Mixis#21 | Tre tempi
Mixis#21 inaugura la seconda stagione della rubrica di contaminazione creativa di Argo
È nel riaffermarsi dell’incontro, nel dialogo fra le arti, che il racconto di Elisa Ciofini muove da un’illustrazione di Giulia Dello Buono per scandire i tempi dispari della memoria e gli attimi in cui il quotidiano, nella sua ripetibilità, abbraccia l’assoluto.
TRE TEMPI
La polizia arriverà a momenti – già fuori se ne sentono le sirene. Sul giradischi d’antiquariato, la puntina traversa solchi a lei noti fin nei minimi dettagli. La musica ne esce sbriciolata e calda. E intanto che Mahler sommerge la stanza da bagno col passo lento di un corteo funebre, l’un tempo rispettabile Signora Gozzalupo scivola pian piano nella vasca, lì dove l’acqua s’è fatta arancione per quelle poche gocce di sangue che dai polsi non sono cadute sul pavimento. Niente di lasciato al caso, nemmeno il disco. Sinfonia n.5: cinque movimenti, distribuiti in tre parti, come i tempi della vita.
Alcuni dicono che nel momento della morte ciascuno riveda scorrere davanti ai suoi occhi l’intera propria esistenza. Sara non ha pensato al momento in cui la morte sarebbe arrivata davvero, l’ha fatto e basta. E adesso, mentre, nella vasca da bagno, scende col mento fino al pelo dell’acqua e poi sotto, dove non si può più respirare, nei labirinti della sua testa, invece, sdrucciola giù per una stradina scoscesa, immersa in un buio pesante, simile a quello dei corridoi sui quali si affacciano le sale dei cinema. Al termine della discesa, però, Sara di porte ne trova tante, tantissime, migliaia. Tutte fendono di graffi verticali il nulla, di stretti spiragli da cui fuoriesce uno speranzoso filo di luce – forse la promessa di un dopo.
La Signora Gozzalupo cammina lungo il corridoio a passi lenti, alternando gli sguardi a uno, all’altro lato del buio e all’infinita serie di porte uguali che si stende davanti a lei, ancora una volta senza sapere da dove cominciare per compiere la scelta giusta. A un tratto, si ferma: la maniglia della porta alla sua sinistra, quella appena passata, si è mossa. Impossibile. La curiosità la costringe a retrocedere e ad avvicinarsi.
Si china, ma non trova i segni di alcun tipo di serratura, e non può allungare lo sguardo oltre, attraverso il buco. Allora prende un respiro e spinge la maniglia verso il basso, in avanti.
Al funerale era venuta più gente di quanto avesse stimato. Donne che aveva visto appena un paio di volte, con le quali mai aveva parlato, si calavano sulle palpebre umide di pianto e di pioggia inopportuni occhiali da sole. Uomini che presumeva suo marito conoscesse, immobili sentinelle in soprabito e pantaloni neri, sostavano a testa bassa sul limitare del cancello, e poi dentro al cimitero, lungo le stradine di ghiaia su cui sporgevano, dai loculi come da verande fiorite, i volti sorridenti dei lari di famiglia. Durante la processione, tra le tante teste che li seguivano dondolando sotto il temporale, a Sara era parso di vedere persino quella pelata di Tommaso La Farina. Con quale cuore osava presentarsi al funerale, quell’assassino! Con tutto ciò che la loro famiglia un tempo aveva fatto per la sua…
Quando la bara fu issata sulle spalle di due energumeni senza nome e, dopo, traslocata tra i sepolcri del terzo piano, accanto alla buonanima di sua zia, Luigi Gozzalupo diede un abbondante colpo di naso nel fazzoletto e, estratta la faccia rubizza dalla stoffa, sibilò tra i denti: «Può fuggire quanto vuole, ma io lo ammazzo, quel bastardo». Per un moto riflesso accarezzò la pistola che gli fuoriusciva dalla cintura, nascosta fino ad allora sotto la falda della giacca.
Luigi Gozzalupo è un uomo di parola, sua moglie Sara lo sa – lo sa anche adesso, mentre si ritrova catapultata in un ricordo fresco di due settimane. Appena tornato dal funerale, senza nemmeno il tempo di cambiarsi, Luigi imboccò il sentiero che attraversa il boschetto e porta in campagna e, da allora, la sua figura alta e massiccia non ha più ingombrato la soglia di casa.
Sara ormai ha fatto l’abitudine a questi lunghi periodi di latitanza coniugale, al termine dei quali suo marito entra all’improvviso, sbatte la porta e si butta sul divano, con la camicia macchiata forse di vino, forse di sangue.
