Mixis#19 | Daniele Contavalli illustra il racconto di Salvatore Santagati
Mixis#19 ci propone la contaminazione fra il racconto di Salvatore Santagati e le illustrazioni di Daniele Contavalli
Argo continua la sua esplorazione multimediale incrociando parole e visioni per immagini. Il risultato di questa combinazione è Mixis#19: una fusione lisergica fra colori, linee confuse e un senso avvolgente di una profumata insensatezza creatrice di mondi e realtà parallele.
Il pollo quando cammina crede di volare
Il nonsenso l’aveva inventato Lella una sera d’estate. Aveva le labbra rosse di vino buono e gli occhi brilli, i lunghi capelli flavi scompigliati e sparsi sulla spalla di Ettore e la testa poggiata poco più su, come a riposo dall’ubriachezza. Fu sulla vetta dell’allegria che all’improvviso lo creò. Era poco più d’un verso, non abbastanza maturo e definito da essere parola, tra il buffo e il comico, il dolce e il sensuale. Per Ettore rappresentò la cosa più spiritosa e divertente che avesse mai sentito.
Dopo quella sera il nonsenso era rimasto, come un segno segretissimo, comprensibile solo a loro. Capitava così che all’occorrenza dell’incaglio, era esso un litigio o un più generale momento buio, Lella chiamava in soccorso il nonsenso per alleviare gli animi, riportando entrambi in quarantena dalle cose del mondo e congelandoli in una pausa che tutto curava.
Adesso che Ettore si ritrovava in uno strazio irreversibile, prese per un attimo in considerazione se non fosse stato ragionevole tornare a casa da Lella, cucciarsi sul divano e chiederle il buon umore, il nonsenso; per quella che sarebbe stata con molta probabilità l’ultima mezz’ora da uomo libero che aveva a disposizione.
Il dubbio fu effimero, scelse infatti con coerenza di proseguire. Aveva il fiato d’un chilo per la fuga, era stato azzoppato, e gli abiti li aveva sbranati e pieni d’impronte di scarpe sconosciute, d’intatto aveva solo un cappotto nero che reggeva con l’avambraccio, alla maniera di chi sta per servire un pasto.
Di nuovo si voltò mezzo paranoico, vide Aci Castello abbandonarsi alla sera e i grigi lampioni diventar luminarie. Assodato che nessuno lo seguiva, si diresse per la terza volta in un cinema.
Stesso film, quello che stava rimbambendo il paese e che stava per volare oltreoceano a guadagnarsi la statuetta; quello che si trovava nella mente e nei discorsi di ogni persona che ne aveva fatto visione quell’anno.
Ora, è da considerarsi raro, ma normale, se una pellicola riesce brillantemente a mettere pace e concordia fra la critica e il pubblico; eccezionale sbancare al Donatello oppure sbrodarsi con la bava appiccicosa di Cannes, anche piazzarsi agli Oscar è raro; ma normale. L’impossibilità statistica di non poter non piacere: questo non è normale. E questo era “Il Mattatoio”. Che il titolo predicesse il fattuale consumo con cui gli spettatori s’erano approcciati al film pareva importare a pochi, o almeno: qualcuno c’aveva provato a dire no, a dire che quello era un grande tranello, che in realtà non era un bel film. Aveva fallito. Chi s’opponeva veniva considerato perlopiù un tenero ribelle, uno che voleva fare lo strano. Aleggiava infatti fra chi ne parlava una sorta di cameratismo sanguigno, estremamente naturale. L’opera era finita ovviamente nelle penne di tutta la stampa, e non solo – qui la portata-, era finita pure per costituire un confuso dibattito fra neuroscienziati, psicologi e psichiatri; perfino fra i matematici che, l’avevano promesso, avrebbero trovato l’algoritmo del perché.
Falà, l’autore, sospeso fra l’arte e il non-si-sa-ancora-cosa, era l’uomo dell’anno.
Manco a dirlo, all’ingresso dell’unico cinema di Aci Castello un cartellone enorme raffigurava la locandina de Il Mattatoio. Ettore entrò; già sull’uscio una vampata di calore lo abbracciò come un fratello, lo scalda con l’alito dei termosifoni, lo carezzò coi decori natalizi. Il bigliettaio invece lo smicciò storto, Ettore pensò allora d’esser stato riconosciuto, che la sicurezza s’era già mossa pubblicizzando il suo volto; lo stesso andò verso di lui.
