Metro Elettro Convegno | Danza | La misura del corpo | di Simona Lisi
[«Argo – Rivista d’esplorazione» presenta Metro Elettro Convegno, un simposio online con artisti e scienziati sull’unità di misura universale. Per millenni l’umanità si è misurata e ha misurato il cosmo, individuando una costante proporzione aurea nelle forme e nei suoni, da Pitagora a Fibonacci e Keplero, dalla filotassi dei botanici ai frattali dell’albero di Barnsley, da Fidia a Seurat e Paperino nel mondo della matemagica, da Debussy a Gubajdulina e i Genesis. Se l’evoluzione delle scienze e la loro estrema settorializzazione ormai rende arduo un dialogo persino fra settori diversi di una stessa disciplina, la riflessione sulla misura accomuna ancora tutti i saperi umani. Cos’è il metro per danzatori, musicisti, poeti, cineasti, architetti, cardiologi, matematici, fisici e altri esploratori contemporanei? Il Convegno si apre con un intervento di Simona Lisi, danzatrice, ricercatrice di estetica della danza e direttrice artistica di Cinematica.]
La misura del corpo
di Simona Lisi
«Quel che mi resterà sempre impresso della lite non saranno tanto le nostre argomentazioni (…), quanto la reazione di Etienne, che ha preso il lungo righello della lavagna e ne ha affondato una estremità nel mio stomaco e l’altra nel suo. Ogni volta che uno dei due, spinto dalla forza della sua convinzione, faceva per camminare verso l’altro, il righello si conficcava nell’addome. Doloroso! Se indietreggiavamo, il righello cadeva. Fine della discussione. Ecco quel che si diceva fare discorsi misurati…»
Daniel Pennac, Storia di un corpo (Feltrinelli, Milano 2012, pag. 82)
Dal piede alla luce del sole: storia breve della misurazione
La storia della misurazione va di pari passo con la storia dell’uomo, misurare è un modo di dialogare con le cose e comunicarne la materia, il peso, l’altezza, la qualità. Una storia affascinante che ci dice molto in merito ai cambiamenti che ha attraversato il nostro rapporto con il mondo.
Se si risale ai primi metodi di misurazione, si nota che essa fu antropomorfica: le principali unità di misura furono infatti modellate sul corpo umano. Gli uomini misuravano ciò che li circondava attraverso se stessi, adeguando la proprie misure e la propria fisicità alle cose, in un approccio che era necessariamente di vicinanza e di contatto. Così era per ogni fare umano, tutto si regolava sul corpo, sulla sua duttilità, nella fattispecie su quella degli arti per la loro capacità di misurare, e sulle incredibili capacità adattive.
Il corpo e le sue misure naturali sono stati dunque i primi strumenti di misura: piede, pollice, braccia, dita, naso, gambe, tutto era adatto ai fini della misurazione purché visibile e facilmente riscontrabile. Tutti i tradizionali sistemi di misurazione si fondavano, infatti, sul confronto tra parti del corpo e distanza, ogni misura era personale, adattata alla propria forma anatomica. Immaginiamo che non sarà stato facile comunicare esattamente una misura, i diversi metodi antropomorfici erano ovviamente di scarsa precisione.
Si rese necessario, perciò, con il passare del tempo, il ricorso all’astrazione e quindi si passò da unità di misura individuate da rappresentazioni concrete a concetti astratti: per esempio, dal mio piede al piede in generale. In altre parole il piede, il passo, il palmo furono resi concetti standard, astratti, universali, utilizzabili da chiunque in qualunque latitudine. Infatti il pollice rappresentava l’ampiezza del dito mentre il piede in origine corrispondeva alla lunghezza dell’arto. La iarda (yard) corrispondeva anticamente alla distanza tra la punta del naso e l’estremità del dito medio. E così anche il cubito che era rappresentato dall’avambraccio e il miglio romano che corrispondeva a circa 1000 passi (di qui l’espressione pietra miliare).
Con la trasformazione ottenuta attraverso l’universalizzazione delle misure antropomorfiche, i vari metodi di misura poterono assolvere molto bene e per lungo tempo alla loro funzione nelle relazioni umane, all’interno delle rispettive società. Anche queste unità furono però caratterizzate da grande eterogeneità, in quanto cambiavano con il trascorrere del tempo ed erano diverse da nazione a nazione, da regione a regione, spesso da città a città.
Un sistema di misura basato su unità universali si affermò solo con la Rivoluzione Francese e la nascita della società moderna, in un momento storico in cui questo obiettivo era ormai diventato necessario e compatibile con quegli ideali di universalità e di fiducia nella ragione che hanno così fortemente caratterizzato l’Illuminismo.
Il 26 marzo 1791 l’Assemblea Costituente Francese istituì la Commissione Generale dei Pesi e Misure ed adottò, per la lunghezza, un’unità equivalente a un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’Equatore calcolata lungo il meridiano passante per Parigi.
