All’origine c’è sempre il peccato ⥀ Il mondo fuori-legge di ‘In principio era la Bestia’ di Omar Di Monopoli
Un’analisi dell’ultimo romanzo di Omar Di Monopoli In principio era la Bestia (Feltrinelli, 2023), ambientato in un Meridione insolito
Gli studi geografici di stampo marxista ci hanno abituato a riflettere sullo spazio a partire dalla dicotomia centro/periferia1. Osservando l’Italia di oggi attraverso questa lente interpretativa, è facile riconoscere nel Sud una sorta di immensa periferia di un Nord che, di fatto, assorbe sempre di più le risorse finanziarie e produttive della nostra nazione. Tuttavia il Sud, nonostante i suoi problemi, continua a conservare dei propri centri culturali che, nel bene o nel male, esprimono ancora una propria mitologia. Da un punto di vista narrativo, luoghi come la città di Napoli o la Sicilia possiedono ancora una voce potente, capace di imporsi addirittura sull’immaginario internazionale, basti pensare all’enorme successo degli universi narrativi di Roberto Saviano o di Andrea Camilleri.
L’opera di Omar Di Monopoli, a differenza di molti altri autori contemporanei che hanno deciso di narrare il Sud Italia, sceglie di far muovere i propri personaggi in quella che può essere considerata una periferia al quadrato. Tutto ciò è particolarmente evidente nel suo ultimo romanzo, In principio era la Bestia: esso è ambientato nel 1799 in una cittadina immaginaria della provincia salentina. In quest’epoca Napoli è ancora un vero e proprio centro, non solo culturale, ma anche militare e politico. L’intera caratterizzazione di questa terra nei «dintorni di Taranto» (dalla presentazione nel ripiego della copertina) è costruita quindi a partire dal contrasto che essa instaura con Napoli. Di Monopoli è interessato a narrare un altro Sud, lontano sia da un certo immaginario solare, fatto di luoghi da favola baciati dalla luce, sia da uno realista, tra il piombo dei mafiosi e le mazzette dei corrotti.
È un Sud lunare, così come appare evidente dalla copertina del romanzo, dove troneggia una Luna piena puntellata da uccelli nervosi, in apparente fuga.
Impostazione teatrale
Prima ancora di iniziare la lettura del romanzo, ci sono due elementi paratestuali che balzano subito agli occhi. Il primo: il romanzo è introdotto da una lista con tutti i personaggi, in ordine di apparizione. Il secondo: la suddivisione del romanzo in tre parti. Se si tiene conto che In principio si svolge nel 1799, è facile per il lettore comune, anche quello che ha solo qualche reminiscenza scolastica della storia della nostra letteratura, riconoscere un’impostazione che sembra rievocare le commedie teatrali di Carlo Goldoni. Alla lettura del romanzo, appare chiaro un aspetto: ogni personaggio è caratterizzato da pochi ma ben marcati tratti, che lo rendono subito facilmente riconoscibile. Ogni personaggio incarna una ben specifica tipologia sociale. Riprendendo la Poetica di Aristotele: contano le azioni, non i caratteri dei personaggi per il romanzo in questione. E ogni personaggio assume il suo senso ponendosi in contrasto con tutti gli altri: la trama è fitta e rigorosa, ogni suo punto è necessario alla comprensione del resto. Rimuovere un tassello significherebbe cambiare fortemente il senso dell’intera struttura.