— Vuole vedere un film? — fu questa la domanda del bigliettaio, la più stupida eppure giusta questione che avrebbe potuto porre. In quelle parole infatti vi era sottintesa la più sincera: “Non sarebbe meglio che lei vada in un ospedale?”
— Voglio vedere il film — fece Ettore, in risposta dispettosa, quasi tronfio perché malconcio — mi dia un biglietto per Il Mattatoio.
Quello tornò egoista nel suo mondo, pigiò qualche tasto al pc e gli consegnò il biglietto.
— Posto sei fila G — lo informò.
— Mi piace stare in prima fila, potrei scegliere se non c’è molta gente?
Non era vero. Non gliene fregava niente.
— Assolutamente no, mi spiace ma è necessario rispettare il posto assegnato — rispose arcigno
— Perché? Se mi siedo in qualche altro posto sfascio l’universo?
L’uomo stava per rispondere a tono, ma Ettore non glielo concesse e andò dritto verso la sala.
Trovati fila e numero, si svaccò sul sedile, lanciò i piedi sullo schienale davanti, poggiandone uno sulla caviglia dell’altro; liberò come crocifisso entrambe le braccia, giovani e membrute, e tirò un sospiro di sollievo. Poi accarezzò un attimo il livido bluastro sulla tempia sinistra, tirò i lunghi capelli bruni verso la nuca e sorrise, e gli occhi parvero zaffiri, lì al buio, quando pregustò le male intenzioni che aveva in mente.
Pur sparuto il pubblico gli parve acconcio. Le facce erano già pasticciate dallo scuro del cinema, fosse arrivato qualche minuto in anticipo se le sarebbe godute illuminate, gaie e ignare; così che il piacere, dopo la sua performance, sarebbe stato il doppio. Lo stesso si riuscivano a vedere molte cose. Che erano ad esempio donne e uomini profumati e imbellettati da cappottoni e sciarpe ampollose; che c’erano grappoli di giovani già in simposio, pronti- e questo Ettore lo amava più di ogni altra cosa- a far scattare le loro intelligenti teorie sui segreti sottintesi nel film; e ancora, che tutti praticavano perfettamente il patto del silenzio che vige nelle sale. Erano più rispettosi di quelli che aveva visto negli altri cinema durante la giornata, questi prendevano i popcorn allungando le mani con la lentezza dei prestigiatori, ridevano con tutto il corpo ma non con il suono della gola. Erano insomma ripieni di quella decenza umana che Ettore sperava di trovare.
Il film cominciò, si susseguirono dunque risate per l’arguta ironia, sospiri per i travagli visti ma come realmente vissuti, rabbia, stupore: l’intero spettro delle emozioni umane percorse lo stesso itinerario che aveva già visto due volte quella sera. Ne fu incomprensibilmente deluso. Che si aspettava? Conosceva benissimo l’algebra del film, quello stupore innestato a computi, quella galera di piacere.
Poi scoccò l’apogeo: il momento in cui il film ti rubava letteralmente il cervello. Numeri sbocciati sulla bellezza, la carne che ti faceva da involucro ti sembrava non fosse mai stata veramente necessaria. Era dunque arrivato il momento di agire. Ora era necessario dirottarli verso lo sfacelo, mostrare l’inconsistenza del loro compiacimento. Celebrare il funerale della loro bellezza, delle loro astrazioni, degli occhi pieni di un’arte imbrogliona. Sarebbero scappati come i cani, senza poesia. Accalcati per la sopravvivenza, col pensiero perduto. Caduti dall’alto di un’umanità bastarda, irrimediabilmente falsata, e fracassati a terra. Una congerie di porci in fuga, pronti a pestare il prossimo per un secondo di vantaggio.
Ettore estrasse il pallone di polvere da sparo infagottato dentro il cappotto, gattonò goffo e ridicolo fino a superare la sua fila e raggiungere il fondo del cinema e cacciò l’accendino dalla tasca dei pantaloni.
L’avrebbe acceso e fatto saltare in aria, come aveva fatto nel cinema prima, e quello prima ancora.
Ma non gli riuscì: gli vomitò sopra.
