Messmer di Patrizia Vicinelli ⥀ La Punta della Lingua 2024
In occasione della presentazione del volume La nott’e’l giorno di Patrizia Vicinelli (Argolibri, 2024), tenuta da Roberta Bisogno, Chiara Portesine e Fabio Orecchini il 28 giugno ad Ancona nel contesto del festival di poesia totale La Punta della Lingua 2024, presentiamo un estratto della scrittrice tratto dal romanzo Messmet (1980-88). Il programma completo del festival può essere consultato qui
Parte prima
I
Andare a Roma, prendere un treno qualsiasi che poi parte dopo mezzanotte, non troverò neanche un albergo, che sei gelosa? gelosissima, diceva lui mentre baciava l’interno della sua mano, chissà se quest’argomento m’interessa, due stronzi, pensava, borghesi, eccetera. Ed era come nei vecchi films, una fumana, con tutta quella nebbia, lì alla stazione si scopriva la vera essenza della città, fumosa nebbiosa, nella piena ondata dell’inverno, una città dentro una valle. Vediamo se quello che dicono della città di Roma è vero, che sia più bello e più caldo, almeno questo. Ho certi brividi, sarà la paura. «Salgo e sono in prima e ho i soldi nelle calze e nelle mutande la roba
e in tasca la spada, e vi sfido a trovarmi, a trovarmi qualcosa di tutto questo, bastardi. Mi sembra d’essere tornata ai vecchi tempi», oh little castle, cantava, dentro di sé naturalmente, lei non amava gli scandali, oh little castle, I want to be free, biglietto di prima naturalmente, e free e free e freedom now,
lasciami stare vecchio stronzo, quella fu una delle pochissime volte in cui disse di no, ed è un’ossessione, sete, trovati un posto, calma, la Messmer deve stare calma, ehj, baby, hai dei bei capelli biondi, tu ti fai, ne ho conosciute tante come te al mio paese cosa credi che non ti riconosca?
Una troia drogata sei, anche quello come il vecchio troppa libidine troppa insofferenza, io faccio quello che voglio, capito vecchio, capito soldato? Ma sarà che non mi muovo da un pezzo, sarà che m’ha ripreso la paranoia, «era un pezzo che non ricordavo queste storie», forse qui va bene c’è una signora
che sonnecchia, va bene, la luce è bassa, e se ho bisogno andrò al cesso che è accanto certo deve essere che non mi sposto da un pezzo, paranoia, calma Messmer, il tizio morto al cesso non ti riguarda, vai tranquilla, a Roma fa caldo, «ma quando parte sto treno di merda, fino a che non arriva il controllore non posso andare al cesso», e si siede e fiori e goccioline sulla
sua fronte e scendono sulla pelle opaca e tirata come uno che patisca la fame come uno che soffra tanto, i suoi capelli biondi cadevano ai lati del viso magro, perché non li aveva tirati sù bene prima di uscire, non ne aveva avuto il tempo, la donna seduta con lei sulle poltrone di velluto verde aprì giusto gli occhi per vedere chi fosse entrato nello scompartimento, visto
che era una donna li richiuse. Messmer cominciò la concentrazione per calmarsi, «un viaggio è un viaggio» pensò, «devo stare calma». La luce azzurra della piccola lampada sui treni dava la pazzia per uno che già avesse dei problemi, ma in fondo era buio. Peggio se ci fosse stata luce, peggio. Le tendine erano chiuse. Sedendosi sul posto vicino al finestrino con la tavola che le stava sopra le ginocchia, scostò leggermente le tende, il treno era ancora fermo alla stazione, nebbia ovunque pensò qui si potrebbe nascondere anche un assassino che nessuno lo troverebbe, e nel mentre apparirono proprio sotto il suo naso due carabinieri di ronda in tutta divisa, con le solite facce imbecilli e ignare. Sussultò suo malgrado, accidenti la
paranoia, tanto che loro la guardarono, perché la paranoia si sente, anzi si annusa. E già si sentiva male e già si sentiva presa e già si sentiva che tutto era finito, il treno si mosse dopo uno scampanellio, un fischiettio a lei sconosciuto.
