Mixis#20 | Giulia Dello Buono illustra il racconto di Daniele Contavalli

Mixis#20 è l’unione partecipativa fra il racconto di Daniele Contavalli e l’illustrazione di Giulia Dello Buono

Con Mixis#20 l’incontro fra questo lungo racconto e una soleggiata e nostalgica cartolina marina, la rubrica Mixis mette in pausa il suo laboratorio creativo fra le diverse forme del dire e dell’immaginare e saluta i suoi lettori fino a settembre. Una vacanza come stasi della contemplazione.

 

COMPRO ORO

È tutto dentro la macchina.
Scatolette, astuccetti, sacchetti, scrigni e porta gioie, tutto lì dentro ammucchiato, ma alla fine a ben guardare non è tutta sta roba. Si tratta di ninnoli, gioielli e anellini, di orecchinetti con qualche brillo astuto sopra.
Li dobbiamo vendere, Mara deve vendere.
I soldi non ci stanno più, le tasse sempre di più, invece.
Per cui oggi si va da Compro Oro, e non è la prima volta.
I figli costano, la vita costa e oggi si vende altre robbine.
Per cui si prende quella strada che di solito facciamo per andare al mare, alberata e bella, sui lati un grosso supermercato, poi il centro commerciale, basso e tutto pieno di banche, uffici e negozi e poi c’è Compro Oro.
Ci siamo già stati, non è la prima volta e non sarà l’ultima, almeno fino a che Mara tira fuori tutte le rimanenze che ha. Io non c’ho niente. Vita ruvida la mia e tra poco non metto neanche l’orologio, porto un vecchio Swatch, da sempre.
Ha detto però che non venderà tutto, Mara, che tanto passa prima, che tanto le cose andranno meglio.
Magari c’ha ragione.
In macchina saliamo un po’ gasati, non sembra neanche che andiamo a venderci gli ori.
È estate, è caldo. Lei ha le braccia belle, ma tutte scottate.
Dentro Compro Oro fa freddo. La stanzetta è ghiaccia per colpa del condizionatore, che è sempre acceso e canta questa nenia eskimo fatta di un respiro continuo e meccanico.
Il condizionatore sta in alto, e ci scarica aria addosso le sue furie, i suoi aliti in modo continuato e deleterio. L’altra volta non sono riuscito a rimanere fino alla fine della contrattazione e me ne sono scappato.
Stavolta mi sono portato un giubbottino e me lo metto prima di varcare la soglia del locale.
Lei c’ha le braccia belle e ride, e scherza perché non vuole pensare a quello che fa, la strada sembra che ci corra incontro. Non ci piace. Poi la fila,.. a quest’ora del mattino la fila? E perché? Poi si vede l’incidente, davanti a noi.
Si va a passo d’uomo, Mara non ride più. Porta le mani alla faccia perché vede per prima il botto.
Lo vedo anche io ora. C’è uno dentro la macchina e un infermiere gli fa il massaggio cardiaco. Mi metto a pregare, subito, dentro di me. Mara la fa la preghiera, la dice.
Gli vado dietro. Poi la preghiera finisce.
— Oh Dio, poveretto!! Non l’avevo mai vista una cosa così! —

— Anche per me,….si,….mi sa che è la prima volta. —
In realtà di incidenti ne ho visti tanti, mentre succedevano o appena avvenuti, ma non mi è mai capitato di vedere in mezzo alla strada un massaggio cardiaco. Sa di cinema. Sfiliamo ai lati e costeggiamo il disastro. Due piedi immobili escono da una lettiga dentro l’ambulanza.
Mara non riesce a distogliere lo sguardo.
— Va dritta se no infrociamo pure noi. —

— Sta calmo!, …mamma mia poveretti! —
— Dai, tira via che tra poco devi girare; se non stai attenta ci prendiamo il rosso. —
— Sempre la solita fretta, ma che devi fare stamattina?! —
— Nulla. Sto qui con te mi sembra, però voglio fare presto. —
— Mmm, …Poi lo so, vuoi andare al mare. Non lo so se ci vengo, …devo capire cosa vuole fare Carlo. —
— A sto ragazzino gli fai fare quello che gli pare. —
— Marco è come te, è più rigido, …Carlo è come il dio del vino, quello delle nostre sbronze da ragazzi, te lo ricordi il dio del vino? Marco è più misurato.-
— Lo so. – MI ricordo del dio del vino e di te, e di me persi in quelle birrerie a far tardi e a prenderci sbronze. Adesso non lo facciamo più. Il dio del vino è bello che andato, da un pezzo. Adesso si va da                   Compro Oro.
— Si, pensa troppo come te. —
Ride mentre lo dice, e svelta prende la rampa e sale sul piazzale davanti a Compro Oro.
È una scatoletta, una porta con vetri spessi e scuri, un piccolo Fort Laramie con il citofono e l’ingresso in pieno sole, e fa già caldo.
C’è gente dentro. Tocca aspettare lì fuori.
Guardo quella cariola che è la sua macchina, tutta graffiata, e non è che la mia è meglio, anzi, ma la sua è grigia e i segni sono più visibili.
La prendo sempre in giro per come tiene la cariola, e lei ci sta allo scherzo perché è vero, non c’è un pizzico di spazio dietro, ovunque riviste, buste e cartacce; non la pulisce mai, da non so più quanto non l’ha lavata.
— Mi vendo sta carretta, così mi riassetto con lo stipendio. Non ce la faccio a stare così sotto, mi sono stufata. —