Si sentiva addosso un caldo da febbre, un malore gli trapanava le cervella e gli sconsentiva la vista. Un orecchio gli bruciava, gli bruciava così forte che gli parve di sentire il caldo colargli su una guancia; si toccò e scoprì ch’era sangue. La fame d’aria lo spinse fuori dalla sala senza che se ne accorse, come un automa, in un lampo, dimenticando la gamba addolorata, fino ad uscire dal cinema, con gli occhi del bigliettaio di nuovo puntati su di lui.
Aci Castello coperta dal freddo sembrava aver raggiunto uno stato eterno, come se il divenire fosse stato incastrato. Quella temperatura però lo curò un poco, quell’aria sembrava un bagno ghiacciato che non lo lasciava svenire. Ne voleva di più. Era vicino al lungomare, senza pensarci due volte discese le scale che lo portavano sulla scogliera.
Quando giunse, il mare lo sentì nemico. Sapeva di non essere lucido, ma avrebbe comunque scommesso che quella non era acqua; era petrolio, e gli scogli su cui provava a farsi strada inciampando continuamente erano carboni. Petrolio e carbone. Tolse le scarpe e alzò i pantaloni dalle caviglie verso le ginocchia per inzuppare i piedi. Nemmeno il tatto riusciva a suggerirgli altro dal gelo viscoso in cui si percepì immerso. Sentì una sirena svolazzare sulla terraferma. L’avrebbero preso si diceva, al più presto avrebbe dovuto salvarsi. Quindi prese l’accendino e lo fece scintillare sul petrolio, ma non funzionò. Allora provò con il carbone, la mano gli tremava malata. Neanche il carbone voleva accendersi, e tutto questo era infinitamente triste e voleva piangere e urlare.
Poi sentì schiamazzi; non se n’era nemmeno accorto, per il buio e per l’affanno: c’erano dei ragazzacci che festeggiavano a qualche metro da lui, l’avevano deriso da quando era arrivato.
— Non si accende vero? — gli urlò uno di loro, nulla più di un’ombra che soffocava dalle risa.
Ettore era arrabbiato ora, non sentiva nemmeno che i piedi gli erano diventati di ghiaccio.
—Bastardi — urlò come un dannato, con la schiuma in bocca, prima di accasciarsi smorto a terra.
* * *
Una vecchia recitava un lagno insoffribile, lo cantava con ritmo pensato, lo interpretava ad arte. Dondolavacome una pazza, avanti e indietro, avanti e indietro; premeva col pugno sulla bocca dell’anima, e poi cantava e cantava…
— La vuole smettere? — le urlò Ettore.
Fu la prima cosa che disse appena sveglio. Non lo scombussolarono le luci bianco vuoto dell’ospedale, né il via vai degli infermieri e dei dottori. Solo il lamento senza sosta di quell’anziana signora con cui condivideva la pietosa attesa nel corridoio del pronto soccorso.
— Ma mi fa male la…
— Deve stare muta!
E come le avesse fatto un esorcismo, la signora tornò cheta e riacquisì coscienza. Anzi, si lamentò pure.
Prima disse all’infermiere che il ragazzo s’era svegliato, poi farfugliò tra sé ch’era meglio non l’avesse fatto.
Ettore alzò il capo e si diede un’occhiata. L’avevano addobbato a natale. Aveva addosso una coperta
isotermica; si toccò la testa e scoprì che l’avevano fasciata con una retina.
L’infermiere gli si piazzò in primo piano e gli chiese come si sentiva.
— Bene, mi sento bene. E me ne voglio andare.
— Ovviamente non può- gli rispose lui- Guardi che lei potrebbe rischiare un edema cerebrale.
— E si muore per questa cosa?
L’infermiere sospirò, era stanco e non aveva voglia di discutere
— Guardi, abbiamo gli ospedali pieni. Non perdiamo tempo, la prego. Anche lei è stato coinvolto in uno degli attentati?
Ettore non rispose, la parola attentato gli pesava.
— Potrebbe darmi le sue generalità per cortesia?
— Perché ? Non avete già preso il mio portafogli?
— Lei non aveva niente con sé.
Dedusse immediatamente che quei ragazzi lo avevano derubato. Pensò un attimo di rivelare tutto, il corpo lo sentiva lasso a tal punto che forse non l’avrebbe vinto coi comandi del cervello, figuriamoci ragionare ancora su come farla franca, logorarsi con l’impegno di incastrare le parole giuste. Allo stesso tempo, non aveva nemmeno le forze per spiegare, iniziare la dichiarazione, sopportare sguardi schifati, sdegnati per il criminale ch’ era. Concluse dunque che sarebbe stato felicemente un pedone delle cose, e che avrebbe lasciato ad altre forze il corso degli eventi.