La Legge che viene dal Centro
L’intreccio narrativo scaturisce dal più semplice e consolidato dei pretesti: c’è stato un delitto, bisogna individuare il colpevole. Tuttavia a rendere tutto più complicato è la diceria che il reo abbia una natura soprannaturale, tra il bestiale e l’infernale. A uccidere è stata la Bestia che dà il titolo al romanzo. Non è un caso che il ruolo dell’investigatore sia sdoppiato: sono due le menti che collaborano per poter risolvere il delitto. Il primo è il Capitano del gruppo di militari inviati da Napoli per vedere chiaro su quanto stia accadendo nei dintorni di Taranto. Il secondo è James Fenimonte, un naturalista e quindi un uomo di scienza. Entrambi sono uomini della Legge: il capitano rappresenta quella del Diritto, mentre il secondo quella della Natura. Entrambi devono ripristinare l’Ordine: il primo catturando chi si è macchiato di delitti così gravi, il secondo riportando quanto accaduto nel mondo della razionalità, smentendo le dicerie sorte intorno alla natura demoniaca del delitto.
Tzvetan Todorov è stato colui che ha mostrato come ogni intreccio narrativo nasca da un’alterazione di uno stato di quiete2. Nel romanzo poliziesco, tutto ciò assume un valore morale: il ripristino dello stato precedente è anche un ripristino della civiltà, di ciò che dovrebbe essere secondo la Legge. In principio va ben oltre: qui non si tratta di far affermare soltanto il dover-essere, ma anche il così-è: è un ripristino morale e metafisico, un bisogno di ricondurre tutto alla razionalità del Diritto ma anche del Reale.
L’indagine viene condotta da due uomini che non appartengono al luogo in cui si sono svolti i misfatti: sono delle figure esterne, che provengono dal centro, Napoli. Questo è uno dei primi punti di interesse del romanzo: per quanto i due uomini, insieme ai propri soldati, stiano cercando di difendere la Giustizia, lo fanno imponendo una visione del mondo che non appartiene alle terre in cui si ritrovano ad indagare. Nonostante la loro buona volontà, il loro sguardo è quello del colonialista che offre la sua misericordia a patto che venga riconosciuta la sua superiorità, sia militare che spirituale.
Ed è proprio questo il motivo che rende quasi tutti ostili nei loro confronti.
Un mondo fuori-legge
Da questo paragrafo in poi appariranno delle anticipazioni sulla trama. Ed è importante avvisare il lettore, anche quello che di solito si trattiene su aspetti più linguistici, perché in Di Monopoli gli effetti di suspense sono anche effetti di senso: l’ansia che impregna queste pagine ha un preciso ruolo, che va ben oltre quello di un semplice stratagemma gastronomico, per parlare come Brecht, atto a soddisfare la fame di intrattenimento di certo pubblico.
Le indagini piano piano mostrano al lettore la rete di conflitti in cui è invischiata la vita del piccolo paese. A scontrarsi sono due poteri, incarnati da Don Carmelo Dirlampa e Mastro De Sanctis. Già dai titoli che precedono i nomi è facile comprendere come il primo rappresenti la classe aristocratica, il secondo quella borghese. L’intero romanzo è il tentativo di ricostruire la storia di un conflitto che ha come protagonisti queste due figure.
Ed è una guerra di sangue e di sperma.
Il linguaggio e le immagini che danno corpo al testo e da cui sgorga il mondo di Di Monopoli sono pregne di fluidi corporei. Fluidi che assumono ruoli e significati diversi in seno all’aristocrazia e alla borghesia. Per Dirlampa, il sangue e lo sperma sono legati al concetto di lignaggio. La sua autorità deriva dalla sua discendenza: è un fatto di sangue, quindi biologico, e appartiene ai fatti della natura. «Sono un Dirlampa, sangue d’Iddio! E non devo rendere conto a nessuno dei miei affari» (p. 82). Quell’esclamazione non sembra essere casuale: per Dirlampa il sangue è un elemento divino, su cui non è possibile discutere, né intervenire. Mastro De Sanctis, al contrario, deriva il proprio potere dalla ricchezza raggiunta con la coltivazione del cotone. Non eredita la sua forza, ma la costruisce. Ed è colui che porta avanti delle pratiche di magia oscura, nella speranza di poter dare vita a una nuova razza di superuomini, resi più forti dalla manipolazione del sangue di coloro che sono stati morsi dalla tarantola. Qui sono in gioco due visioni contrastanti del Sangue, che va inteso come immagine dell’essenza stessa dell’umano. Per Dirlampa il sangue è qualcosa di immutabile: ogni essere umano deve vivere secondo il ruolo della propria stirpe, in un ordine che non va assolutamente alterato. Per De Sanctis, il sangue è qualcosa che può essere manipolato, così da poter modificare il proprio destino.
