Il monte ⥀ Opera collettiva solarpunk #14
Cosa si nasconde nel monte cavo? Il viaggio collettivo nella Borgopoli solarpunk prosegue. Il racconto di Marco Benedettelli ci conduce alla scoperta di ciò che è sepolto nella selva. La foto è di Orsola Bernardo. È possibile leggere qui l’editoriale della rubrica e la lista dei contributi pubblicati finora
#14 Il monte
È noto che il monte è cavo e che non è nato cavo ma lo hanno scavato, con tenacia, applicazione, secondo una magnifica nevrosi si direbbe, cosicché un brulichio di mani e braccia hanno, un secolo e poi l’altro, estratto e cavato quantità inimmaginabili di terra e sassi e ghiaia e pietre, laterizi, arenili, forse anche minerali pregiati e millenari dalle sue viscere, per fare spazio al vuoto. Un vuoto che é cresciuto a dismisura e però non è silente, no, tutt’altro. Lui parla perché risuona come il cilindro d’un tamburo e lo fa attraverso le bocche di chi attorno al monte vive e poi muore e vive e muore, ogni persona dentro l’altra, gente che sta attorno al monte e il suo grande vuoto lo sente. Cosicché dal vuoto del monte escono leggende, dicerie, favole, paranoie persecutorie, traumi, ire e rancori, sogni e messaggi radar. Suoni che danno corpo a grappoli di simboli, che tengono in fila i morti dentro i fossi oppure che risuonano da foibe ancora più profonde. Tali dicerie diventano creature arborescenti a fior di labbra ogni volta che le si pronuncia.
Noi lo sappiamo che in ere neolitiche e ancora più lontane il monte è stato terra di tribù nomadi e poi agricole, spazio disseminato di villaggi e nei villaggi o ai suoi margini c’erano forni dove si arrostivano sementi, si facevano cuocere focacce e si celebravano le fioriture della Grande Madre. Le genti arrivavano anche da lontano a fare festa o solo a infornare il pane, poi, quando i villaggi si sono trasferiti altrove e le feste sono passate via, nei forni i necrofori hanno iniziato a tumulare la carne morta, ripiegata e rannicchiata e infilata nelle bocche delle fornaci affinché la carne tornasse terra, che nel mondo dei trapassati si fa cibo.
Se a valle si infornava il pane e si danzava scalmanati in nome della Grande Madre e si tumulava la carne morta nelle bocche dei forni, in cima al monte, sotto al cielo, qualche sapiens chissà quando ha inciso delle incanalature su un lastrone calcarenitico, secondo un reticolo inestricabile. Serviva a raccogliere acqua? O forse il sangue dei capri sacrificati? E, se è così, il liquido scorreva e zigzagava attraverso tracciati retti e curvilinei sulla roccia, addensandosi nelle coppelle, colando nei pozzetti ai nodi terminali del circuito. Il suo percorso, il suo inforcare bivi era fonte di veggenze per indovini e sacerdotesse, cosicché l’idromanzia pacificava il dubbio, sollevava il cuore dai tormenti della scelta. Ci si appellava a un’entità invisibile ma al tempo stesso così osmotica da scorrere in spirali liquide. Qualche sapiens immergeva le mani nelle coppelle per abbeverarsi o per parlare con chi ci guarda da lontano e tutto è così che prendeva forma. O forse le incisioni tracciano disegni che non hanno senso o forse li contengono tutti. Costellazioni? Mappe? Sono una vulva della Grande Madre su cui appollaiarsi strofinando il sesso per stimolare la fecondazione? Sono giganti con il membro eretto? Figure antropomorfe che avanzano con un ramo in mano? Farneticazioni grafiche di esseri silvani o satiri caprini?