-Ora che ci penso…- cominciò con una faccia tosta insopportabile- Non mi ricordo nemmeno come mi
chiamo.
L’infermiere sospirò di nuovo. Pensò che quella era l’ottava persona pazza che incontrava quella sera, e si chiese ancora una volta perché gli uomini impazziscano all’ospedale. Iniziò anche ad avere sospetti sul suo reale coinvolgimento agli attentati. Dopotutto Ettore, seppure sui trenta, aveva un’aria piuttosto trascurata, poteva plausibilmente trattarsi di un ubriacone che qualcuno aveva avuto l’idea (probabilmente buona) di pestare.
— Senta, lei è sicuro di aver avuto a che fare con gli attentati?
— Vorrei vederlo morto quel pezzo di merda, guardi qui- si toccò la fronte- forse ho un edema cerebrale.
— Cristo santo…- imprecò l’infermiere sull’orlo di una crisi nervosa- senta un po’, aspettiamo i risultati della tac.
Ettore fu trasportato in una sala piena di gente incidentata, qualcuno era ferito appena, qualcun altro invece soffriva sul serio. Erano tutte sue vittime. Si sentì come fosse il suo compleanno.
Attaccato alla parete un televisore mostrava il servizio speciale sui fatti accaduti, dicevano che mancava poco, che le indagini stavano ormai per concludersi, l’avrebbero catturato.
— Nemmeno al cinema ormai si può andare — disse uno — questo mondo è da buttare.
— Ha ragione! — strillò Ettore, come avesse sentito la cosa più geniale da trent’anni a questa parte.
E rilanciò, dimostrandosi il miglior attivista del gruppo:- E i bambini? C’erano pure dei bambini, che colpa ne hanno loro?
In sala annuirono tutti, Ettore aveva ragione.
— Come si fa ad odiare così? cosa devi avere in mente per odiare con questa forza? — domandò una ragazza che teneva il braccio dolorante sotto il seno.
Andarono tutti in subbuglio, si scatenò un vociare confuso e colmo d’ira, d’incomprensione. Riuscì a placarlo solo l’arrivo di un altro degli infermieri. Intimò di far piano, c’era gente che stava messa peggio è che doveva riposare. Poi s’avvicinò verso una donna, un personaggio dall’aspetto visibilmente discorde dal resto del gruppo, per tratti e per comportamento. Era una donna non più giovane, ma con un volto così delicato che, si percepiva , il tempo faticava a rovinarlo. Erano le sue forme troppo lontane dal mediterraneo: viso pallido, capelli fioriti in un lontano nord, e soprattutto occhi sottili, come modellati dalla tristezza che miravano e avevano centrato il vuoto.
L’infermiere dovette chiamarla più volte.
— Signora Kozlova — le diceva forzandosi d’essere delicato — la prego, questa sala è per i pazienti, venga con me.
La donna si alzò, lentamente, come una rara creatura cui hanno disturbato la quiete; raccolse la sua borsa è seguì l’infermiere senza guardalo in faccia.
— Posso domandare a qualcuno se ci sono delle novità? — chiese
— Certo, venga con me, l’accompagno io.
I due uscirono, con gli occhi di Ettore puntati verso di loro.
— Cos’è successo alla signora?- chiese ad un tipo accanto a lui col viso gonfio.
— Suo marito è quello a cui è andata veramente male.
— Cos’ha?
— È finito in coma.
Ettore aveva ovviamente già previsto e calcolato la gittata delle sue azioni, era consapevole della reale possibilità di togliere vite, e comunque aveva scelto di agire. Eppure ora voleva saperne di più, voleva scoprire chi fosse quell’uomo che per suo arbitrio rischiava la morte; se non propriamente per rimorso, per una viscerale curiosità.
Allora subito la seguì, quasi strisciando per vincere il suo corpo rotto. Vide i lunghi capelli sparire nella porta d’uscita. Fortunatamente attorno non c’era personale medico, ne approfittò e si fece strada fino a ritrovarsi fuori, in una sala d’aspetto staccata di poco dal pronto soccorso. Era d’un bianco sporco ammattonato su venti metri quadri, con i neon che spargevano illuminazioni fioche, a intermittenza, e le panchine scomode, scientemente anti-clochard. Tutto pareva dire che sarebbe passata una metro da lì.