In ogni caso, quel pomeriggio di due settimane fa, Sara non avrebbe avuto la forza d’animo necessaria per protestare, né quella fisica per resistere a ciò che, in tal caso, sarebbe seguito. Aveva vissuto i giorni della separazione da suo figlio con una rassegnazione spossante: si era abbandonata al trambusto e mal di mare che precedono qualsiasi genere di naufragio. Tanta era la stanchezza, che la sera prima del funerale aveva confuso la camera ardente dove era esposto il corpo di Giacomo con quella dove riposava la salma di un altro uomo. Era entrata in chiesa fuori dall’orario da lei stessa stabilito per le visite, di notte – suo marito, dopo una giornata di condoglianze e di avanti e indietro dalla casa alla cattedrale, era accasciato sul letto già da parecchie ore. La cera del ragazzo che aveva rimpiazzato suo figlio, gonfia e livida come di chi sia stato soffocato, le aveva fatto una tale impressione che aveva subito rinunciato all’impresa, si era rassegnata a conservare intatto il ricordo di suo figlio quale l’aveva salutato la sera del suo omicidio, ed era tornata a letto rammaricandosi di aver disobbedito al divieto di Luigi. Aveva ragione lui, il cadavere proprio non doveva vederlo, non sarebbe neanche dovuta uscire.
Sara richiude la porta che ancora le mani le tremano per lo spavento. Si dirige a passi stentati in direzione del termine più lontano del corridoio. Con uno sforzo erculeo riprende il ritmo, e corre finché non le manca il fiato.
Dal nulla, il secondo movimento scoppia in una tempesta di musica, e le note iniziano a incalzarla. Insieme a loro, al passaggio di Sara, una ad una le porte si spalancano come fauci affamate, o come vele sbattute dal vento. I colori, i rumori e le voci che si accumulano alle sue spalle montano un fracasso sempre più ingombrante, che le fa esplodere la testa – forse è il sangue che comincia a scarseggiare, le manca poco tempo.
All’ultimo dell’inseguimento, Sara ha perso tanto di quel vantaggio che si trova ad essere anticipata dalla sua stessa memoria: i ricordi la precedono, e a mano a mano che, nel corridoio, lei macina strada, loro le sbarrano i passi successivi aprendosi sugli squarci di vita più disparati. Alla fine, per sfuggire alla confusione, Sara svolta a destra, in un angolo piuttosto buio e silenzioso. Un pareo abbastanza fine e una sorta di tendone rosso opaco, intessuto di ricami più lucidi, la separano da una sala, a giudicare dalla aureola che traspare dal divisore di carta illuminata. Solo nel momento in cui l’ingresso che ha appena imboccato si richiude da solo, Sara avverte, lontane, le prime note del terzo movimento.
«Si sente bene, signorina?»
Quando, dopo aver scalato due francesine di camoscio e un completo di pantaloni e giacca in velluto grigio, il suo sguardo si scontra con quello dell’uomo che l’ha appena aiutata ad alzarsi, Sara si sente impallidire: di fronte alla faccia di La Farina, non ancora pelata e lucida come un uovo, fa per ritirare la mano in un moto di disgusto.
«Vedo che ha conosciuto mia moglie» una voce sorridente la raggiunge alle spalle. Luigi e Giacomo, più basso di una spanna e vestito di tutto punto, appaiono all’ingresso dell’androne. È da un pezzo che Sara non vede suo marito così ripulito, fresco e allegro.
Quelli erano i tempi in cui ancora Giacomo e Luigi si parlavano, i tempi in cui ancora lui sapeva farla sentire, seppur non partecipe di una buona parte della sua vita – come d’altronde non era né sarebbe stata mai –, importante e amata.
«I miei complimenti» prima che lei se ne possa rendere conto, La Farina le stampa un bacio viscido sul dorso della mano. «Venite, vi stavamo tutti aspettando» aggiunge poi, accompagnando la curva che il sorriso gli modella sulla maschera del volto con un gesto delle braccia ampio e trionfale.
La sala del ricevimento è lustra e luccicante, nonché abbastanza grande sia per ospitare l’enorme quantità di invitati che a turno parlano, si avvicinano al buffet e si aggregano a nuovi capannelli di conversatori, sia per soddisfare le esigenze dettate dal loro rango sociale ed economico – amministratori comunali, magistrati, industriali si affiancano a personaggi dai volti meno noti pubblicamente, ma non per questo meno temuti. Prima ancora che Luigi possa, come sempre, degnare del proprio saluto a uno a uno i membri della comitiva, due gemelli sulla trentina gli si avvicinano dal fondo della sala. Per una strana coincidenza, o per uno strano gusto per le coincidenze, sono abbigliati in maniera simile, ma pettinati in maniera diversa: uno ha i capelli lunghi e ricci, legati in un codino; l’altro li tiene corti.
