’enfiato di bare è la gleba…’ – disse, l’oditor de li homeni, e tacque.
Ma di poi si volse, lo duce mio, anasando alquanto, a scabro un banchettaccio di rovere tutto apparecchiato di vivande, aspartato ‘n la frescura d’un bel noce.
II
Messer lo pizzicagnolo sparsamente trafficava, e maldestro, ‘n quel vecchiume di roba; ‘nfra vassoj rugginiti et nauseabondi scatolami di broda, spesse fiate ciampando, ‘mbrogliato da’ molti sacchi o da’ carnili a pie’ del suo desco. Pinzochero vestuto all’apostolica, a sghimbescio portava ‘n sul teschio un buffo covriceffo a fiorami, di que’ scialli che si vedon calcati sul capo de’ turchi, leggieri assai e colorati.
Ligato a catena era tristo et ossuto un somaro, ne la sua poca carne punzecchiato da’ tafani; par che rida, se digrignando i denti ragghia, ma piagne invero una dolorata et umana canzonaccia di soprusi; raspa, la bestiola, e strappa col morso suo difforme quel che puote: qualche erbaccia, ‘n su la tera squamata da l’arsura, e nulla più.
Pare invero ‘l fantasma di se stesso, ‘na carcassa; e pur te strugge, n’è vero, l’occhio suo annacquato se quel porco d’un giudeo lo sgride.
Dice – ‘Bastardo d’un ciuco!’ – et lo sferza. Ma la bestia poverella non ha colpe, se non quella d’attrare con el suo pelo salvatico sciami su sciami de mosche. L’incalza lo speziale: – ‘Bastardo d’un ciuco!’ – E lo batte. – ‘Deh, che tu se’ un mulo maladetto!’ – Scornato assai, se ne dole lagrimando l’asinello.
Fue allhora ch’eo m’avvidi che tanto scabbiosa mangiatoja pur avea – ben ché mancassero el bove et la Madonna – pur avea anca lei ‘l suo bambinello ‘n fasce: piangente anch’esso et anch’esso malnato, avea ‘l suo letto ‘n una cassa di patate.
Ma negletto era, fra mill’altri ‘nvolti di guasta matera, qual fagotto ‘nvenduto. – ‘Crudelissima è natura,’ – pensai – ‘e novercale. Matrigna e sepolcro di cose create…’ – – ‘Vienmi retro, Michelaccio’ – disse a me lo duca mio – ‘e non far motto’. –
Ci movemmo a la spezzata. E come che gli fummo da presso, a quel violento d’un giudeo, a quel sire adunque così parlò lo duca mio, con boce di birro: – ‘Eo son venuto a purgare el vizio sodomitico de’ Bulgari, giudeo. Et sodomia cum brutis, et coito in vaso indebito, et vostro vilissimo commercio di putti.’ –
Al che ‘l vecchiastro, stranito alquanto, non rispuose verbo alcuno, ma ruppe anzi ‘n un ghigno vomitivo d’usuraio.
– ‘Eo son venuto a vi condurre al capestro, idolatre che sete! Apostata ‘n cristo!’ – Ma il venditor non se ne cale affatto et fustiga ‘l somaro crudamente, a colpi de vincastro e de scudiscio.
V’era, lì ne’ pressi, uno pozzo inusato d’acqua pestifera e nera: ad essa fonte anela forsi ‘l bambin Gesù, se tanto acutamente strilla; ma ‘l ciuco spezialmente, che annaspa e dà gran strappi a la catena. – ‘Battistero è la cloaca,’ – pensai – ‘orfano agghiaccio di fonte vedova; risecche labbra cui la stessa evilescente natura s’abbevera…’-
E quanto più aspramente quel tristaccio figuro s’accaniva ‘n sul mulo, e lo frusta e lo batte e l’ingiuria, tanto più a squarciagola se lagne ‘l fantolin; quanto più quel pazzaccio l’ignora et procede ‘n il laido oprar di sue violente, tanto più lo duca mio se profonde ‘n offese, villanìe atroci et atroci contumelie.
