Metro Elettro Convegno | Economia | Una misura etica per la finanza | Prima parte | di Sergio Corbi
[Metro Elettro Convegno continua con Sergio Corbi, economista e da quasi 30 anni manager, ceo e presidente in imprese, finanziarie e gruppi industriali, fra cui vari quotati in borsa, imprenditore in proprio con la sua Financial Systems.]
Sergio Corbi
Una misura etica per la finanza | Prima parte
Un viaggio di mille miglia comincia con il primo passo, e con una buona mappa da seguire. L’obiettivo da raggiungere, nel nostro caso, è lo sviluppo etico dell’economia, prima in una zona, poi in un paesino, poi in una città, poi in una regione, poi in uno Stato, e così via.
Il dominio della finanza illusoria
L’economia moderna è, come noto, dominata dalla finanza, che ai più non appare certo etica. In effetti, l’economia mondiale è per nove decimi “di carta”, cioè fatta di “scommesse”: come al casinò, quando si punta sul rosso o sul nero, si perde o si guadagna al verificarsi di un evento, che non ha niente a che vedere con il denaro investito nella scommessa. La finanza di mercato, quindi, che determina quasi tutta l’economia mondiale, è finanza illusoria.
Solo un decimo dell’economia mondiale è economia reale, cioè produce beni e servizi per le persone. Il punto è che la finanza illusoria determina i valori degli scambi nell’economia reale, a danno della stessa economia reale e delle persone, che, inconsapevoli e soprattutto incolpevoli, ne subiscono le conseguenze. Ecco perché c’è una profonda scarsità di etica nella finanza di mercato.
Economia e finanza, sebbene vadano distinte tecnicamente, sono due facce della stessa medaglia. Il loro valore si misura con un metro ben definito: il profitto. Tecnicamente il profitto è l’utile inteso come eccedenza del totale dei ricavi sul totale dei costi incluse le tasse. Ora, è possibile generare un profitto etico?
Se nella finanza di mercato sembra utopistico, nella finanza aziendale non lo è, come dimostra l’esistenza di reti bancarie e aziendali, a livello nazionale e internazionale, fondate su codici etici, come Banca Etica e la Federazione per l’Economia del Bene Comune, che è movimento globale organizzato in reti nazionali attualmente distribuite in 26 paesi e pone al centro degli interessi dell’impresa l’uomo, l’ecosistema e le relazioni di cui è popolato, non solo ispirando ma valutando i comportamenti economici e la loro capacità di generare bene comune, premiando gli attori che dimostrano un comportamento umano, cooperativo, solidale, ecologico e democratico.
Le sfide della finanza aziendale
La finanzia aziendale è associata alle imprese produttive di beni e servizi, che vengono realmente scambiati nel mercato. L’impresa di produzione di beni e servizi è un microcosmo nell’economia, che coinvolge, nell’ordine, un imprenditore, dei capitali e dei lavoratori, che producono, trasformano, creano prodotti e servizi destinati al mercato.
L’imprenditore ha l’ambizione di ottenere un profitto elevato, i lavoratori di avere un posto di lavoro stabile, i clienti dell’azienda di avere buoni prodotti a buon prezzo, o comunque equo. Partendo dai microcosmi aziendali, che compongono il macrocosmo dell’economia globale, dobbiamo trovare il più efficiente legame tra il produttore del bene (l’azienda, in sintesi) e chi desidera comprarlo (i clienti dell’azienda, cioè il mercato).
Quali sono gli ostacoli per raggiungere questo obiettivo?
I danni provocati dalla finanza di mercato
Un’iniziativa economica o un investimento finanziario sono normalmente ritenuti più o meno buoni in una scala metrica numericamente definita e definibile. Si pensi all’ammontare degli interessi percepiti o realizzati in un investimento finanziario: il 7% annuo è meglio del 3 % annuo nell’accezione comune di un osservatore inesperto. Generalmente l’osservatore inesperto non associa alle percentuali degli interessi la probabilità che essi hanno di verificarsi. Se lo facesse, scoprirebbe che i due valori sono indifferenti sul capitale investito in una impresa, in termini di redditività, cioè sull’utile netto annuale.
Il mondo, in particolare negli ultimi anni, ha visto l’esasperazione della massimizzazione del profitto, da ottenere, oserei dire, ad ogni costo, nel completo disinteresse, non solo dell’etica in senso stretto, ma in generale delle normali regole, che spesso o non ci sono o sono inefficaci e insufficienti. Ciò è testimoniato sia dai comportamenti borderline di molti investitori, sia dagli scandali che, con ritmo spaventoso per frequenza e dimensioni, si sono susseguiti negli ultimi dieci anni, ben oltre la legalità. Peraltro spesso, troppo spesso, i reati restano impuniti.