— Tanto non dura. —
— Non fare così, ti prego. —
— Non sono disfattista, ma tanto le cose vanno così,..da tanto. Non ce la fai a limitarlo Carlo, i libri di Marco costano, tutto spinge e i soldi non entrano, …comunque vedi un po’ tu. —
— Eh già, tu non c’hai niente da vendere, nulla. —

Mentre la macchina correva vedevo tutti quei negozi correre insieme a noi, e ce n’era qualcuno chiuso. Un tempo era una cosa impossibile vedere un esercizio, una boutique, una bottega chiusa a lungo. Adesso è sempre più facile, sempre di più; inoltre non riapre subito, non c’è un cambio di programma, quasi un clic su una nuova possibilità, si tratta invece di chiusure lunghe, talvolta senza fine, di strascichi nel paesaggio, di saracinesche grigie che lo dimostrano sempre di più. Non c’è più scampo.
È come chi perde lavoro, altroché mobilità, se lo perdi non lo trovi lavoro, se non ce l’hai rimani così, sospeso a vita.
Sembra che la realtà non si sposti più in là di se stessa.
Tempo presente, già nero di per se, senza altro silenzio che quello sguardo fatto di ferro, di metallo della serranda abbassata. Poi se riaprono, è un cinese quello che appare sulla soglia, un thailandese e mai più un italiano.
È un mondo diverso. Non ci sono nato così, non era così, era diverso.
Non è che mi dispiace che altri vengono qui; ma dove sono finiti gli altri? Dico quelli che ci stavano prima, quelli che i cinesi hanno sostituito. È un altro mondo e non mi ci abituo. Non credo che è migliore, non troppo vedo.
Adesso siamo qui al Compro Oro e lei c’ha bisogno, noi c‘abbiamo bisogno.
Fa freddo qui.
Secondo me le riviste che ci sono sul tavolinetto sono studiate apposta, sono piene di tettone o di calciatori pieni di medicine dentro le vene e i muscoli, sono gonfi come cotechini. Nessuna è fatta per pensare. C’è poi la rivista del quartiere, in più copie, le altre tutte stese ordinatamente su un mobiletto basso.
Mi lascio correre l’aria addosso, mi sento già stanco e sono le prime ore del mattino. Anche lei è stanca, ma sta in piedi.
Tratta. Vuole qualcosa di più. Ma è inutile e lei lo sa. Non partecipo mai alle contrattazioni, le lascio scivolare su di lei, se ne occupa bene, è tutta “robba” sua. Io che c’entro. Adesso entra uno, è tutto unto, sa di viscido, con i capelli sfatti, girati addosso, dico sulla testa, e che volto, la faccia di uno che non se la passa bene. C’ha un pacchetto liso, dentro sicuramente ci saranno dei valori. È guardingo, e la sua barba è di chi non se la fa da più di una settimana. Mi fa schifo il fatto che non ha la pelle abbronzata, d’estate stona, mi fa malattia. Saremo poveri ma al mare ci dobbiamo andare, ricarica per l’inverno.
Lo guardo e mi guarda. Mara spicciati mi dico e quasi quasi glielo dico, ma poi mi lascio andare e vago per quella scatoletta fatiscente con i miei occhi e mi diverto ad immaginare cosa c’è dietro a quella paratia di plastica rigida che fa da separé tra l’impiegata, la donna con i capelli neri, da zingara che si trova al di là e che tratta con Mara. C’è sempre lei che traffica, che pesa anelli, brillocchi e ogni genere di luci d’argento e oro. Sono diverse le volte che veniamo qui, che lei viene qui. Il fresco mi prende dentro, mi ci lascio andare come fosse acqua corrente. Poi però l’effetto benefico passa, accade di solito verso la fine della trattativa. Mara è nervosa quando finisce. I soldi non compensano la perdita delle “robbe”. È tutta “robba” di nonne, di mia suocera, di papà e di zie e zii, di quando le cose andavano bene, robbe di matrimoni e comunioni, battesimi. Quando si ritrae dalla finestrella e vedo bene la “zingara”, questa diventa come una Santa sbagliata, si delinea nella finestra come fosse un’immagine sacra, ma tiene stampato sul volto uno sguardo per metà distaccato e per l’altra metà soddisfatto, di chi sa che tanto ai da tornà!!
Mara anche lei ha la faccia divisa in due parti. Da un lato c’è la stizza e il senso di colpa, ed è rossa, dall’altra invece ha una faccia ancora bianca, di chi ha vinto in qualche modo, di chi ha racimolato il giusto compenso, il grano mietuto è quello che gli serve.
Mentre sostiene queste due facce fatica a rimanere in equilibrio. Gli succede sempre. Pallonzola all’indietro osservando la faccia distaccata e compiaciuta della mora dall’altra parte, se ne allontana senza dare le spalle come se quella potesse con un balzo trapassare il vetro spesso, antiproiettile che le separa e arrivare in un attimo dall’altra parte, e ghermirla, riprendersi il suo denaro e tornare come per incanto dall’altra parte.
Resto sempre sulla poltroncina a guardare questa scena, poi Mara si riprende e si sgancia. Mi guarda attonita e mi passa le mani nei miei pochi e radi capelli, come fossi un barboncino buono.
— Andiamo, ho fatto. —
— Siamo soddisfatti?! — Faccio io parafrasando la battuta di qualche film americano, e lei mi fa: — Siamo soddisfatti.  — Ma a me non pare per niente. Quando usciamo faccio sempre l’imitazione della body guard. Gli passo vicino felpato, come se tenessi una grossa pistola tra le mani, gli scivolo al fianco intorno, davanti e dietro a lei. Ride e si rià per qualche momento. D’altronde accanto a Compro Oro c’è un locale notturno, tipo scambio di coppie e streepteese, con un omaccione che sta li davanti ad ogni ora del giorno, a far poi cosa non si sa, ma che ha l’aspetto poco raccomandabile di chi è temibile, di chi può far male all’occorrenza. Inoltre appena fuori si fanno avanti lateralmente due o tre individui, una donna anzitutto, alta e ben messa, con occhiali neri, spessi e duri. Fa ingresso per prima e mentre entra si gira di scatto come per vedere chi la guarda, chi potrebbe farsi sotto per crearle qualche problema. I due che seguono stanno insieme, ma per far che non lo so. Smetto di fare il cretino, dico il finto body guard e prendo Mara sotto braccio, risoluto come se da quei tre potesse scatenarsi un ipotetico fattaccio di cronaca nera. Ma sono solo paranoico perché quelli non sono poi tanto diversi da noi e l’ipotesi di una rapina mi fa vedere solo quanto sono malato, e per fortuna che me ne accorgo.