Cucciata nella sua solitudine, giocava coi suoi capelli a scaccia pensieri, quella povera donna. Ettore le si accostò accanto, due posti più in là, finché non esplose la sua invadenza, prima col lo sguardo, fissava infatti quel suo volto pallido che diventava celeste negli occhi e si componeva d’una malinconia mariana; poi con le parole.
— Ha avuto notizie di suo marito, signora?
Gli si voltò, spogliandosi il profilo destro dai capelli.
— Sì — sorrise — la dottoressa mi ha detto che ha già piccoli scatti… muove le mani, vuole svegliarsi.
— Mi fa piacere — le rispose, senza negarsi ch’era vero.
Caddero subito nel silenzio, Ettore già non sapeva cos’altro dire.
— Pure io stavo rischiando grosso — balbettò insicuro
Lei abbozzò una faccia dispiaciuta, Ettore riascoltò le proprie parole e s’imbarazzò.
Sorprendentemente però fu lei a prendere parola.
— Lo sa perché è in queste condizioni mio marito? — domandò.
Ettore scosse la testa, educatamente, impegnandosi a formare l’espressione di ascolto migliore che conosceva.
Lei pensò un attimo a come iniziare il discorso, poi scoppiò in un’inaspettata risata.
— Scemo com’è, si è messo a farmi scudo tra la folla, per lasciarmi passare.
— È una cosa bella invece.
— Certo che è una cosa bella- rispose di scatto la donna- solo che quella a cui faceva scudo non ero io, ma una ragazza che aveva i capelli del mio stesso colore- spiegò ridendo, ridendo e lacrimando, fino a contagiare Ettore in entrambi i sensi.
— E lo sa — continuò — cosa ha avuto modo di dirmi in quell’inferno? Che la colpa è mia perché sono bella mi si scambia per una più giovane.
Ettore scoppiò definitivamente in una risata incontrollabile, dovette pure scusarsi, più d’una volta.
— Non si scusi, lui è così.
— E come si è fatto male?
La donna respiro un attimo e s’asciugò una goccia dalla punta interna dell’occhio, come a volersi stabilire.
— L’hanno travolto, proprio dopo avermi detto questa cosa. Io sono rimasta lì — non sarei andata da nessuna parte senza di lui — in un angolo, aspettando che tutti fossero andati via, per soccorrerlo. E alla fine s’era scoperto che era solo una bomba buttata a vuoto, per fare spavento. Lui era lì, a terra, inzuppato di sangue…
La voce risuonava di nuovo rauca ora, Ettore si sentì in dovere di consolarla.
— Non pianga, la dottoressa non le ha detto che vuole svegliarsi?
— Sì, è vero. Mi ha detto che nella sfortuna è stato fortunato, poteva andargli molto peggio.
S’incoraggiò un poco, era evidente. Così Ettore volle corroborare questo suo stato.
— Deve essere un bel personaggio suo marito.
— Lo è — disse fierissima-, mio marito è un comico infatti.
— Ora è tutto più chiaro. È italiano? — l’accompagnò Ettore.
— Sì, ci siamo conosciuti a Firenze ormai troppi anni fa. È piuttosto famoso sa? ha fatto uno spettacolo che ha riscosso un certo tipo di successo.
— Mi piacerebbe vederlo.
La donna ci pensò un attimo, poi tirò fuori il telefonino, digitò qualcosa e lo avvicinò a Ettore. Una scritta presentava il filmato: “Il pollo quando cammina crede di volare”.
Apparve un uomo sulla cinquantina, che delle scritte a piè di schermo chiamavano Riccardo Rotti. Era basso e grassoccio, sudato ancor prima di cominciare il suo spettacolo, con un simpaticissimo accento toscano che già alla prima battuta era riuscito a galoppare il pubblico e a farlo cascare in una risata senza ritorno. Man mano che Ettore s’immergeva nella visione, si ripeteva che quello era un grande spettacolo, sorprendentemente progressista, sbagliato e da stronzi ( uno dei suoi sketch si chiamava “ Bestemmie filosofiche”); cervellotico e che non concedeva sconti a niente e a nessuno, distruggendo sapientemente tutti i grandi temi contemporanei. Si trattava di un uomo intelligente, molto cinico e per questo di un’idiosincrasia incantevole verso le stucchevolezze che in realtà era in grado di concepire per sua moglie.