Questa unità fu chiamata metro, dal greco mètron che significa “una misura”.
Fu poi temporaneamente definito, come la distanza tra due linee sottili incise su una sbarra di platino-iridio, prototipo del metro internazionale a causa dell’imperfezione della forma sferica della Terra. Una successiva definizione utilizzava la lunghezza d’onda della luce rossa emessa dal krypton 86 e, in seguito, nel 1983 il metro fu definito come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto nell’intervallo di tempo di 1/299.792.458 secondi.
Il metro come forma di governo di sé e del mondo
Katà métron significa “con misura”, “secondo misura”. Con questa espressione il pensiero filosofico greco delle origini si riferiva all’atteggiamento di chi sa avere cura di sé; di chi sa governare se stesso avendo consapevolezza di sé, delle proprie possibilità e dei propri limiti.
Con misura quindi l’essere umano ha trovato il proprio medium di misurazione perfetto, universale, neutro, facilmente utilizzabile. È stato trovato un metodo che azzerasse le differenze di misurazione, l’arbitrarietà di tali misurazioni e quindi la parcellizzazione delle stesse. Attraverso una costruzione razionale il dibattito tra le varie modalità e abitudini di pensiero, così come tra i vari sistemi adottati nel mondo, è stato azzerato dall’avvento di un segno che fungesse da misuratore universale.
In effetti il metro, tra tutte le cose inventate dall’uomo, è forse il più certo, il più sicuro, il più difficilmente superabile. Non si supera il metro da più di trecento anni, un oggetto così piccolo resiste al tempo, alle diverse interpretazioni e successive modifiche. Il metro ci dà tanta certezza da spingerci ad adattare noi al suo volere: nessuno discute infatti l’imperativo dettato del metro.
Anche la metrica in poesia ci dà sicurezza, rispettare i limiti e le leggi della metrica ci fa essere sicuri di rimanere in un binario di possibile comprensione. Anche nel linguaggio poetico delle origini si misurava in modo antropomorfico: il piede, formato da un gruppo di due o più sillabe brevi e lunghe che costituivano la misura del verso, deriva il nome dal fatto che i Greci segnavano il tempo col piede. Così come arsi e tesi, che segnano tempo debole e forte, significano innalzamento (della mano, del piede o del dito del direttore) e poggiamento (sempre di piede, mano, ecc.).
Allora l’unità di misura del metro, può essere vista come un paradigma della più generale capacità dell’essere umano di astrarre da sé le capacità di misurazione, computo, azione e creazione artistica per creare degli strumenti che ci aiutano a stare “al mondo”, estendendo la propria corporeità in modo che possa eventualmente essere astratta per fungere da rilevatore non più corporeo (e quindi necessariamente radicato all’esistente, transitorio, differenziato e differenziabile) ma universale.
Anche il nostro mondo cambia al cambiare delle modalità di misurazione, a un mondo dai confini più incerti del pre-illuminismo ne segue uno in cui la regolamentazione dei rapporti causali e delle caselle intellegibili di pensiero diventa straordinariamente regolare, dandoci l’illusione di aver padroneggiato la Natura e il Mondo.
Danza: dialogo fra corpo e spazio
Ma l’origine antropomorfa della misurazione e, in generale, un approccio corporeo e di vicinanza con le cose del mondo, lo ritroviamo ogni volta che abbiamo a disposizione solo il nostro corpo per una qualsiasi azione che necessiterebbe di uno strumento. L’assenza del metro fa subito avvicinare il corpo alla porzione di mondo da misurare, compiendo dei gesti che misurano lo spazio vuoto tra un apice e l’altro. Così, come abili mimi o ballerini, ci muoviamo con questa porzione di spazio tra le mani per riportarne la realtà in un luogo altro.
Corpo e misura, un dialogo costante e reciproco, forse mai sopito. Reciproco perché, ad esempio, quando prendo le misure, con il metro, per fare un vestito il più possibile aderente, il metro ridà al corpo la sua misura. Lo fa essere non più misurante ma misurato. Molto interessante, a questo proposito, una breve opera che trasferisce in video questo reciproco passaggio tra corpo, mondo e misura. È un breve cortometraggio di videodanza degli italianissimi Augenblick, si intitola Su misura
Proprio per questo reciproco passaggio tra corporeità e misura, viene spontaneo pensare alla danza.
In effetti l’arte della danza si misura spesso con la geometria e la relazione, con le misure e lo spazio. Proprio perché è un’arte che non traccia segni indelebili su una superficie e non crea forme permanenti ma è un’arte effimera che vive nello spazio e nel tempo del momento, ha bisogno di direzioni e forme ben precise per essere compresa e trasmessa.
Danzare liberi nello spazio significa non avere direzioni e relazionarsi non tanto allo spazio quanto piuttosto al tempo, all’altro o al ritmo musicale. Ma se si parla di danza d’arte e di coreografia nel senso stretto del termine, quindi di una creazione artistica vera e propria, allora conoscere le regole dello spazio e del tempo è una necessità fondamentale: padroneggiare queste regole e il modo specifico in cui le si applica dà luogo al segno riconoscibile della propria cifra stilistica.