Ci ficchiamo in macchina che già il caldo si è ripreso tutto l’involucro della “cariola”.
— Andiamo al mare, allora? — Me lo dice con il sorriso addolorato di chi si è appena separata da un altro pezzo di storia, di vita personale. Forse vuole dimenticare gli ultimi dieci minuti avanzando con la fantasia tutti e due i nostri corpi sul bagnasciuga; lo sa che amo il mare e in questo l’ho sicuramente contagiata. I figli stanno a casa, forse. Perché tornare? Inoltre d’estate teniamo sempre dietro i sedili posteriori asciugamani e costumi, tutto pronto per la fuga alla spiaggia. Viver vicino al mare è la nostra unica vera ricchezza, l’unico lusso.
— Andiamo. — E sorrido divertito. Siamo sul limitare della strada che costeggia Compro Oro. Le macchine scivolano sul serpente bucato della strada che porta al litorale, in entrambe i sensi di marcia, come se le spire del serpente fossero corse alternativamente da avvolgimenti in un dinamico moto opposto, frenetico e molto variopinto. Dentro la “cariola” aspettiamo il nostro turno. La bacio e mi bacia. — Sono 275, comunque. —
— Bel colpo amore mio! —
— I turchesi e il brillante di nonna Gisella valevano qualcosa.- Lo dice in modo nostalgico. Lo dice in modo addirittura triste, poi però ride nervosamente e sospirando rilancia: – Si va al mare, ci cambiamo sulla spiaggia. — E gira a sinistra e non a destra, e guarda a destra e non a sinistra per evitare una possibile insidia. Poi scatta veloce senza sentire se ho qualcosa da dire sulle sue recenti scelte. Ma non mi metto certo a contestare. I figli forse stanno a casa, i figli forse non ci sono più, adesso. I figli se ne vanno e sto ancora con lei e carezzo la sua coscia bianca che sporge fuori dalla gonna, e carezzo, sfioro il suo capezzolo rosa, di profilo accanto a me sotto la sua T-Shirt. Guardo la strada e le macchine che ci stanno davanti. Sorrido perché la giornata è bella e le nostre penurie non ci hanno ancora vinto. Sento uno strano rumore da dietro. Mara mi guarda con una smorfia di dolore. – Che cazzo è!!- Sarà quello dietro di noi che ha toccato con il parafango il dosso, spero. Poi la macchina ha un sussulto, come lo stolzare di un bambino che ha inghiottito troppa carne e rischia di soffocare durante un pasto convulso. Il rumore si fa metallico e la “cariola” strascica se stessa, lo comincia a fare mentre qualcuno ci suona da dietro come per ricordarci che nessuno ha preso un dosso e che noi siamo ancora a bordo della nostra macchina e che è lei che si è comportata male, che si è fatta la “bua”.
Poi strascichiamo “robbe”. Da sotto si sente che pende qualcosa e poi dico: — “Accosta!!” —
Lo fa guardando rapidamente ogni direzione. Scendo e vedo che il parafango si è staccato, vedo che una ruota è andata, la macchina è sbilenca a sinistra, tutta gobba gobba.
Mara non si muove. La sua testa è appoggiata al volano e le mani sono l’una accanto all’altra, come in preghiera. Mi avvicino dalla parte del finestrino e da lì passo la mia mano sul suo viso affilato. La carezzo e lei si mette a ridere, poi trasforma lo sguardo divertito in una maschera di dolore e afflizione. Scende, si mette seduta sul marciapiede e mi guarda, ride e poi di nuovo le mani a pregare, a chiedere di infiniti perché e per come e piange di nuovo e le mani sembrano passare dalla preghiera all’imprecazione. Si è ricordata qualcosa.
— Non abbiamo ruota di scorta! — mi dice.  — Come non c’è il ruotino!? Ma che dici! — Esaurisco la mia pietà. Tutto insieme non ci vedo più, adesso fa caldo, il mare è lontano, i figli sono remoti esseri da non considerare, esistono solo nel mio, nel suo passato remoto.
— Perché non hai la ruota!? —
— Perché le macchine rumene spesso non ce l’hanno, e questa è una cariola rumena. Quando l’ho presa tu non c’eri. L’ho comprata e mi dissero che il ruotino era da aggiungere, poi….sai che viaggi!! Da casa a lavoro, porto i ragazzi e poi c’è la tua di macchina, e poi, …ma che ti dico, …mi sono scordata di comprarla.
— Quindi niente cric, niente sostituzione! —
— Già, …e quindi prendi quel cazzo di cellulare e chiama il carro attrezzi!! — Mara è andata da Compro Oro per pagarci un bel viaggio dal meccanico. Magari c’è posto per noi a bordo e non dobbiamo farcela a piedi .—
— Sai le risate di quei due paraculi quando ci vedono arrivare così! —
— Già. — Mara mentre lo dice torna a ridere ed io la seguo. Ci mettiamo l’uno accanto all’altra seduti sul marciapiede. Le macchine sfrecciano davanti ai nostri visi come strani animali di un paesaggio astuto. Ogni tanto qualcuno rallenta per farci sentire come due idioti, e forse lo siamo o la situazione è idiota.
Chiamo il numero giusto che fa al caso nostro. Una voce simpatica e dialettale mi dice che sarà li tra breve.
— Insomma stì soldi te li sei fatti dare per il carro attrezzi. —
— Già. — lo dice come in trance, mentre fissa un gruppo di nuvole nivee che sono troppo basse e che coprono momentaneamente il sole. — Adesso voglio proprio vedere quanto si porta via il meccanico e il mezzo di soccorso. —