Tutto il monte un po’ alla volta non solo l’hanno cesellato ma vi hanno proprio allargato vene, cunicoli, piccoli passaggi scavati fin nelle sue profondità arenitiche. Dai lastroni pietrosi e dalle bocche dei forni gli incisori sono, come dire, scivolati sotto terra e hanno aperto buche e gallerie e condotti dove ci si inabissava a rifugiarsi dalla violenza che scorreva sopra, dei pirati o delle guerriere inghirlandate di piume e anelli. E pure gli stessi popoli del monte, gli stessi suoi soldati si acquattavano nel sistema ipogeo prima di sferrare furiosi contrattacchi. Dalle bocche dei cunicoli si entrava e usciva urlando di terrore o d’ira, tutta una sarabanda di diavolacci agresti che non avevano pace, che uccidevano per non essere uccisi o che erano uccisi affinché non uccidessero. Diavolacci furiosi e impolverati che dei cunicoli hanno fatto la loro fortezza sotterranea.
Ma un labirinto sepolto è sempre un posto strano e questa caratteristica il monte la conferma e anzi la moltiplica nelle sue diramazioni e dita sotterranee, perché là sangue e acqua si mescolano, morte e vita.
C’è una leggenda, la più sgangherata, a cui si è continuato a credere fino ai tempi delle bisnonne – questa storia chi scrive l’ha captata con le proprie orecchie -, che i laghetti boschivi alle pendici del monte fossero tutti collegati tra di loro da budelli sotterranei e che il lago più paludoso sfociasse in mare aperto proprio attraverso un collegamento carsico, cosicché bestie e uccelli e corpi umani che nei laghetti salmastri si inabissavano, dentro i budelli erano risucchiati e le loro carcasse gonfie e livide tornavano a galla altrove, da un lago all’altro o addirittura tra le onde in alto mare. Ma queste, appunto, sono leggende della pora nonna, che è morta tanto tempo fa.
C’è chi, in modo più pragmatico, sostiene che cunicoli, tunnel e canali ipogei fossero invero parte d’un antichissimo acquedotto che si rivela molto vasto e articolato quando andiamo ad analizzarne i tracciati e i presunti segmenti. Ma tutto è senza certezze, gli ingegneri sono ignoti, l’era di costruzione pure, forse è romana o ancor più antica, piceno ellenistica o fenicia. Qualche voce svergognata allude persino a origini fantarcheologiche della ragnatela di passaggi e ciò per via di corrispondenze oscure con gli acquedotti della Persia. I cunicoli infatti sono intagliati con volte a punta, identiche ai noti qanat degli altipiani iranici. E chi mai avrebbe condiviso sul monte queste forme dalla città di Ninive o dal lago Urmia? Occorre forse far risalire tutto all’Era dell’Acquario? Agli astrologi e alle sibille di prima del Diluvio? No, certo. Ma quando il mistero è impenetrabile, tutti dicono di tutto.
Quel che sia sia, l’acqua fluiva a valle verso le prime città e i suoi porti che si affacciano su mari allora davvero popolati di sirene e mostri degli abissi e di nomadi e di lotofagi e mercanzie fenice e schiavi frustati a sangue. Lo scorrimento carsico è durato un’infinità di tempo, le rocce levigate si sono fatte a tratti luccicanti per i riverberi calcarei ed esse stesse così belle e chiare hanno iniziato a delineare l’idea di vuoto che si sarebbe allargato nel monte a dismisura e che lo avrebbe trasformato in una entità cava, una fortezza sotterranea, un bunker, quel che sia sia. È come se eufonici gorgheggi di sorgenti e urla bestiali e schegge incandescenti si siano mescolate dentro la stessa bocca.
Certo è che laggiù, proprio nei profondi ipogei, è là che sono nate le leggende e che sono sprizzate fuori, dalle forre del monte, in zampilli e polle; e l’acqua è evaporata e s’è di nuovo imperlata sulle cose e sulle labbra della gente che racconta in fiotti e fiotti di parole. Storie incredibili. La più popolare, guarda caso, è anche la più sotterranea. Talune persone ormai vecchissime o già morte parlano d’una ragazza, una fanciulla intrappolata nel buco più impenetrabile. E chi scende per gallerie e condotte ipogee e inforca la giusta sequenza di diramazioni e affronta prove anche mortali, ecco che la può incontrare. Ma a che beneficio? Lo vedremo.