Dunque, partiva. Dunque, partiva. (Allora) il treno fa tu tun-tu tun tu-tun, Messmer prova a chiudere gli occhi e non pensa a niente, non sono passati neanche cinque minuti che entra il controllore biglietti e-il-più-è-fatto-, controllato, vorrei vedere te, vorrei vedere te, «adesso devo andare al cesso
e cercare di stare tranquilla». Dunque senti, senti, disse, la mia figa è grande è enorme per te, froscio, che cerchi sempre un’altra figa, la mia figa è imperiale le mie vene al posto di te maschio inconsulto animale animale, animale, e mi chiudo la porta dietro ora sto tranquilla perdio, qui con un’odorosa tazza del cesso sto tranquilla, e tan-tan ta-tan e ta-tan ta tan vengo e ti ho cercato e delirio per averti ma tu parassita naturale non parlerò più, voglio la mia pera, voglio non sapere e essere in viaggio e non sapere. Il cucchiaino era d’oro il braccio era d’oro la polvere era assolutamente d’oro finissimo, il treno faceva il suo ta ta pum, ed era difficile beccare quel punto
aperto sul braccio una cosa minuscola.
Spasimava per sentirsi il liquore bruciare dentro come un’antica ferita almeno sono viva gridava qualche parte del suo essere almeno qualcosa voglio, e non te, che mi hai tradito mille volte in modo diverso, non te, che mi hai negato sempre, non te eccetera lei disse, e s’abbracciava tenendosi stretta alla catena del cesso che non è mobile nei treni, ma la vena ancora no, e le uscirono zampilli di sangue e lacrime no, oh no, ne ho bisogno, rallenta treno, non sbandare treno, si sentì dire, ne ho bisogno. Il sangue schizzava giù, fra quelle strane graticole in basso, dove qualcuno ci piscia e il rumore del treno sale più forte, più imperioso il senso di morte immediata che puoi darti. Lei ci riesce dopo che tutto è rosso in terra, meno male è prima classe, lei becca la sua vena di tutti i giorni e il sangue fa sbluff, è così nero, non c’è speranza pensò, tirare fu tutt’uno, «ci sono», il cuore le saltò sù come una coltellata, in vena in vena, non poteva pensare a quanto in realtà era infelice; in quel momento era in vena in vene che duravano da dieci anni, vuoi venire con me amore mio disse la morte, con un accento pietoso ma lei non sentì perché il vulcano del sangue eruttato aveva occupato ogni comprensione, voleva quello, uno sbluff dentro l’anima, e dunque tiro, e inietto adagio no no, non è come per le puttane, no, nel rapporto col magnaccia; no, io tiro e butto giù d’un colpo, come una mazzata come chi resiste non è morto, come voglio sentirlo tutto insieme come questo è quello che ho, dentro dentro come più fondo, no, una congiuntura una congiunzione quando le cose vanno bene. E il cesso è favolosamente bianco e banale e il primo brivido è stata la mia vita il mio whisky di stasera is nothing for me sappiatelo, io voglio farvi deviare sappiatelo, amici nemici sappiatelo, preparatevi, io vi voglio far venire al dunque, Messmer luci viola e spazi viola e chi se ne accorge di te coi tuoi lamenti di fine d’anno, cosa fai rantoli?
Ah sì, rantolare, fare quel suono col respiro come certi che devono morire, ma è normale non è così?, nella prima classe ognuno ha diritto di morire e di vivere come vuole, senza testimoni e senza gente che si oppone. Diventando viola la sua mente si perdeva in contorsioni di ricordi, un portacenere d’ambra inusato dava certi colori rifratti, era uno scudiscio un’onda di colore che riusciva a raggiungermi, che dici oasi? Non c’è oasi, san pellegrino, non c’è stasi, non c’è pace, ombra e luce, e grandi risvegli, puoi guidare la tua carrozza, è tutto così grigio madreperlaceo, sono nel ventre di una conchiglia di perla.
Mi pescheranno.