Il carro arancione, ammaccato un po’ dappertutto arriva mezz’ora dopo. L’uomo scende e ci guarda divertito.
— Aho, …ma che sfiga che c’havete. — È vestito con una tuta da lavoro grigio metallizzata, sembra un astronauta. — Non è che è un gran danno; vi costo mi sa più io che il gommista e il mio capo all’officina. Il parafango mi sa che è la parte più costosa. La ruota la trovate anche usata, Signò. —
— Si, ma stavolta compro pure il ruotino e la spesa è doppia — Mara si gira e mi guarda. — Ecco dove vanno i soldi di zia, in bocca a st’astronauta!! —
— Ah Signò, …l’officina mia è verso il mare ma se abitate qui vicino vi lascio a casa. Mi sembra di capire che siete del quartiere. Uno strappo ve lo do. —
— Magari, …te ne saremmo grati. Poi mi dai l’indirizzo e vengo io a riprenderla. — Gli dico questo risoluto, desideroso di chiudere la faccenda e magari di muovermi poi con la mia di macchina per cercare un gommista affidabile che mi venda tutto ad un buon prezzo.
Mara ancora non si è alzata. Se ne sta sconsolata a terra, con il suo bel sedere appoggiato sul guardrail. Poi all’improvviso si riprende. Si stira e mi passa il braccio sotto le mie ascelle, infila una mano sotto la maglietta e mi solletica. Guarda divertita il meccanico che armeggia con cavi e argani di trasporto, che con fare deciso si incolla la cariola sul suo camioncino. So che pensa qualcosa. Mi guarda divertita con l’espressione di chi la sa lunga. Mi bacia e poi si sgancia. Zampettando si avvicina all’astronauta.
— Ma se lei va verso il mare, …che ce lo da un passaggio alla spiaggia? — La guardo strabiliato e sono contento di avere sposato questo portento di donna.

Lei sta in mezzo. Siamo l’autista, Mara ed io.
Corre il camioncino e ogni tanto mi giro a guardare la macchina, adagiata come una preda sul pancone in metallo, saldamente ancorata da tiranti che ogni tanto stridono, che sembrano mollare per i tanti scossoni dovuti alle buche sulla strada.
C’è traffico e teniamo i finestrini aperti. Ancora non siamo arrivati ai deliri di metà luglio ed agosto, ancora si respira ma la gente va al mare e la strada è piena di ogni genere di automezzo e veicolo, ma si cammina.
Passiamo vicino alla vecchia pineta, così è chiamato quel tratto dove fino a pochi anni fa sorgevano pini centenari e una accogliente e brulicante macchia mediterranea. Ora non c’è più nulla, i pochi alberi rimasti sorgono come monumenti in mezzo a tutta una serie di cantieri, di strutture che furbescamente hanno sostituito quel polmone verde.
Solo nel tratto finale della strada è rimasta una cintura di alberi, ma è l’ombra di quella selva che prima si stendeva per alcune decine di chilometri verso il centro abitato e che si congiungeva attraverso di essa con la spiaggia.
Tutto finito.
— Ah Signò, …io vado verso sud di un paio di chilometri. Le dicevo che sto proprio sul renile, da una parte ci sono tutta una serie di bagni, ma davanti a me c’è pure un briciolo di spiaggia libera; garantisco che nun c’è tutta sta zella, ve potete da bbuttà lì! —
— Grazie. Credo che io e mio marito seguiremo il suo consiglio. Non siamo tipi da lettino e cabina. C’è sempre bastata la sabbia. —
— Già. Un asciugamano per mettermi o togliermi il costume, e via! — Faccio sorridendo
— Dacci il tempo di tirar giù pezze e stracci nostri dai sedili di dietro del “bolide”e ce ne andiamo. —
— La machina ve la faccio subbito, la schiaffo subbito subbito sur ponte. Mi date il numero der cellulare e poi, al momento giusto vi chiamo e ve la servo come fosse un cornetto alla crema. —
— Che costa un botto!! — Fa Mara guardandolo sorniona e divertita.
— Ah Signò! Cercherò de fà bbene anche lo scontrino fiscale,….vole ah fattura? —
— Per me te la pago in contanti, visto da dove veniamo i soldi alla fine so quelli, …dico quelli che abbiamo sul serio. Il bancomat è ito da una settimana e la carta di credito è pericolante, vero Mà? — Guardo lei rossa in viso e poi micio, micio guardo lui, e lui gatto, gatto(grosso, grosso) fa. — Va bbè, un prezzo invisibile per un pagamento fantasma. —
— Magari! — Mara si illumina e siccome la conosco, spera sicuramente di salvare una parte dei soldi presi da Compro Oro. Lo spero pure io.