La prima prova consiste nel non perdersi così da arrivare in fondo al labirinto dove si apre una stanza segreta. La seconda prova è proprio dentro la stanza scavata nella roccia, qui c’è un altare e sopra l’altare una gallina d’oro e intorno alla gallina dodici pulcini anche loro dorati. Per chi vi posa gli occhi la morte arriva come una mannaia, i cancelli si chiudono alle spalle del viandante che rimane tombato nel profondo. Sa il diavolo da che inferno vengono quegli idoli, chi ce li ha messi; c’è chi dice che siano famelici di sacrifici umani. Ma un modo per salvarsi ci sarebbe, affermano. L’intrappolato deve scrivere col sangue delle proprie vene, scrivere qualcosa su di un sasso, una parola, una frase, lettere a caso, il nome della bestia, della chioccia d’oro coccodè. Solo la scrittura e per di più col sangue potrà salvarlo ed egli allora continuerà dritto alla ricerca del tesoro.
È in una seconda stanza nel prosieguo del cammino che apparirà la giovane ragazza, preceduta da un flebile lucore. Lei canta come un usignolo, canti dolci e nenie melanconiche e intreccia fili d’oro curva sopra un telaio. È una donna bianca e luminosa che scompare, svanisce simile all’immagine d’un sogno quando il sonno si rompe. E dove lei è apparsa resta il bagliore del suo canto che trascolora subito in un ruscello eterno, una vena d’acqua che regala all’assetato il più delizioso oblio, il più profondo conforto, perché tutte le fatiche si dimenticano e le ferite e le contraddizioni e rabbie nere. L’acqua che sa di rosa però è fatale a chi ha conosciuto il suono del suo scorrere e i suoi riverberi di luce e poi è tornato indietro, perché per sempre avrà il cuore sprofondato. C’è una tristezza senza fine nei pochi uomini riaffiorati in superficie, loro che hanno incontrato la ragazza e il suo telaio, hanno attraversato il suo lucore e si sono ristorati al suo ruscello eterno.
Oppure eccone un’altra di leggenda o diceria che riguarda sempre il sottosuolo. C’è una principessa sepolta viva, una donna del nord che ancora raschia con le bianche mani il coperchio della sua tomba, in fondo alla cripta della chiesetta di paese. Una principessa teutonica morta mentre era in viaggio verso i santuari e attraversava il monte e già vedeva il mare caldo e le ginestre, morta di qualche male. Lei sconsolata di notte ritorna e piange nel fondo della chiesa, sotto la volta della tomba e raschia il marmo e a tutti i fedeli fa gelare il sangue.
C’è anche una terza donna e questa pure nelle storie che si raccontano è una donna disperata, la chiamano la Giana. Lei va girando di notte coi suoi capelli lunghi quando nelle contrade non c’è più nessuno e sta sempre nei pressi delle gallerie che portano agli accecanti labirinti, infrascata dentro i fossi dove le bestie fanno nidi e tane. Oppure se ne sta china ad una fonte dove l’acqua si fa scarlatta mentre lei immerge le sue braccia e piange e urla e lava i panni dei figlioletti morti di morte violenta e le sue urla strazianti sono incubi alle orecchie di chi viaggia. Chissà da dove arriva quell’acqua, se da un ruscello eterno e carsico. Chissà i figli della Giana chi l’ha uccisi, forse quei guerrieri inghirlandati che uscivano e entravano dai cunicoli ululando privi di rotelle. E chissà i panni sanguinolenti che la Giana lava, quale telaio li ha filati, quali mani. La Giana, la Janua, cioè la porta, la donna delle soglie, anche lei come Artemide che sta sul collimare di due mondi, l’animale e l’umano, il silvano e l’urbano, accanto una fontana che tutto specchia. Giana o Janua o Diana, la creatura dei campi e dei fiori, la signora dai mille nomi che le donne sue seguaci di notte andavano a trovare. Lei, l’orsa, la divinità boschiva dei Celti discesa, forse, dalle pianure siberiane al tempo delle grandi migrazioni. Lei si aggira da millenni, è una dea bianca e lunare e vegliava sul mondo prima di essere cacciata dai guerrieri che furiosi come il sole conquistarono la terra, bagnandola di sangue.