Da sempre, la finanza incontrollata, sia a livello globale, quindi trasversale, sia interna a ciascuno Stato, ha causato i danni più gravi, tanto alle persone, ai risparmiatori, al mercato reale, quanto agli Stati sovrani, aumentando a dismisura la povertà generale, da una parte, e la ricchezza di pochissimi, dall’altra.
La Borsa dovrebbe essere il luogo dove si alloca il risparmio, e non il luogo dove si va a “giocare”. Il risparmio, infatti, serve a finanziare le imprese produttive e profittevoli per creare lavoro e sviluppo economico nazionale e quindi benessere. In quanto bisca legalizzata, casinò, tuttavia, la Borsa genera danni a tutti i non addetti ai lavori di capitalizzazione delle imprese, cioè a tutti quelli che ne subiscono gli effetti. Basti pensare che le Borse stesse hanno progettato e realizzato prodotti finanziari che sono anche formalmente delle scommesse (speculative). Si tratta di prodotti con cui si guadagnano o si perdono soldi, in funzione di accadimenti che hanno poco o meglio niente a che vedere con l’andamento delle aziende. In questo modo si spostano denari da chi perde a chi vince la scommessa ma nulla si produce, se non l’arricchimento e l’impoverimento conseguente personale di qualcuno.
Questa finanza di mercato genera effetti negativi per la finanza aziendale, che associamo alle imprese produttive di beni e servizi che vengono realmente scambiati nel mercato. La finanza aziendale, infatti, si impoverisce progressivamente perché i capitali in essa investiti sono sempre meno. Come noto, senza capitali non si fanno investimenti e non si progredisce, non si creano posti di lavoro, non si fa ricerca ed innovazione, non si creano profitti per reinvestire e così via. Non si crea benessere.
Chi investe capitali preferisce vagare nei casinò mondiali, puntando sulle scommesse più assurde, e, come abbiamo visto, spesso fraudolentemente organizzate da operatori senza scrupoli. Intanto le imprese chiudono, si perdono posti di lavoro e la disoccupazione, soprattutto giovanile e colta, raggiunge limiti spaventosi.
Questo senza parlare delle storture dirette sui costi aziendali: si pensi alle materie prime, il cui prezzo è fatto sulla base delle scommesse nei mercati che le trattano, e non sulla base degli scambi effettivamente necessari per la produzione cui sono destinate. Ciò comporta l’aggravio e comunque una interferenza, una anomalia dei costi di produzione. In paesi deboli come l’Italia la drammaticità della situazione è sotto gli occhi di tutti, ma il problema riguarda in misura più o meno consistente anche gli altri paesi.
Come sconfiggere la finanza di mercato
Questa premessa appare necessaria per comprendere l’importanza di riportare l’etica nelle imprese, microeconomie per definizione. Tutte insieme le imprese formano l’economia di un paese, la macroeconomia, che dovrebbe inglobare anche gli aspetti politici, sia nel senso più ampio del termine, ovvero il bene comune e i servizi sociali per tutti, sia nel senso più ristretto del benessere minimo accettabile, direi umano, anche per i più deboli.
Nella “misura” in cui questo potesse avvenire, sarebbe man mano sconfitta la Finanza di Mercato e si invertirebbe la rotta della nave economica globale, salvandola dai ricorrenti naufragi, disastrosi per quasi tutti, profittevoli per pochissimi.
Generalmente quando si parla di investimenti etici ci si riferisce al divieto di investire in attività riprovevoli in senso morale (ad esempio nella produzione di armi) e/o all’assegnazione di una parte del profitti realizzati, in genere piccolissima, in Charity (beneficienza). Ciò è assolutamente lodevole, ma drammaticamente insufficiente, se non addirittura discutibile. La spinta alla Charity, infatti, è spesso determinata da atteggiamenti che costituiscono veicolo commerciale per attirare risorse da gestire: in altre parole, sono azioni utili alle aziende di gestione di patrimoni, più che vere operazioni caritatevoli.
Noi vogliamo andare ben oltre, e occuparci di idee che investano nel suo insieme il comparto produttivo. I pochi settori non etici citati, peraltro, i capitali li trovano sempre proprio perché agiscono in comparti moralmente riprovevoli e per ciò stesso profittevoli. Il nostro progetto si fonda su una logica più ampia e organizzata di assistenza ai più deboli e agli investimenti nelle aziende culturali, che a torto sono ritenute le meno profittevoli, anzi di perdita sicura. Qualcuno disse che con la cultura non si mangia, purtroppo invece di “incultura” si muore.
È tutta una questione di misura, di utilizzo del “metro” giusto e nella giusta misura nell’economia, a partire dalle imprese.