Quello col codino, con confidenza, ma sempre senza oltrepassare i limiti imposti dal dovuto rispetto, frena Luigi per una spalla e gli sussurra – Sara non dovrebbe ascoltare, ma certo non può tapparsi le orecchie: «Possiamo parlare?».
Improvvisamente Luigi si scurisce in volto, e spegne il sorriso con cui ha inaugurato la serata. Seguono un paio di secondi di silenzio: Sara e Giacomo interrogano Luigi con gli occhi; lui si volta e guarda sua moglie e suo figlio non senza una vena di sdegno; il ragazzo intanto aspetta una risposta dal capo, muto come gli altri. Solo Mahler non tace.
«Non qui» sentenzia Luigi alla fine di tutto l’iter. Sara afferra al volo il messaggio: niente domande sul cosa sul perché sul come, niente discussioni – niente di ciò che ha visto, per quanto poco, è mai accaduto davvero. Luigi si allontana dai familiari in compagnia del ragazzo e, per almeno una mezz’ora, scompare in una delle stanze attigue al salone.
A metà della serata, in mezzo a una conversazione, La Farina, con quello che in altri contesti potrebbe apparire un brusco cambio d’argomento, batte una mano sulla spalla di Giacomo e ride: «Si è fatto grande, il giovanotto! Quand’è che vieni a lavorare? Dovrai pur mostrare gratitudine alla tua famiglia in qualche modo, no?».
Luigi si affretta a rispondere per suo figlio: «È un bravo ragazzo: verrà presto, vedrà». Ma La Farina non sembra neanche sentirlo. Anzi, continua a fissare Giacomo con il suo sorriso cariato e onnipotente.
«Diciamo che ho altro da fare» borbotta lui, e si schiarisce la gola – ogni volta che Giacomo fa la voce seria e raddrizza il petto, Sara si rende conto con lo stupore di una rivelazione che il suo bambino ormai assomiglia più a un adulto.
«Altro? E che cosa?».
«Preferisco continuare a studiare» risponde Giacomo senza fare una piega. Al che, La Farina scoppia in un fischio sarcastico e gli appoggia un paio di buffetti sulla guancia: «Attento a non fidarti troppo dei numeri: non sempre due più due fa quattro».
Nel parcheggio sotto la villa di La Farina, Luigi afferra suo figlio per il bavero della giacca e lo sbatte contro la portiera della macchina.
«Non ti permettere mai più. Fammi fare un’altra volta una figura del genere e vedrai che ti passa la voglia di scherzare. Ti do la mia parola» dice.
Chiusa la portiera dell’auto, Sara si ritrova nel corridoio. Inizia l’Adagetto.
****
Il terzo ricordo che Sara decide di varcare si apre sul salotto di casa.
La sera che fu ucciso, prima di infilarsi il cappotto e la sciarpa, Giacomo salutò sua madre con un bacio sulla guancia. La Signora Gozzalupo lo sentì poi sbattere la porta e, scostando appena il necessario la tenda, lo osservò dalla finestra della cucina mentre entrava in macchina, metteva in moto e si allontanava sulla strada sotto casa. Nel momento stesso in cui Sara non fu più capace di vederlo, la berlina posteggiata accanto all’auto di suo figlio accese il motore, si discostò dal marciapiede vicino al cancello e a fari spenti ne prese la stessa direzione.
«L’ho fatto seguire da due uomini, nel caso avesse bisogno. Sta andando da amici, ma non mi sento tranquillo lo stesso» Luigi era appoggiato allo stipite della porta di cucina, alle sue spalle. La guardava con la stessa apatia che accompagnava il suo volto da quando – così le aveva detto – le cose con La Farina stavano peggiorando.
Due ore più tardi il telefono sarebbe squillato. Sua figlia Caterina si sarebbe alzata dalla scrivania in camera sua per rispondere. Luigi l’avrebbe anticipata dal salotto con un “no, vado io”. Dopo aver risposto, avrebbe aperto in fretta e furia il comodino in cui teneva la pistola, se la sarebbe infilata nella cintura e, senza dare spiegazioni a nessuno, si sarebbe fiondato giù per la rampa di scale del condominio. Poi, la mattina dopo, avrebbe raccontato a Sara di aver ucciso quell’imbecille che invece di colpire La Farina prima che La Farina colpisse Giacomo aveva sbagliato la mira, e l’aveva fatto quando ormai era troppo tardi, e La Farina stava scappando.
Ma stavolta, nel ricordo, Sara si concede la curiosità di affacciarsi sull’ingresso di cucina e ascoltare, di nascosto, la telefonata.
