Mother Memory #7 ⥀ Shahé Mankerian e Gina Lawson

Procede la serie di pubblicazioni Mother Memory, curata da Toti O’Brien e proposta da Argo come anteprima della mostra che avrà luogo alla Wonzimer Gallery di Los Angeles in agosto. Tutte le pubblicazioni sono visibili qui

 

Le poesie di Shahé Mankerian raramente superano la singola pagina. Non occorre che si dilunghino. Hanno il dono, più che della sintesi, della completezza. Sanno raccontare una storia che inizia proprio lì – spesso da un angolo, da un dettaglio che fa da grilletto perché la narrativa detoni, segua un’irreversibile parabola e immancabilmente raggiunga l’obiettivo, terminando dove comincia il silenzio, dove anche volendo non ci sarebbe nulla da aggiungere. Ma lo fanno sempre “di sbieco”, come riferissero aneddoti irrilevanti, direi come per scherzo, anche quando riferiscono orrori e paradossi di un’infanzia trascorsa a Beirut sotto le bombe. Il Libano in guerra degli anni ’70, l’immigrazione negli Usa, le dinamiche familiari a cavallo tra due culture sono i temi principali dell’opera di Mankerian, indissolubilmente intrecciati. C’è da chiedersi se lo sguardo con cui il poeta osserva la madre – inusualmente empatico e acuto – rifletta una sensibilità esacerbata dai traumi subiti o lo slittamento di prospettiva dovuto al passaggio da una cultura all’altra, con il relativo vacillare di regole e valori che altrimenti potrebbero sembrare immutabili. Sia la guerra col suo quotidiano portato di irragionevole lutto, crudeltà, distruzione, sia lo sbalzo da un codice di comportamento a uno completamente diverso scuotono i fondamenti delle credenze acquisite, impongono alla mente e al cuore di riconsiderare ogni cosa, di cominciare da capo. E infatti, qui come altrove, Mankerian riavvolge con gesto veloce la bobina per tornare al fotogramma iniziale e osservarlo ancora una volta, nel sospetto che alla guerra di fuori corrispondano ingiustizie non viste, consumate dietro una porta chiusa, vittime che nessuno lamenta.

 

 

Catturata

Mamma non ha sempre avuto riccioli da Medusa.
La foto in bianco e nero prima del matrimonio

la mostra sorridente, contenta, coi capelli
più scuri, labbra piene, occhi attenti. Questa

è mamma prima che si sposasse, prima del ’64
e delle serenate che le cantò mio padre

nei club sparsi per le aspre coste di Raoushé.
Era mamma senza figli o mariti vanesi

come pavoni, senza guerra in Libano. Con
il collo senza lividi e il seno senza tumori.

Senza età. Non guidava; camminava
e impolverava i pavoni al passaggio. Aveva

il capo eretto, né piegato né tinto, la donna che
non ho conosciuto ma un tempo, prima di questa

foto, è esistita. Poi sorrise e fu catturata.

 

Captured

Mother did not always have Medusa curls.
The black and white picture before marriage

shows mother smiling, content, with darker hair,
with generous lips, her eyes in focus.

This was mother before marriage, before 1964,
before Father serenaded her in jazz clubs

all along the rocky seashores of Raoushé.
This was mother with no children, no peacock

husband, no war in Lebanon. This was her
with bruisless neck and tumorless breast.

This was a woman ageless. She did not drive;
she walked, shooting dust on peacocks.

Her head erect, not titled or dyed. This was
a woman I did not know, existed once,

before this picture, smiled, and was captured.

 

Mother Memory
Gina Lawson, Brimming with Regalia, ceramica smaltata, 106x53x30 cm, 2023

 

 

Le sculture di Gina Lawson spaziano dal micro al macroscopico, spesso combinandoli tra loro. La figura umana è sempre presente, ma in misura del tutto imprevedibile. Funge a volte da paesaggio e a volte da dettaglio – ora da scenario e ora da arabesco, ornamento. Le proporzioni slittano con simile disinvoltura anche all’interno del corpo, di cui viene magnificata tale o tale altra parte, un piede, una mano, un orecchio – spesso l’intera testa, suggerendo in tal modo che quanto le si aggrega, ne fuoriesce o le cresce intorno sia la materializzazione di un pensiero, di un sogno o appunto d’una memoria. Le figure delle Lawson letteralmente “incorporano” la loro narrativa e poi se ne lasciano abitare, senza mai aspirare a un ruolo protagonista e scegliendo, piuttosto, di condividere i riflettori con una variegata profusione di forme animali e vegetali, una miriade di oggetti e altre figure, altri corpi, altri sguardi, altri punti di vista. Nascono così i piccoli o grandi universi fantastici dell’artista. A volte verticali, sovrapposti in guisa di totem, più sovente seguono imprevedibili parabole, incuranti d’ogni legge di gravità e innamorati invece del paradosso – liberi come liane nella foresta amazzonica o come nuvole in cielo. Non è solo però questo perentorio incarnarsi del ricordo e dell’immaginario che connette la Lawson al tema della mostra. Trovo pertinente anche la qualità singolare delle sue figure femminili, spesso multiple, interconnesse, in qualche modo “trasfuse” l’una nell’altra – come se perennemente si generassero a vicenda, così come della loro carne si nutre il metamorfico caleidoscopio che le circonda. Ricordiamo che sono fatte di terra. La materia (e la tecnica) usata dalla Lawson è sempre rigorosamente terracotta, il cui tono caldo deliberatamente traspare sotto gli smalti a crudo applicati con tocco fluido e la cui consistenza rugosa, irregolare, dice l’artista, «veicola un senso d’antico, di passato». Una terra feconda, come quella su cui riposano le creature della Lawson – quasi senza peso nonostante una solidità primigenia che si esprime però in modo quieto, sommesso, persino distratto. Queste donne dagli occhi immensi guardano altrove, in alto, di sbieco, a un puntino lontano sull’orizzonte. Queste donne dagli occhi aperti guardano dentro.

 

 

 


Shahé Mankerian è il preside della St. Gregory Hovsepian School di Pasadena e il direttore del settore educativo presso l’International Armenian Literary Alliance. Ha ricevuto il premio BRAVO assegnato dal Los Angeles Music Center ai più meritevoli innovatori nel campo dell’educazione. La sua prima raccolta di poesie, History of Forgetfulness, è entrata nella rosa finale di prestigiose competizioni quali la Bibby First Book Competition, Crab Orchard Poetry Open Competition, Quercus Review Press Poetry Book Award, White Pine Press Poetry Prize e Julie Suk Award, ed è giunta al secondo posto nella selezione per il Khayrallah Prize dedicato alla scrittura del Libano e della diaspora libanese. https://www.instagram.com/shahemankerian/

Gina Lawson Egan ha svolto gli studi artistici in Michigan per poi specializzarsi in ceramica alla Claremont Graduate University nella California del Sud, studiando con lo scultore Paul Soldner. Attualmente vive, lavora e insegna ceramica a livello universitario sempre nella California del Sud. Le sue opere sono incluse in collezioni prestigiose sull’intero territorio degli Usa. https://www.ginalawsonegan.com/