Queste due visioni hanno bisogno di un contributo di sangue, per l’appunto. Sangue che viene versato dal popolo. È interessante notare come i personaggi popolani nel romanzo risultino essere solo delle comparse o al massimo dei personaggi secondari. Da una parte c’è Dirlampa, che non si fa scrupoli ad ammazzare chicchessia, se ciò gli permette di affermare il proprio potere. Non si ferma neanche di fronte alla vita di ragazzini che hanno avuto l’ardire di sfidarlo o di derubarlo. Mastro De Sanctis, invece, paga per acquistare i cadaveri di coloro che sono morti morsi dalla tarantola: il sangue del popolo è, per questi figuri del potere, un mero strumento per affermare il proprio volere.
Ancora una volta, per comprendere questo romanzo, è necessario analizzarlo da un punto di vista spaziale. I due potenti non vivono nel paese, ma in due tenute nei pressi di esso. Vivono decentrati. Quello che appare chiaro è che in questo profondo Sud il potere è qualcosa che viene dall’esterno. Non è un potere in cui ci si imbatte di faccia, ma lo si sente arrivare sempre dai fianchi. Si tratta di un potere nascosto e nell’ombra. I due uomini di potere del romanzo non agiscono favorendo la Legge del Re, partecipando al potere del Centro (rappresentato da Napoli e dai due investigatori), ma agendo ponendosi al di fuori di ogni limite, di Legge (Dirlampa) o addirittura di Natura (De Sanctis).
Loro due, però, non sono gli unici personaggi fuori-legge. Ce n’è un altro che lo è letteralmente: il brigante Malesano. Egli assume il ruolo di aiutante dei due investigatori, risultando fondamentale per l’avanzamento della trama, non solo perché fornisce informazioni preziose, ma anche perché salva i militari giunti da Napoli dai pericoli. La sua presenza permette di ricostruire una precisa visione della Giustizia presente nel romanzo: la Giustizia è uno spazio chiuso che però è macchiato da molti punti deboli, in cui le sue maglie sono più lente o addirittura spezzate. Questi luoghi danno vita a delle sacche di anomia, in cui vige solo la Legge della Violenza. Paradossalmente, la Giustizia, per potersi riparare, deve discendere in questi luoghi e agire non potendo più fare affidamento sulla Legge. L’Ordine è possibile solo se esso si munisce di una Forza tale da poter annichilire tutte le altre forme di Violenza, soprattutto di quelle che tendono al Caos. La Giustizia ha bisogno di una violenza che abbia degli effetti benefici, ha bisogno ovvero di un “male sano”.
Ma se la Violenza è, allo stesso tempo, lo strumento della Giustizia e del Sopruso, come è possibile discernere tra questi due concetti?
La Bestia e la Mela
Forse si può rispondere a questa domanda analizzando la natura della Bestia del titolo. La creatura originariamente era la moglie di Dirlampa. La donna, percependo la decadenza del potere aristocratico, aveva deciso di allearsi con De Sanctis e attingere al potere delle arti magiche: tuttavia, partecipando a dei riti oscuri, la donna trova la morte e si trasforma in un essere infernale. La Bestia è l’immagine di un individuo che, pur di non perdere il proprio potere, non si ferma di fronte a niente. Più che di romanzo del Terrore, si dovrebbe parlare di romanzo del Terrorismo: il risentimento nei confronti della perdita del proprio privilegio porta la donna a voler acquisire un potere allo stesso tempo omicida e suicida. L’avidità è tale da preferire lo sviluppo di una forza sovrumana al costo del totale annichilimento della propria identità.