Il posto dove il tipo, il meccanico vive e lavora è strano.
Uno si aspetta una palazzina sulla spiaggia con sotto, magari tra i vari negozi, anche il meccanico, ma non è così. C’è solo l’officina con un piccolo parcheggio recintato da un muretto con all’interno relitti di macchine lasciati a bollire sotto un sole perenne, d’estate e ormai anche d’inverno. A quest’ora il sole è implacabile. Erbacce qua e la e bidoni degli olii combustibili. Un ragazzetto a torso nudo, sporco d’olio si muove con una pinza e un martello in mezzo alle auto. L’officina troneggia rispetto alla spiaggia. Un hangar non piccolo, con due ponti, un ufficietto e il bagno, lo spogliatoio annesso. Su un muro pubblicità di marche di lubrificanti, di macchine di rango e non, poi sull’altro calendario con la classica ficona a cosce larghe. Tutto da manuale.
Scendiamo e Mara si affaccia per prendere gli asciugamani; ficca tutto in una borsa. Do le chiavi al tipo e lui mi da un biglietto da visita con il suo cellulare.
—Ti chiamo subito, così salvi il mio. —
— Va bè, nun te preoccupà, cercherò de favve un prezzo bbono. se non artro ppe ll’occhi de sta bella signora. —
— Grazie per il complimento! — Gli sorride e sbatte forte gli occhi azzurri, poi però si chiude le braccia intorno ai seni con fare prudente; fa la civetta e si attacca a me, istintivamente al mio braccio e così andiamo verso la spiaggia.
L’acqua è calma, mattutina. È verde l’acqua, a tratti stinge in un blu intenso e guardando gli occhi di Mara concludo questo sguardo fatto di beatitudini. Via la maglietta, via ogni indumento, solo il costume e la voglia di sole.
In lontananza, più lontano possibile passa una superpetroliera con la sua grigia effige, con quella superficie d’ombra con cui incide il mare e il cielo.
Mara si siede accanto a me. Non è il primo sole dell’estate, è chiara la sua pelle ma non bianca come un mese prima, quando siamo venuti la prima volta. È una pelle deliziosamente brulè la sua, io non temo il sole, lei si.
L’ora non è ancora così calda e qualche nuvola carezza la spiaggia con la sua ombra gentile. Folate d’aria più fresca ci attraversano. Sta seduta con le gambe piegate: il suo seno, le braccia sono appoggiate su di esse e la testa, dalle ginocchia mi guarda sorridente.
— Sarebbe bello se sparisse tutto — Glielo dico mentre con un dito cerco il suo seno sotto il costume. Cerco di stuzzicare, di arrivare a ciò che è nascosto, celato da quei lacerti di tessuto e da lei.
— Se sparisse tutto sapremmo cosa fare entrambi. — E mi sorride da gatta, maliziosamente. — Ma guarda la gente che ci sta! — E dicendolo si sdraia e mi mostra il corpo bello sotto quella luce forte. Oltre le sue forme vedo la spiaggetta che si rilassa, che si mostra per quel lembo dolce di terra che è.
Verso nord, sul bagnasciuga si spostano bambini in corsa alcuni, altri più lentamente verso lo specchio d’acqua; donne e uomini, ragazzi mossi in ogni direzione tra nord e sud, alcuni che si avvicinano a noi, altri rapidamente invece si allontanano. Verso sud, appena passata una cannucciata che fa da cinta, da sottile confine c’è uno stabilimento. Oltre di essa avverto i filari degli ombrelloni, uno schermo tenue tradito dal rombo malsano della musica, da quei ritmi estivi martellanti e inutili, un suono che invade l’aria e uccide la dolcezza naturale della risacca. Non ho mai avuto bisogno di colonne sonore nei luoghi naturali, ho sempre desiderato ciò che il posto mi offriva. Mara no, è diversa. Lo so per esperienza e adesso lo so anche dal suo piede che batte la sabbia, ribadendo quel ritmo. Intorno a noi il bagnasciuga è un susseguirsi disordinato di postazioni di bagnanti seduti, accosciati, in piedi, gesticolanti o statuari, qualcuno legge, altri con le cuffiette ascoltano e parlano a cellulari insolenti. C’è chi ostenta muscoli e corpi istoriati di idiozie e false identità, chi si bacia appassionatamente e chi inveisce con la moglie, il cane, i figli, il vicino o l’amico che non doveva portare con se, e mentre vedo tutte queste cose come in uno specchio girevole e rapidissimo, in una sfera di cristallo che ricopre la mia testa come un casco sento morire quella fugace possibilità iniziale di silenzio e beatitudine che mi ha, ci ha fatto arrivare qui. In fondo casa nostra era raggiungibile a piedi e qualcuno che ci portasse a riprendere la macchina lo trovavamo. Volevamo il mare, speravamo in lui per questo.
— Io entro in acqua. Fa caldo. —
—No, io no, aspetto un pochino. Vai tu. Poi mi dici. —
Non entra quasi mai con me, non subito. Gli ci vuole tempo, è delicata, è sempre stata così.