«Pronto?… Un incidente?… Come sarebbe a dire che vi è sfuggito?… Ma cosa significa che l’ha scambiato per La Farina?» dopo il frusciare della risposta, Luigi sbarra gli occhi, afferra la pistola ed esce di casa.
Allora, l’obiettivo era un altro, e la difesa di Giacomo serviva solo come scusa: l’obiettivo era La Farina.
Sara arrossisce di rabbia contro il caso. Neanche la consapevolezza della fine toccata all’uomo che ha scambiato suo figlio per un boss criminale riesce a darle soddisfazione. Luigi non mi ha raccontato niente per non darmi ulteriori rimorsi e preoccupazioni, si dice.
Nella furia, suo marito ha lasciato la cornetta del telefono penzolare lungo il comodino, appesa alla spirale del filo. Sara la solleva e l’accosta all’orecchio. Vorrebbe urlare, arrabbiarsi, far passare all’uomo dall’altra parte della linea la peggior mezz’ora della sua vita. Ma rimane in silenzio.
«Pronto?… Pronto?» è la voce di un ragazzo. A Sara sembra quasi di conoscere quella voce, o almeno di averla già sentita altrove. Quando ricorda, sente mancare il respiro, e accosta dita tremanti alle labbra tremanti. Riconosce la voce del ragazzo col codino e, nello stesso momento, il volto del ragazzo nella camera ardente.
Stavolta rivede la scena non più in prima persona, ma come in un film: nella penombra della chiesa, spalanca la porta, e la luce lunare disegna un fascio sul pavimento. Si avvicina alla bara e già piange, inconsapevole del contenuto. Ma ora lo sa: non si è sbagliata, è proprio questa la camera ardente del corpo che ora riposa nel cimitero. I bordi della cassa svelano un volto diverso da quello atteso, più adulto. Un uomo che sicuramente ha superato i trent’anni, con i capelli corti, a spazzola. I lineamenti sono pallidi e gonfi, le labbra bluastre e il collo segnato da una forte stretta. Ma Luigi, prima di uscire, ha preso con sé la pistola.
In quel preciso istante, Caterina si affaccia in corridoio e interrompe i pensieri della madre: «Che cosa è successo?».
****
Sara corre. Corre più veloce che può verso la fine del corridoio, qualunque cosa nasconda. Ormai non vuole sapere di niente né di nessuno, e allora corre come doveva esser corso via suo figlio dopo aver strangolato il sicario mandato dal mostro, dal padre. Passano porte, ricordi, tempi ormai vissuti e irrecuperabili, ma non serve recuperarli, è tutto andato storto, è tutto da buttare. Corre, allora, finché il corridoio non le si rivela altro che un lungo vicolo cieco, sbarrato dall’ultima di infinite porte. Sara rallenta il passo e si guarda alle spalle: l’inizio, come prima è stato per la fine, non si vede più. Non le resta che scoprire quello che c’è dopo.
Entra, e la luce l’avvolge.
È in piedi davanti a un lavandino, il lavandino di casa sua. Sta tagliando la verdura. Sono passati due giorni dalla morte di Giacomo: la madre di Sara è venuta a stare da loro per assistere al funerale del nipote e per dare una mano a sua figlia. Nel volto cascante della donna, abbandonato nel sonno allo schienale del divano, Sara legge quello che potrebbe essere il proprio futuro. Tra le rughe, invece, legge quello che è stato il passato di sua madre, cioè il suo stesso presente. Non è cambiato molto.
Caterina, intanto, studia seduta al tavolo di cucina. A lei ancora nessuno ha avuto il coraggio di raccontare niente. Si comincia così, ci si abitua a non sapere niente, e poi si inizia a fingerlo anche quando si sa tutto. Sara le vuole troppo bene per abbandonarla.
«Mamma, perché piangi?» chiede Caterina, alzandosi quando sua madre meno se lo aspetta.
E mentre Mahler pronuncia l’ultima sua sentenza, mentre Caterina è riuscita a forzare la porta del bagno, e ora urla e le scuote il braccio, mentre cala la notte, Sara forse ci ripensa, forse vorrebbe tornare indietro per interrompere quella catena di vite tutte uguali, per salvare la figlia dal suo stesso destino criminale, per stare con lei, e per sentire, ancora una e più volte, quelle note tristi sbriciolarsi sul vinile.
«Niente, stai tranquilla. Sono le cipolle» risponde a Caterina. Ma sua figlia è intelligente.
«Allora le taglio anch’io, così ti aiuto» dice. E piangono insieme davanti al lavandino, a lungo.

Andrea Bollini
Andrea Bollini, collabora con diverse realtà legate alla cultura e all'intrattenimento. Per Argo gestisce la rubrica Mixis.