Com’è ormai apparso chiaro sino ad adesso, il romanzo si struttura intorno a relazioni duali. La Bestia non è l’unica figura ferina del romanzo: a farle da contraltare c’è Mela. Mela è la figlia minore di Dirlampa, quindi anche della Bestia stessa: vive nuda e sozza rinchiusa nella tenuta dei Dirlampa, comportandosi come un animale. È caduta in questo stato poiché, tempo addietro, le è stato impedito di vivere appieno il suo amore per Malesano. Sia per la madre che per la figlia, lo stato bestiale si scatena dopo una perdita. Ma se la madre vede sfuggirsi dalle mani il proprio privilegio, la figlia viene strappata dal proprio amore. La prima guarda a se stessa, la seconda all’Altro. Ecco qui la differenza: la Violenza trova una sua Giustizia solo se utilizzata a fini altruistici.
La Bestia e la Mela. Un’interpretazione biblica di questi due simboli viene indotta in maniera diretta dal romanzo, che si apre con una citazione dall’Apocalisse. Entrambe sono immagini del peccato: ma se la prima si trova alla fine della storia biblica, la seconda si trova nella sua Genesi. Il peccato, quindi, è principio e fine del mondo così come lo conosciamo: c’è un peccato “originario” e uno “terminale”:
Nessuno seppe mai dire se Mela abbia più ripreso a vedersi col bandito Malesano, ancor fuggiasco nella zona. Occhi indiscreti raccontarono a lungo di averla veduta certe notti in compagnia dell’uomo, mano nella mano nelle fitte trame dei boschi o a cavallo con lui sulle millenarie battigie costellate di conchiglie dell’area marina, ma certuni solevano sostenere che la ragazza non fosse laggiù in compagnia, bensì solinga, senza vestiti, e ululasse alla luna come una fiera (p. 204).
Così finisce In principio. Il romanzo poliziesco trova la sua soluzione, ogni mistero è risolto. Ma In principio è solo superficialmente una trama investigativa, perché nel profondo è multistrato, estendendosi verso molte altre direzioni. Svelato il mistero, resta il peccato, che proietta In principio verso altri generi letterari. Esiste un peccato che ci avvicina all’Altro, così come la mano di Eva che dona la Mela ad Adamo, gettandoci tra le braccia del romanzo d’amore; al contrario, se ci spinge nella solitudine, come la Bestia che bestemmia contro Dio nell’Apocalisse, esso ci conduce tra le trame dell’orrore.
Di Monopoli mescola numerosi registri linguistici all’interno di un crogiuolo di strutture narrative riprese dai più svariati generi letterari di provenienza popolare, cioè generi strettamente legati a effetti di suspense e sorpresa, capaci di catturare costantemente l’attenzione del lettore e di spingerlo a girare le pagine, anche in preda a una certa ansia. L’obiettivo, però, non è semplicemente quello di divertire, ma anche quello di rappresentare il Sud come una terra pregna di tensioni tragiche: forze in costante conflitto, che non può essere risolto, se non attraverso un versamento di sangue, che non scioglie i rovelli della questione meridionale, ma li recide in maniera netta, come fa Alessandro Magno col nodo di Gordio.
Note
1 Da questo punto di vista, è stato fondamentale il testo di Alain Reynaud Société, espace et justice (PUF 1981).
2 Per il lettore curioso: ne ha parlato nel saggio su Boccaccio presente in Poétique de la prose (Seuil 1971).

Gerardo Iandoli
La mia biografia: Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna e dottorato all'Università di Aix-Marseille, entrambe le volte in Italianistica. Si occupa di teoria letteraria e rappresentazioni della violenza nella letteratura, nel fumetto e nelle serialità televisiva italiana degli anni Duemila. Scrive per la rubrica UniversoPoesia di Strisciarossa. Ha pubblicato un libro di poesie, Arrevuoto (Oèdipus 2019).