Aveva qualcosa di rassicurante l’ironia di quell’uomo, di terapeutico. Tanto che quando la signora stava per staccare il filmato, Ettore le chiese se avesse potuto continuare a guardarlo. Lei ne fu palesemente orgogliosa, dunque l’assecondò. Entrambi si misero più comodi e continuarono la visione fino alla fine.
— Signora — cominciò Ettore
— Dimmi, stai male?
— No non è questo. Vorrei farle una domanda. A lei è piaciuto Il Mattatoio?
— Mi sarebbe piaciuto di più se non l’avessero interrotto- fece- comunque sì certo.
— E al signor Rotti è piaciuto?
— Certo che gli è piaciuto — rispose un po’ confusa
Questa avrebbe costituito indubbiamente un’altra delusione per Ettore, non che ci sperasse più di tanto, ma la domanda la fece come se stesse tentando un’ultima volta di giocare col caso, con la fortuna; quindi non aveva più spazio per delusioni. La tristezza e quell’immondo vuoto non li sopportava più ormai, non aveva più forze per reggere nuovi sconforti. S’abbandonò.
— Non lo trova umiliante? — domandò
— Cosa?
— Il fatto che quel maledetto film non possa non piacere.
— Non saprei…credo di no, ma forse non ho capito il senso della sua domanda.
— Voglio dire, il fatto che ci sia qualcuno che sia in grado di far cose simili, di sapere.
Tacquero, lei in un silenzio confuso non sapeva come leggere quelle domande.
— Però credo che lei andrebbe d’accordo con mio marito
— Davvero? Perché lo dice?
— A mio marito piace un sacco quel film, oggi infatti l’abbiamo visto per la terza volta. Però dice che detesta il fatto che gli piaccia, e ogni volta se ne esce con una delle sue. Dice che se il nostro cane sapesse perché diciamo… ”gioca” con l’orsacchiotto che gli abbiamo regalato, avremmo uno zoo di raffinatissimi peluche a casa.
* * *
Ettore, che seppur molto alto non era mai riuscito a sfiorare gli ottanta chili, avrebbe scommesso che adessone pesava almeno cento tanto si sentiva la testa greve; ma preoccupazioni non ne aveva, né paura; si sentiva, mentre si faceva spazio per raggiungere il povero infermiere, sereno come ormai non ricordava. La sua testa pesante veniva equilibrata dal pensiero delle parole del signor Rotti. Andò dritto dall’infermiere, armato di un sorriso piuttosto fuori contesto, e vide che questo era ancora tutto nervi e ad un passo dall’esaurimento nervoso per il trambusto dell’ospedale. Questa volta, non tanto per dispetto ma per una innocente marachella,decise che proprio lui doveva essere il prescelto, proprio a lui infatti avrebbe rivelato tutto; con lui si sarebbe costituito, così che l’avrebbero messo a posto prima di scontare i suoi guai. Si sentiva, come sereno e pronto a pagare l’intero scotto umano.
— Allora, compare — cominciò. Ma quello non l’ascoltava — Compare ascoltami, abbiamo trovato il terrorista.
Che per inciso sarei io, mi aggiustate e dopo mi mettete in galera o devo fare tutt…
— La smetta — tuonò l’infermiere — c’è appena morta una persona per questa cosa e lei ci scherza sopra?
— È morta una persona? Chi?
— Un uomo — disse, tornando poi a leggere le sue scartoffie.
— Come si chiama?
— Ri… Ma cosa gliene importa?
Più tardi con gli occhi rossi sangue, con la realtà ormai fuori mano, impossibile d’acciuffare, Ettore avrebbeinsultato i due uomini in divisa. Gli avrebbe detto ch’erano tra gli uomini più stupidi che avesse mai incontrato, e che se pure era senza documenti, sarebbe bastato fare una ricerca on line per scoprire che lui era Ettore Falà; ma che questa era un’idea che avrebbero potuto avere anche loro se non fossero stati così irrimediabilmente stupidi. Soprattutto avrebbe pensato, ora più che mai, che Lella non l’avrebbe rivista per molto tempo. Però si consolava: chi mai gli avrebbe potuto impedire d’immaginare il suo prezioso nonsenso?

Andrea Bollini
Andrea Bollini, collabora con diverse realtà legate alla cultura e all'intrattenimento. Per Argo gestisce la rubrica Mixis.