Dice: – ‘El tratto de corda v’attende, giudeo. Et scure turture mecaniche… e che, tacete? Voi che barattaste l’onor per un pugno di danari, quando che dispregiaste ‘l cielo, allhor ben acquistaste, messer, uno bel cantuccio a lo cemeterio. Eo son venuto… come si dice? a vi rimboccar li lenzuoli. Eo son venuto a vi condurre a la forca. E che? Non mi credete forsi? E bene, Michele, tu gli mostra le carte del bargello.’ –
Qual carte mai, io nol sapea; ma tacendo tuttavia, a tòrre mi feci da ‘l borsone quel solo fascio di fogli ‘nchiostrati che meco portassi, bench’io li sapessi cosa di scientia. Tu che leggi, cotesto dimandi: per qual cagione mai, così malamente trattato, non rispuose parola, quello strano? Riputava forsi quel che advenire gli potea, la forca, cosa da niente? Per qual cagione adunque non tentò nemmanco una flebil difensione? Per ciò, che falsamente il sbiasimava el duce mio, ‘nventando a bello studio le sue accuse. E come colui che sape, ‘n cuor suo, nulla aver compiuto di ciò di cui alcun lo ‘ncolpa, et non lo tocca punto l’altrui querela, così quel mercatante se ne stava, tranquillo, ché tranquilla era ‘n lui, e ‘mmacolata, sua conscienza.
E dunque, hor qua hor là succhiellando el cartiglio ch’io li porsi, el duca mio con perfidia simulando, decantò: – ‘Ne l’anno da l’incarnazione di Cristo MCCCCCCXII, ne la mesata di maggio addì XIV, et coetera et coetera, si commette l’arresto, per regia sentenza.. et coetera et coetera… di Giustino pizzicagnolo di messer Vitangelo da Venezia, di bulgara schiatta et di sangue bastardo, eretico, temutissimo nimico di l’Ecclesia, reo d’aver… –
Al che finalmente voltandosi, quel bruto: – ‘Che vi nasca ‘l vermocane!’ – disse – ‘Io son Filostrato nomato, da Bobbio. Ma quale forca e forca!’ – e rise assai, porello. Porello! Chè nel duca mio montò soperchia collera; nel sangue, oymei, bruttò nel sangue la sua crudel rettorica d’inganni. Snudata che ebbe d’un subito la coltella, tutta l’affonda ‘n la ventresca, e s’ingrugna e ride e sbudella. E sbudellando gride:
– ‘E’ forse fallibile Iddio, che tutto guberna?’ –
In vano ‘mplorava innocente l’accusato: – ‘Osanna! Osanna’ – ne la cieca polve rantolando, et nel dimandar perdono qual grazia ottenne? Gli fue mozzato el fiato. Abbominando Iddio e la legge el sommo duca lo finì, e fue el carisma di un’ultima stoccata. Flagella, e dice: – ‘Seminator di scisma, ei fu, et di peccata. Pur non lo volendo, quel porcastro fu egli micidiale di se stesso.’ –
Quindi, col tono affettato del falso profeta, coniò quel proverbio, che dice: ‘raglio d’asino non arrivò giammai fino al cielo’ con la giunta d’uno: – ‘sporco d’un ebreo’. –
E poi che dispersa emmo la turba – che a tondo riunita s’era, con grande scandolo e caciara – de li astanti, retro adunque ci lassammo quel beccaio, duro e scornacchiato, e sue trinciate carni.
Questo dico: di cotesta gran voglia che avete, lectore divoto, di farmi vergogna, io non mi curo punto. Ciò fanno le demonia, per seminar errori et metter la zizzania. Molto, è vero, sformava ‘l maestro la giustizia ad uso suo, ma per qual fine? Acciò che i legami fussono sciolti a l’aseno di sua cattività, commesso avea tant’amaro malificio di vendetta, col suo protervo oprar; perciò, dunque, gli perdono.
– ‘E che’ – dimandate, – ‘financo ‘l fantulin salvaste?’ –
Ma certamente! Che lo gittammo nel gurge nero del pozzo, at ‘ngrossar le chiaviche. Questo accadde. Sciolto che emmo la bestia da l’istretta testura de’ nodi, allegramente ne partimmo, allegro trio, e bello assai: lo duce et io coll’acquisto nostro novello. Allegramente ne partimmo, lo duce et io e l’asinello.
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it


Lorenzo Marco Scremin
Lorenzo Marco Scremin nasce a Milano, ex nihilo, nel 1994. Conseguita la maturità classica, si iscrive alla facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano, discutendo una tesi triennale in filologia romanza nel 2019 (L’amor ch’è discortese. La letteratura provenzale ne ‘l mal de’ fiori di Carmelo Bene) e una tesi magistrale in lettere moderne nel 2021 (Eluvies nigra. Il latino del Niger mundus di Emilio Villa). Da anni scrive testi che si premura poi accuratamente di disfare, spesso consegnandoli all’olocausto delle fiamme; dal 2021 insegna lingua e letteratura italiana in un liceo milanese.