Nei balli di sala l’attenzione va alle geometrie dello spazio, e infatti sono molto suggestive le prime scritture della danza, quasi dei disegni astratti alla Kandinsky. Da quando si è iniziata a codificare la danza classica l’attenzione allo spazio e alla geometria del movimento nella sfera di azione del danzatore diventa sempre più importante.
Le teorie geometriche di Von Laban e William Forsythe
Spesso si ricorre proprio alla geometria per orientare il corpo nello spazio. Ne è un esempio la ricerca di un importantissimo teorico della danza come Rudolf Von Laban: la rappresentazione tridimensionale della kinesfera (ovvero il volume di spazio accessibile attraverso le parti del corpo) nella figura dell’icosaedro, un poliedro con venti facce.
Laban inserisce il corpo all’interno di questa figura tridimensionale per aiutare il danzatore a direzionare il movimento, decodificare lo spazio (qualsiasi spazio) e avere coscienza dei propri limiti spaziali ma in direzioni precise ed efficaci.
Perché è vero che il problema è sempre quello di porre dei limiti alla creatività: senza limiti la creatività non scorre in modo efficace, esattamente come la ricerca scientifica. Senza questi limiti la ricerca si disperde nello spazio e nel tempo, mancando la sua funzione.
Una delle pratiche di ricerca del movimento della danza contemporanea consiste proprio nel creare o ri-creare misure e parti di spazio con il corpo, per cercare nuove vie di modulazione della gestualità. Proprio quel tipo di movimento che tutti noi facciamo per prendere delle misure, diventa lo spunto per sequenze di movimento che portano particelle di spazio nello spazio generico di azione.
In questo senso il lavoro del coreografo William Forsythe è molto illuminante. Nel suo Improvisation Technologies, a Tool for the Analytical Dance Eye, un CD-Rom frutto di anni sperimentazione coreografica, illustra la sua tecnica di creazione.
Il corpo è considerato come un vero e proprio vettore geometrico, in grado di creare coreografie e relazionarsi allo spazio, generando punti, linee e intere superfici attraverso cui muoversi, producendo strutture tridimensionali corporee. In questo breve video proveniente da uno dei capitoli dell’opera Forsythe inizia a spiegare il metodo di lavoro
In effetti è come costruire coreografie in assenza di un metro.
Ma gli sviluppi di questo pensiero possono andare molto lontano. Ne vediamo qui un esempio realizzato dallo stesso Forsythe e Thierry De Mey compositore belga, usando la sperimentazione che permette la tecnologia digitale
Tra danza, geometria, cinema e pittura le relazioni vengono completamente sovrapposte e combinate in un gioco visivo e ritmico sorprendente.
«Il mio corpo è il perno del mondo»
Con il metro noi limitiamo la nostra strabordante corporeità e le diamo una regola che è utile per comunicare con misura. Attraverso l’utilizzo di questa misura la corporeità può trovare modi infiniti di creare.
Per la straordinaria capacità del corpo umano di essere medium di azione e reazione, origine di ogni prodotto culturale e suo attore, la geometria può direzionare il metodo creativo e dargli una possibilità altra di decodifica, trascendendo la sua logica ferrea e la sua ineluttabile verità.
In Fenomenologia della percezione, Maurice Merleau-Ponty afferma: «Se è vero che io ho conoscenza del mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo.» (Il Saggiatore, Milano 2003, p.145).
Sulla scorta di quanto scrissi nel saggio Il linguaggio della danza, la danza del linguaggio (in AA.VV., In cerca di danza, a cura di Christian Muscelli, Costa&Nolan, Milano 1999), con il mio lavoro di danzatrice, ricercatrice di estetica della danza e direttrice artistica di Cinematica, un festival che dal 2013 indaga la relazione immagine-movimento, mi occupo di veicolare la primarietà del corpo in ogni comunicazione e il suo ruolo fondante, anche nel più astratto e virtuale dei mezzi di comunicazione o nella più effimera delle forme artistiche.
Senza l’aggancio al corpo perdiamo la connessione con il nostro centro e spesso la capacità di interagire come esseri umani. Ogni cosa creata dall’uomo è, in qualche modo, un sostituto o un’estensione della corporeità: computer, macchine, astronavi, satelliti. Dove il corpo non arriva l’ingegno umano ne costruisce un sostituto o un’estensione e, a sua volta, questo mezzo cambia la nostra fisicità, determinandone nuove e infinite traiettorie.
Succede così grazie al piccolo metro, oggetto di grandi ricerche e mille versioni, generato dal gesto di un primo uomo che ha danzato tra le cose, misurando il mondo con l’unica cosa che aveva a disposizione, il proprio corpo.
Opere consultate
Émile Benveniste, Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 1994
Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli, Milano 2012
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 2003