Mother Memory #2 ⥀ Alexis Rhone Fancher e Melinda Smith Altshuler

Oggi su Argo il secondo appuntamento con Mother Memory, la serie di pubblicazioni a cura di Toti O’Brien in anticipazione della mostra d’arte da lei organizzata a Los Angeles il prossimo agosto. La serie è interamente consultabile qui

 

Ho negli occhi un’immagine di Alexis Rhone Fancher su sfondo nero (una tenda o forse un paravento). Neri anche i suoi vestiti, i capelli, forse il cappello – eppure certo non si confondeva col background. Eravamo a inizio Covid e gli esperimenti su Zoom erano agli albori. Mi colpì quanto la sua presenza, a differenza di tante altre ancora titubanti, fosse incisiva. Quietamente, ma implacabilmente, riusciva a dissolvere lo schermo e infiltrare le emozioni degli ascoltatori – proprio come accade quando capita di incontrarla in carne e ossa e ascoltarla dal vivo. Mi stupiva che fosse stata invitata a partecipare a quella serie di letture poetiche, nota per i limiti rigorosi imposti agli autori in termini di contenuti e linguaggio. Prima di cominciare ha sorriso alla moderatrice e ha detto: «francamente ho avuto difficoltà a scegliere i testi… mi hai ammonita, “niente sesso, niente morti”. Che altro resta?» Per fortuna qualche cosa era riuscita a trovare.
Tra poesia e prosa poetica, i testi della Fancher partono sempre e solo dal cuore del problema. Senza perder tempo (e senza pretese, quasi in modo distratto) raggiungono l’organo vitale e si piazzano lì come fossero a casa loro, muovendosi senza alcun imbarazzo di stanza in stanza. Non c’è da stupirsi se a fine corsa sembra che l’autrice abbia sangue sulle dita. Che il noir faccia parte della sua ispirazione è stato detto e ridetto, ma a me sorge invece l’immagine di una levatrice, forse d’altri tempi – una che infila la mano, afferra, tira, non molla, non si gira mai a guardare dall’altra parte.

 

 

Sono stata una madre mediocre

e mio figlio è morto. Non sono riuscita a salvarlo e mi sono sentita inutile. Smarrita. Gli ho fornito ogni cura, ogni specialista, chirurgo, guaritore, ogni farmaco possibile e immaginabile. L’ho portato dagli Evangelici, ho pagato uno sciamano perché gli facesse uno scongiuro-a-botta-sicura. Sempre più disperata, ho fatto di tutto. Alla fine i santoni gli pregavano accanto, sussurravano che Gesù lo avrebbe guarito se credeva abbastanza. Lui diceva di sì, ma invano. I dottori dissero che asportando il tumore lo avrebbero salvato e operarono, ma avevano mentito. Amputato – e il cancro era lì, in agguato. Dai polmoni si sparse ovunque, un orrendo tsunami che me lo ha falciato a 26 anni.

In settembre saranno 17 dalla morte e ancora – ogni giorno – sgrano in mente come un rosario i momenti bui della fine. Quelle fitte al braccio destro che annunciarono il male. Il diniego iniziale – ci deve essere stato un errore – e poi il panico assoluto. Ogni visita medica, le speranze risorte e perse; quando poi il chirurgo lo dichiarò guarito e così tentò il Fato, che rincarò la dose rifilandogli un carico da quindici. Ripercorro ogni tappa – le stazioni del mio privato calvario – come se potessi fare qualcosa dopo tanto tempo, da questo futuro remoto. E mi chiedo che altro avrei…

Ho pensato a ogni minimo dettaglio. Come avrei potuto portarlo in Europa e accontentare ogni suo capriccio – una festa, una celebrazione gioiosa. Gli avrei fatto gustare la vita per intero, la vita di prima, per assaporare ogni momento rimasto. La mia vita, da allora? Più che altro una replica; vita e morte di mio figlio in loop, a getto continuo. Smettila, mi rimprovero ogni volta che apro la porta alla morte, ma non serve a nulla. Non posso evitarlo, anche se lo scenario non cambia ed è folle, lo so, raccontare la stessa storia, sempre, di nuovo, aspettandomi un finale diverso, quello in cui non muore.

 

I Was A Mediocre Mother, 

and my boy died. I could not save him. I was helpless, useless. I threw at him every promised cure, each specialist, surgeon and miracle healer, any breakthrough drug trial I could find. I took him to the Evangelicals, paid a shaman for his guaranteed-to-cure-you voodoo spell. You name it, I grasped at it with increasing desperation. Toward the end, the faith healers prayed over him, told him Jesus would heal him if he believed strongly enough. He said he did, but it was never enough. The doctors said they could cut the cancer out of my boy and save his life, so they did, but they lied. Maimed, and still the cancer lurked. From his lungs it spread everywhere; a deadly tsunami that decimated him at 26.