Metto i piedi in acqua . È fredda. Ancora meglio, è fresca e perciò accogliente. È quello che voglio. Tanto poi mi abituo e per certo si riscalderà. Entro un pezzetto alla volta, lento ma dopo che l’acqua mi giunge alla vita mi lascio andare e penetro lo specchio d’acqua che mi si staglia davanti, lo fendo e sotto di esso accolgo tutto quel mondo fluido, quella fragrante forza che immediatamente mi ha, che mi prende a se dappertutto.
È il mare.
Nuoto subito, prima sopra e poi sotto la superficie, mi allontano felice per una cinquantina di metri; tocco ancora e ci vuole altrettanto per sentire il vuoto e l’ombra della profondità. Mi lascio cadere come un rigido palo, pesante verso il basso, espiro la quantità d’aria che mi è rimasta in petto e sprofondo ancora, tracimo verso la piccola profondità sotto di me e affondo rapidamente con i piedi nella sabbia. Ne sono contento. Guardo verso l’alto e a polmoni vuoti risalgo rapidamente.
In lontananza la vedo sdraiata sotto il sole, la sua borsa e l’asciugamano con accanto le mie cose. Dietro la spiaggia si staglia il muretto che cerca invano di nascondere l’officina. Una nuvola si sposta proprio sopra di essa. Guardo verso l’alto. Mi piace da sempre lasciarmi andare così, in acqua. Resto qualche minuto a fissare quell’azzurro incanto. Dal mare arriva altissima la scia di un Jet, un onda mi ricopre e mi trasporta affrettata verso la riva, poi mi giro su me stesso e brandeggio e affronto quel ritmo, quel meraviglioso manto che mi trascina di nuovo in acque più basse, ormai troppo calde per me. Lì mi rialzo, mi sottraggo all’acqua che ricade dal mio corpo verso il basso.

— In fondo siamo venuti al mare con il taxi. Pensaci un po’, se non si rompeva la macchina magari non ci venivamo oggi in spiaggia. —
Mi sorprende con questa considerazione appena arrivo a sdraiarmi sull’asciugamano —
— Già. Un po’ costoso stò taxi però. Ne avremmo fatto volentieri a meno no?, che dici? —
— Già , ne avrei fatto volentieri a meno anche io. — Mentre si gira, si volge a pancia in su, a fissare il cielo sopra di lei. Ha di nuovo lo sguardo di Compro Oro, da una parte cerca di accettare l’ineluttabile, dall’altra lotta con esso.
— Almeno ci siamo fatti un bagno. Per lo meno fino ad ora me lo sono fatto io. —
— Adesso non mi va. Poi,…magari, se ti va ancora di farne un altro con me. Che ne dici se ci facciamo due passi? —
— Perché no. Non è una brutta idea. Te l’appoggio! —

Scivoliamo così verso nord, la passeggiata va sempre verso quella direzione, sia che si vada al mare al mattino, sia la sera.
È mattino e il sole arriva da est, ci sta alle spalle, e ce le abbronza. Camminiamo uno vicino all’altra, ogni tanto ci sfioriamo, ci prendiamo per mano. Qualche bacio. Poi le risa, poi i bronci di ogni conversazione, perché è così che vanno le cose, ogni tanto siamo corsi da forze contrapposte, anche violente, che mutano il ritmo o l’atmosfera, la temperatura tra noi.
Dal silenzio più netto al bisbiglio, alle parole dolci o amare, che ci attraversano come spiriti, ora benigni e ora maligni.
Intorno a noi famiglie, vecchi con bambini, donne giovani con bambini, bambini con bambini, ragazzi e ragazze, un mondo di torsi, petti e braccia, di sederi e tette, di grassi e secchi, muscolosi ercolini e toniche ninfette, un mondo di corpi stesi al sole, pieni di sabbia e unguenti, di ciprie e creme, lettini e sdraio, postazioni fatte di gruppi più o meno omo o eterogenei, corpi scuri, gialli o bianchi, carni meravigliose o tremendamente sbagliate. Ombrelloni con l’ombra strapiena di figure che mangiano, bevono e parlano, urlano talvolta e in certi casi riescono anche a tacere. Alcuni mangiano quantità industriali di cibi preparati, portati da casa in fagotti sfibrati all’arrivo in strada, altri invece, molti, assaltano la pagoda del bar di quella spiaggia e lì si stagliano, come strane specie di avvoltoi. Certe genti si muovono ed esistono come improbabili bonzi frutto di una arcana ascesi, alcuni inscenano strane posizioni yoga, poco convincenti per perizia e qualità tecnica ma assolutamente egocentriche e in certi casi anche seducenti. Mi piace camminare tra sabbia ed acqua, piace anche a Mara. La passeggiata è un rituale che è cominciato tanti anni fa, quando ci siamo conosciuti, quando siamo venuti qui la prima volta, è un rituale che non è mai tramontato.