Di queste storie che riempiono il monte ora voglio dirvene una che non ho ascoltato o letto, ma che ho visto coi miei occhi ed essi ancora mi bruciano, a ripensarci. Perché proprio come le seguaci di Diana io una notte sono uscito dal mio corpo. Lei, la Dea, mi chiamava, si può dire? Sono sceso dal mio letto, sono volato sopra il monte ed i suoi campi in groppa ad una gatta bianca e mi sono ritrovato tra palazzine in mezzo agli alberi, in una zona militare con ancora appesi tutti i cartelli di limite invalicabile. Il mio corpo s’era fatto d’aria e io ho continuato a seguire il richiamo di Diana, di Giana, della Regina delle fate e dei convegni notturni e sono andato ovunque, oltre i cancelli e mura e ogni barriera, cosicché sono penetrato nel punto più segreto del giardino. Lo ribadisco: non so se ciò sia accaduto veramente o se tutto esca dalla grande bocca che genera racconti su racconti, storie facili a disseppellirsi se si cade in estasi. Nel punto più segreto del giardino c’è – manco a dirlo – l’ingresso di un immenso tunnel, una galleria che s’inabissa nel vuoto del monte, tutta venata di tubi rugginosi. Io sono entrato, ho varcato il cancello che come me era svaporato e camminando sono arrivato dritto fino a un vasto salone, largo e alto abbastanza affinché, per esempio, camion carichi d’ogni arma potessero farvi manovra. Sul fondo c’era una parete con una porta metallica e di fianco un largo bocchettone per il ricambio d’aria. Era la porta di un bunker antinucleare e sopra lo stipite d’acciaio ho letto la scritta “Zona vita” a vernice rossa. Sono entrato oltre, nella Zona, e alla mia destra c’erano vecchie stanze vuote, forse erano uffici, piccole celle di comando dotate un tempo di telefono o ricetrasmittenti o sa il diavolo cosa, una di fianco all’altra, identiche e moltiplicate ma ora sventrate e vuote perché si erano portati via tutto i militari, non si sa se un po’ alla volta o da una notte all’altra e rimaneva solo un’insensata proliferazione di spazi cavi. Non saprei dire quante e dove ubicate, ma c’erano scalinate che scendevano e salivano verso pareti cieche e murate, incapsulate dentro gallerie bianche e una di queste sboccava in superficie, dentro il bosco, ma era serrata da un cancello e un’altra ancora aveva feritoie sul tetto da dove penetrava un lucore tenue e malato. Allora sono tornato indietro e sono andato avanti fino alla stanza grande, l’ultima in fondo. Essa era diversa, foderata di pannelli, piena di scheletri di vecchi macchinari tutti allineati, di quadri elettrici, di massicci processori, di anime d’acciaio imbullonate alle pareti con cavi che pendevamo induriti dalla polvere. La funzione specifica di quegli attrezzi io non la conosco, dicono che fossero apparecchi per trasferire dati, che vi convergessero radar, informazioni d’ogni tipo, segreti inconfessabili o presunti su insurrezionalisti e spie, traditori e informatrici o infiltrati o avventuriere e via così. Certo è che in quella stanza bianca ogni storia si faceva informazione e dato da trasmettere in pulsioni elettriche o in sequenza di cifre che poi dal bunker, dalla cavità segreta del monte, uscivano e finivano davvero io non so dove, forse in pasto a creature aliene con antenne e denti a sciabola che ci guardano e ridono di noi e succhiamo i nostri sogni dagli abissi stellari. Io mi aggiravo sonnambulo o forse me lo hanno raccontato o ci sono arrivato una notte in volo come un seguace di Diana. Chi può dirlo? In fondo al monte, dentro di esso, nel suo cuore, solo il grande vuoto rimane, dove il tempo passato se ne sta sommerso, dove fluttuano i fantasmi di ciò che non è andato avanti, dove il futuro è tombato dentro un altrove che contiene tutto, le antiche ere e i secoli, le sue voci che si trasformano in sangue oppure in acqua.
(Racconto di Marco Benedettelli)