Il prezzo giusto
Proviamo a porci una semplice domanda: il miglior prezzo a cui vendere un bene reale è il prezzo più alto possibile? Penso che quasi tutti risponderebbero di sì. Perché istintivamente si ritiene che esso consenta di massimizzare il profitto per il venditore. Tuttavia, ha senso misurare il profitto solo in valore assoluto globale su tutti i beni e servizi prodotti da quella determinata azienda, ovvero il profitto derivante dal prodotto del singolo prezzo per il numero dei beni prodotti e venduti.
A questo punto possiamo cominciare a dubitare che il massimo prezzo ci consenta di vendere tutta la produzione realizzata o realizzabile. È probabile che un prezzo inferiore al “migliore” possa consentirci di vendere una quantità maggiore di prodotti, guadagnando meno unitariamente, ma magari in misura maggiore in valore assoluto. Così, puntando a vendere di più, impiegheremmo più impresa, nel senso più ampio del termine: più lavoro, più macchine e tecnologia, più materiali, più spazi ed ambienti. E chi crea le macchine creerebbe altro lavoro, tecnologia, materiali, spazi e ambienti. E chi crea la tecnologia, sempre più lavoro, macchine, materiali, e così via.
In altri termini, creando un maggior volume di profitto in un circolo virtuoso, avremmo più crescita di un Paese, e di tutti gli altri Paesi con cui esso lavora, e si creerebbe un maggiore impiego di risorse umane in tutti i campi e quindi lavoro e benessere maggiore.
Prima di proseguire nel ragionamento, va segnalata una simpatica eccezione alla regola economica generale, per quei beni che alcuni acquistano proprio perché hanno un prezzo elevatissimo. Costoro, in verità pochissimi, acquistano quei prodotti fuori da una logica di mercato per distinguersi dalle altre persone, ben più normali di loro. A mio modo di vedere è un comportamento assurdo, di cui in verità, però, essi sembrano godere. Buon per loro e per noi, se le loro disponibilità hanno un’origine onesta. Se anche fanno lavorare qualcuno, arricchiscono oltre misura chi sa ben sfruttare il loro narcisismo. Tuttavia, facciano pure, se lo meritano. Resta da chiedersi se lo meritano tutti coloro che si identificano con questi pavoni, indebitando se stessi per acquistare lo status symbol e arricchendo ancora di più i magnati del lusso. Chiusa parentesi.
Il prezzo ingiusto
Tornando ai prodotti di massa, qualcuno potrebbe obiettare che la libera concorrenza e il mercato globale cercano proprio di creare le condizioni di prezzi competitivi a beneficio del consumatore, quasi che il prezzo più basso sia il migliore per il compratore. Anche qui iniziamo ad avere qualche dubbio. Abbiamo visto crollare palazzi, con morti e feriti, per la corsa al ribasso.
Anche il ribasso dei beni altamente tecnologici ha conseguenze nefaste, a causa della loro velocità di obsolescenza. L’obsolescenza programmata, prevista e prodotta ad arte, hanno di fatto indotto l’utente a spendere sempre di più per comprare il modello sempre più nuovo. In conclusione l’utente ha speso di più in assoluto, perché ripetutamente, e troppo spesso non per effettive migliorie sostanziali e richieste. Ciò significa che i prezzi non sono davvero diminuiti, anzi spesso i costi sono stati elevati anche dal punto di vista sociale, perché la corsa al ribasso ha distrutto posti di lavoro e aziende. Si veda l’effetto dei prezzi cinesi, generati sulla pelle dei cinesi stessi, che hanno massacrato buona parte dell’economia italiana, a partire dal settore tessile. Il tutto con buona pace del Garante e dei sostenitori dell’economia globale incontrollata.
Insomma, la politica del sottocosto non ha prodotto granché in termini di crescita economica e occupazione in Occidente, anzi è stato il contrario.
La ricerca della corretta misura
Da qualunque parte osserviamo il problema, ci appare la necessità di trovare la corretta misura delle componenti economiche o, se si vuole, dei fattori della produzione dei beni e servizi, in modo che agiscano armonicamente nel Sistema Azienda, al fine di raggiungere contemporaneamente due effetti in apparenza opposti: il profitto e l’occupazione.
In quanto metodo per trovare il giusto modello applicativo aziendale, la ricerca della corretta misura del prezzo dei beni dovrebbe consentire al profitto di realizzarsi soddisfacentemente, all’occupazione di prosperare e quindi all’economia di crescere, distribuendo benessere, supporti sociali ed anche culturali (“conoscere”, per apprezzare la bellezza assoluta, nobilitare l’animo e migliorare i comportamenti umani anche nel lavoro corrente, permette di godere al massimo di tutto lo sforzo imprenditoriale e lavorativo e ne è anche il propulsore, spesso nella più completa inconsapevolezza, oltre che esserne parte attiva proprio in senso materialmente economico – molti e forse troppi economisti e politici guardano alla cultura con inspiegabile scetticismo).