— Arriviamo fino a quel gruppo di ombrelloni laggiù. Poi si torna. —
È quasi sempre lei che batte il ritmo del percorso, le distanze e le durate. Camminiamo con i piedi in mare, su due livelli, io sotto all’andata, lei sopra al ritorno. Per cui sono io adesso con i piedi, le gambe dentro l’acqua.
— D’accordo. Poi però ci facciamo un bagnetto insieme? —
— Se non è troppo freddo si. —
— Ma dai! La sento anche adesso che è calda. —
— Non mi fido. — E mentre lo dice mi sorride.
L’ultimo gruppo di bagnanti sotto l’ombrellone è un gruppo di gay. Se ne stanno stretti stretti ostentando un po’ quella loro appartenenza, quasi di casta o di cerchia privilegiata a secondo i punti di vista. Sembra che vogliano fare più gruppo di altri come per affermare chi sono e cosa si vivono a tutti i costi. Mi da l’idea che essere gay è come stare in un partito, in una chiesa, in una lobby, trust, connection. Non sono mai stato propenso alle leghe umane, di qualsiasi tipo, figuriamoci a sfondo sessuale, sembra che si debba solo pensare al sesso, o in altri casi solo alla famiglia, o al calcio, o alla religione o ad altro,che ne so, …arte, un hobby e quant’altro. Un gay non è solo quello e io non sono solo quello che sono. C’è tanto di altro in me. È come se certe persone, e non dico loro soltanto debbano viversi le cose solo all’insegna di un ossessione, tipo me e Mara con i soldi, che ci stanno a torturare di loro, visto che non lavoro a tempo pieno e lei pure non riesce a mantenerci tutti e quattro, specie in questo ultimo periodo. Sono i soldi il nostro Gay pride continuo, ma di certo non ci vestiamo da reginette o da macho man, ci manca il “grano”, e nessuno ci aiuta, dico nessun partito a stare meglio, di sicuro i gay no, che mi sembra in tanti casi se la passano meglio di noi. Ma forse mi sbaglio, forse sarò come dicono loro un omofobo, può darsi. Non esco con gli amici per affermare che sono etero, maschio. Accade invece che se esco solo con un mio vecchio amico, se me ne vado a mangiare con lui da solo oggi la gente pensa che quella è una coppia gay e non semplicemente una coppia di buoni amici. L’ossessione di alcuni diventa l’ossessione di altri, che certe cose non dovrebbero avercele proprio in testa. Il mio genere non è una lobby, è una semplice realtà. Naturalmente è da accettare quello sguardo voglioso che mi sorride tutto storto, di sbieco come a dire: “andiamo a farci un giretto dietro la duna”; ed io scosto il mio volto, lo porto in altra direzione come farebbe una bella figa osservata da un ragazzo, come facevo con Mara o con altre prima di lei. È una realtà di fatto che loro possono e fanno quello che noi facciamo con le donne, e anche loro lo fanno. Amen.
Mentre cambio direzione incontro lo sguardo divertito di mia moglie.
— Torniamo indietro va. — Me lo dice e gira di scatto su se stessa come una porta girevole, roteando sulle sue belle cosce. La prendo per i fianchi caldi e adesso il sole ci prende in pieno. Rifare la strada è avere il sole che adesso ti prende frontalmente. Rifare la strada è avere il sole in faccia, che ti abbaglia e stordisce, è rivisitare con gli occhi le stesse cose di prima, che non sono più allo stesso posto, che hanno cambiato tappa, luogo.
Altri stanno uscendo dall’acqua, altri entrano. Facce conosciute vengono da sud, corpi pieni tracciati da irreversibili segni scuri, colorati scendono in quell’acqua resa limacciosa dal numero ormai notevole dei bagnanti. Schiumette infette mi dicono di un mare che non c’è più, che esiste solo nella mia testa, nella mia memoria personale. Da piccolo mamma mi portava con mio fratello a fare i datteri, a raccattare le cozzette che si trovavano sulle secche, a pochi metri dal bagnasciuga. Adesso trovi solo i tellinari, li vedi arrancare e sprimacciare quei sabbioni esausti con i loro palarete, nella speranza di tirar su un raccolto decente che finisce subito in qualche ristorante della zona. Ma oltre le telline non c’è rimasto altro. Tirano su quel piccolo tesoro racchiuso dentro un barattolo, una lattina di vecchie confetture.

Arriviamo ai nostri asciugamani che il sole troneggia definitivo sopra le nostre teste, e ci guarda invincibile e puro senza alcuna possibilità di essere coperto da uno straccio di nuvola misericordiosa.
Lei non ama il caldo, io sì.
— Avrà fatto,…eh?! Che dici?Avrà risolto il problema, così gli lascio anche “sti pori” soldi e ce ne torniamo a casa. —
— Non credo, sarà passata un’ora e mezza, al massimo due. Se vuoi vado a sentire. —
Si è sdraiata tutta sudata sull’asciugamano, una fitta schiera di perle di sudore le irrorano il corpo. Guarda il cielo, lo guardiamo insieme. Il passaggio di un jet è scandito dal suo rombo, dal superamento di quella barriera del suono talmente forte e improvvisa da farci trasalire tutti e due.
Ce ne stiamo schiacciati a terra fermi, con gli occhi fissi su quella scia bianca che sta passando sopra di noi. Intorno altro rumore, altre voci ci raccontano il tempo ed il suo scorrere.
Poi mi siedo e fisso il mare.
— Andiamo? Te lo fai o no il bagno? —
— Ma si dai, proviamoci. —