In September my son will be dead 17 years, and still, I run the dark moments of his demise over and over in my head every day like a rosary. The throbbing pain in his right arm that first announced the disease. The initial denial – there must be some mistake, and then the full-fledged panic. Each doctors’ appointment, our hopes raised, then dashed; how the surgeon pronounced him “cancer free” tempting Fate to respond by serving up an extra helping, big enough to drown him. My personal stations of the cross, I relive each scenario in my head, as if I could do anything about it now, all these years in the future. Still, I ponder, what else could I have done?

I’ve worked it out in fine detail. How I’d have taken him on a tour of Europe, indulged his every whim, life a feast, a joyful celebration. I would have let him have his wholeness, life as it was before the diagnosis, and savor the short time he had left. My life since then? Reruns, mostly; my boy’s life and death on repeat. Just stop! I chide myself, each time I open death’s door, but nothing changes. I can’t not do it, even though it’s always a rerun, and crazy is me, doing the same thing over and over, expecting a different outcome, the one where he doesn’t die.

 

Mother Memory
Melinda Smith Altshuler, Moving, Not Moving, istallazione, 183x183x97 cm, 2025

 

 

Dei nonni che arrivarono negli Usa senza nulla Melinda Smith Altshuler ricorda che «possedevano solo oggetti usati … imbevuti delle vite di altri, che aiutarono a costruire una nuova vita, la nostra … è da lì (come anche dalla mia attrazione infantile per un piccolo deposito di rottami che possedeva mio padre) che nasce la mia storia d’amore con gli oggetti e col tempo». Dal lavoro della Smith ho sempre ricavato un’impressione di ingannevole evanescenza. Le superfici diafane che predilige sembra lascino trasparire la luce (uno dei medium di cui magistralmente si serve) e invece la rifrangono; sembrano finestre aperte e invece sono specchi che rimandano a realtà a volte difficili da contemplare. Mobili e altri oggetti sospesi sfidano la gravità, quasi fossero frammenti di sogno. Ma non sono proiezioni né rappresentazioni. Al contrario, mantengono la loro struttura ordinata, rigorosa, implacabile – quasi un contrappeso alle forme eteree e nebulose cui si giustappongono, quasi a contraddire la loro stessa levitazione. Da tali paradossi emana un senso di mistero, e ad essere enigmatiche sono tanto le installazioni nel loro insieme – sorta di eleganti geroglifici – che ogni singola parte, ogni sedia, cornice, cassetto, libro o pagina sparsa.
Tra le opere selezionate per la mostra ho scelto di condividere Moving, Not Moving. «Alle sedie, – spiega l’artista, – ho aggiunto delle rotelle: sono pronte a partire, ma stanno ferme. Rotelle di ricambio sono lì in abbondanza, in caso dovessero servire». Le sedie sono decorate da un fregio delicatamente improbabile – pezzettini di carta fine come piuma, minimi frammenti di specchio che ricordano finimenti, bardature. La combinazione di nero e argento evoca un carro funebre – oppure, en passant, suggestioni di bondage, fasce, catene. «L’idea – dice la Smith – è quella delle false partenze, delle pause e regressioni che ognuno di noi sperimenta nel tentare di processare traumi d’ogni tipo, in particolare eventi luttuosi. All’inizio – aggiunge – tra le sedie avevo messo il telaio vuoto di un tavolo. In sogno ho capito che dovevo toglierlo. Sottraeva senso a elementi più cruciali. Forse possiamo farne a meno e provare a stabilizzarci da soli…»

 

 

 


Alexis Rhone Fancher risiede attualmente nel deserto del Mojave, a circa due ore da Los Angeles dove ha vissuto e operato a lungo come autrice e fotografa. Nota per la franchezza esplosiva dei versi erotici, per la raffinatezza delle foto urbane in bianco e nero, e per la combinazione dei due mezzi espressivi, la Rhone Fancher è stata ripetutamente nominata per il Premio Pushcart e ha vinto il Best MicroFictions award per il 2025. È autrice di dieci raccolte di poesia (tra le più recenti, Triggered e Brazen), e le sue opere sono state incluse in una miriade tra riviste e antologie. Una selezione di poesie tratte dalle prime cinque raccolte, Stiletto killer, è apparsa nel 2022 in traduzione italiana per le Edizioni Ensemble. https://www.alexisrhonefancher.com/

Melinda Smith Altshuler è un’artista multimediale che utilizza fotografia, disegno, oggetti trovati e materiali translucidi per comporre elaborate installazioni/sculture. Le sue opere sono state esposte in mostre personali e di gruppo negli Stati Uniti, in Italia e alla Biennale di Gerusalemme. Molti dei sui lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private. Associa alla sua pratica artistica l’insegnamento dell’arte (in scuole medie, licei, e a livello universitario) e attività organizzative o di consulenza nell’ambito di associazioni artistiche o culturali. La sua opera riflette un passato segnato da storie d’immigrazione e al contempo risponde a pressanti questioni attuali relative alla sfera ecologica e sociopolitica. http://www.melindasmithaltshuler.com/