Per riuscirci occorre tenere conto che occorrono mezzi finanziari utili agli investimenti per la ricerca, per il miglioramento della produzione, dei prodotti, delle condizioni di lavoro ed ambientali. Altro elemento importante è raggiungere un mercato sempre più ampio dei propri prodotti e sempre più stabile nel tempo, che tenga il passo costante con la produzione e gli effetti degli investimenti.
Se questi elementi si incontrassero in modo efficiente e ripetitivo, seguendo sempre nuovi progetti di espansione, si raggiungerebbe l’obiettivo.
Il legame produttivo fra beni e investitori
Ciò che accade nella norma è che l’azienda vive una vita progettuale propria, producendo e sperando di vendere i propri prodotti sulla base di ricerche di mercato, studi di consumi, ecc.
Il prezzo dei prodotti dovrebbe coniugare coerentemente i due obiettivi aziendali: avere mezzi da investire, quindi profitti adeguati per crearli e/o attirarli, e un mercato ampio e stabile dei propri prodotti, mercato disponibile all’acquisto e capace di generare una domanda che magari non si riesce a soddisfare, e che nel caso richiede all’azienda di crescere per aumentare l’offerta.
Il nostro progetto non ha a che fare con i monopoli, che impongono un prezzo; né con il tema della bellezza, dello stile e della creatività di taluni beni, per i quali si sarebbe disposti a pagare un prezzo elevato o spropositato, per la cui produzione spesso occorrono costi altrettanto elevati, che non si conciliano con la ricerca di una misura etica.
Per questo ci siamo concentrati sulla normalità che ci possa indicare un modello ripetibile, anche se con dimensioni e forme diverse. Abbiamo riflettuto in questi anni sulle relazioni tra mercati finanziari e piccole e medie imprese, e abbiamo cercato di capire quali sono i temi che tengono lontani gli investitori finanziari dall’investimento in questo tipo di imprese. Entrare nell’analisi di dettaglio di queste motivazioni, che sono di tecnica e cultura industriale da una parte e di filosofia ed aspettative economiche dall’altra, ci porterebbe inutilmente lontano; mentre ci interessano altre deduzioni rivenienti da questa osservazione.
L’elemento che hanno in comune gli investitori finanziari, o meglio i risparmiatori in generale e gli imprenditori che sostengono gli investimenti con i loro mezzi, è che sono tutti delle persone con analoghe caratteristiche: sono risparmiatori e consumatori, infatti tutti guadagnano, risparmiano e, acquistandoli, consumano beni e servizi.
Ora, i mezzi con cui gli imprenditori sostengono i loro investimenti sono sempre più limitati, a causa del declino delle loro risorse familiari, così come l’autofinanziamento, calato in ragione del declino dei profitti delle aziende. Perciò le aziende si riducono e con esse si riduce il lavoro e la ricchezza del Paese, il mercato e la domanda dei suoi prodotti.
Quando le cose vanno male in azienda, d’istino inizialmente si pensa ad aumentare il prezzo a fronte della diminuzione della domanda, per limitare la contrazione economico finanziaria dell’impresa, la cui dimensione intanto si riduce. Ciò tuttavia provoca la riduzione della domanda per la crescita dei prezzi e la diminuzione delle risorse degli acquirenti, che potrebbero ritrovarsi nel frattempo disoccupati o avere redditi ridotti. successivamente i prezzi si abbassano per smaltire le scorte invendute, con analogo processo recessivo finanziario ed economico per l’azienda.
Occorrerebbe mettere in relazione stabile il bacino dei risparmiatori, che sono anche consumatori, ovvero il risparmio finanziario, con i prodotti e i beni di cui hanno bisogno normalmente, creando un legame profittevole per entrambi (aziende e consumatori), forte, costante e crescente.
Questa relazione è possibile crearla, ben oltre i timidi e irrisori rapporti tra la singola azienda ed i cosiddetti “punti maturati” che tramite la spesa consentono di avere piccoli sconti su nuovi acquisti della stessa natura e nello stesso negozio. Questo legame, come detto debolissimo, è circoscritto, limitato, insignificante e, particolarmente, nella grande distribuzione mira solo ad alimentare strumentalmente la fonte di reddito dell’imprenditore. In questo tipo di impresa (GDO) sebbene non sia molto noto, il reddito dell’imprenditore non deriva affatto dalla commercializzazione dei prodotti, ma dalla finanza che il negozio genera: si incassa subito dai clienti e si pagano a lungo termine i fornitori. Questa dinamica che genera il reddito dell’imprenditore uccide le aziende fornitrici, e spesso determina prodotti scadenti e inadeguati. La massa di tali prodotti nel comparto alimentare costringe a pratiche di conservazione non propriamente né etiche né salutari.
Come realizzare l’effettiva congiunzione fra investitori e prodotti, per avere più investimenti e più mercato? Lo vedremo.