L’acqua è più calda, ma a lei non basta.
La precedo in mezzo alle onde di circa una ventina di metri e tocco ancora quando anche lei sparisce dentro quella coltre d’acqua. La vedo immersa fino al collo, fino a lasciare la testa sorridente e divertita che sporge fuori. Mi guarda e cicaleggia come una bimbetta appena nata, gioca con tutta una serie di vocette e gridolini che esorcizzano la temperatura azzardata.
È bellissima. è l’amore mio.
Volevo un amore tenero, tenerissimo e l’ho avuto con lei, solo con lei.
L’ho sposata dopo l’arrivo del secondo figlio, l’altro da conviventi.
È la tenerezza la cosa che resta, non il sesso benché c’è e sempre dovrà esserci, non l’amore benché persista, ma la tenerezza, quella serie continua di attenzioni reciproche, eterne.
Mi arriva addosso infreddolita e mi abbraccia, mi mette le gambe sopra le mie e mi si avviticchia come una strana pianta marina. Vezzeggia di gioia, mi ammanta e si fa cappa di carne su di me, e la stringo ricambiandola in tutto, poi me la trascino sott’acqua quanto basta. Il silenzio dell’acqua ci ricopre. È bello questo cielo di cristallo liquido sopra di noi. Si divincola e torniamo a galla.
— Sei il solito tamarro! —
— Beh, …che non ti piace più lo scherzetto?! —
— Ho pure bevuto e c’ho freddo! —
— Vieni qui topina mia, che ti riscaldo. —
— Senti mandrillino, guarda che non c’hai più vent’anni! —
— Se per questo neanche tu. E allora? —
Poi mi guarda con il solito sorrisetto, la faccia fradicia con i capelli che la cingono ovunque tra il collo e la bella testa, il volto con gli occhi mezzi chiusi e il sole che la prende in pieno. Si gira e fa per scappare verso riva, poi devia a sinistra e ritorna a largo, si volge e comincia a nuotare dorsalmente. Non mi piace il dorso. La inseguo un po’ ranocchio, un po’ delfino, un po’ come so fare e mi viene comodo al momento. Al mare in realtà non nuoto, al mare cincischio una stramba miscellanea di stili propizi al fine di risparmiare fiato.
La raggiungo di nuovo.
Oltre non vado, non si tocca. Me lo dice e fissa l’orizzonte pieno delle creste brune dei frangenti, che sono tante e che si affrontano adesso in modo scomposto proprio per annunciare un cambio di vento, un cambiamento di tempo. Qualche nuvola minaccia il sole.
— Quando vuoi andiamo. Ma a che pensi? —
— A nulla. —
— Non ci credo. —
E sbuffo. E poi buffa anche lei, e la vedo perdersi, tra acqua e cielo, la carne bianca di chi è al mare per la prima uscita stagionale.
— Dai, torniamo indietro. Forse la macchina è pronta. —

Ritroviamo il nostro posto mentre intorno le strisce di sabbia libera diminuiscono per la gente che arriva sempre più numerosa. Il posto si fa affollato. È una spiaggia libera e ormai è quasi l’una
Ci asciughiamo e ritorniamo verso la strada.
Il rumore di una saldatrice forse, o di un altro strumento raglia sgradevolmente nell’aria e si fa strada tra le urla della spiaggia che abbiamo appena lasciato. Costeggiamo in fila indiana il muro che ci porta dal retro colpito dalla furia del sole, al fronte dell’officina bloccato dai rottami di mille macchine colpite da malie meccaniche.
L’amico mi guarda sorridente, tutto zozzo di grasso, accaldato e soddisfatto del suo lavoro.
— Ce l’ho fatta! È tutto a posto, Signò! Con ducentottanta euro ve la siete cavata, c’avevo tutti i pezzi de ricambio, altrimenti pijavate lo 080 e tornavate a casa così! —
— Un vero benefattore! —
— Ah Signò! So ducentottanta senza scontrino o fattura, …che volete a’ fattura?! altrimenti ce lo sa che devo da aggiugne! —
— Pure?! —
— Eh si, …ma posso fare di meglio, mi creda.
Mette le mani dentro la borsa, tira fuori i soldi con cura, ma in realtà è tesa. Li stropiccia, li stende come può, nervosamente. Sono quattro banconote da cinquanta. Vedo i suoi occhi umidi e le labbra si schiacciano le une contro le altre a trattenere la rabbia. Poi respira lentamente, si raccoglie come per ricordarsi qualcosa, per rammentare chi è. Pacatamente e con il suo solito sorriso, piazza i soldi sul tavolo e prende le chiavi.

La calura del primo pomeriggio è intensa e non troviamo fila o incidenti che ci possano rallentare. Guida lei. Giaccio mollemente sulla poltrona e le tocco dolcemente le cosce, gli piace e sorride soddisfatta guardando la nera pista della corsia, vagando con i suoi sguardi ora a sinistra ed ora a destra del guardrail. Sospendo per un attimo le mie attenzioni fingendo una stanchezza che vuole solo conferme, solo una supplica d’amore più convinta da parte sua. È il solito passatempo delle insicurezze, delle nostre giocate a base di coccole e dimostrazioni d’affetto.
Mi fissa con uno sguardo di tenero rimprovero e accostandosi per un attimo mi dice: — Ancora. —
— Ancora? —. Faccio io appena un po’ ritroso. Sposta la mia mano sulle gambe rimettendola esattamente dove stava prima e guardando fiduciosa la strada sussurra: — Sì, ancora. —

 

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