Narratologia del profondo ⥀ Alcune osservazioni su “Quando tornerai sulla terra” di Silvia Atzori
Chiarezza e oscurità, assenza e presenza sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano le poesie di Silvia Atzori, contenute nella raccolta Quando tornerai sulle terra (Arcipelago Itaca, 2024)
Fra gli elementi che caratterizzano Quando tornerai sulla terra (Arcipelago Itaca, 2024), la prima raccolta di poesie di Silvia Atzori, l’alternarsi di chiarezza e oscurità è forse il più significativo.
Il libro contiene dei riferimenti narrativi, menzionati esplicitamente solo in alcune delle sue parti. Tuttavia, vi sono indizi della loro presenza anche altrove. Nelle sezioni centrali, infatti, viene descritto un evento traumatico che può fare luce anche sui passaggi precedenti, poiché permette di spiegare i cortocircuiti che si verificano spesso tra gli interventi lirici e le circostanze descritte.
Il risultato è un’opera che traccia un movimento non lineare fra presenza e assenza, lucidità e rimozione.
Le fotografie di Elena Fornasieri, riprodotte all’interno delle quattro sezioni in cui si divide il libro, ne costituiscono una rappresentazione visiva.
A questioni analoghe si riferiscono anche le citazioni riportate in esergo, fra cui i versi di Kenneth White e il passaggio dal Perturbante di Freud, dove viene sottolineata l’ambivalenza del nostro vissuto individuale, sempre sospeso tra esterno e interno, superficie e profondità.
Infine, la figura di Proserpina, emergendo periodicamente come accade nella tradizione mitologica (fatto a cui forse si riferisce il suo nome, dal latino proserpere, emergere), costituisce un amuleto bibliografico, un’allegoria autorevole del nucleo sommerso dell’opera.
Come anticipato, nella prima sezione del libro, dal titolo Descensus, si evidenzia un forte contrasto tra l’intensità drammatica di certi passaggi e il contesto da cui scaturiscono.
La figura che vi compare è sempre in movimento, tra corse in treno, stazioni, viaggi in auto, etc. Nonostante fornisca numerosi dettagli su ciò che la circonda, però, il suo sguardo è anche rivolto altrove. Nei testi, infatti, si producono spesso delle interferenze, passaggi dove la tensione espressiva risulta apparentemente slegata dagli eventi del mondo: «Il treno per B.: un solo/schermo alla violenza di novembre,/ gli azzurri senza strazio sul binario/quindici. L’archetipo del lutto». Analogamente, dopo aver descritto una violenta grandinata, l’io poetico afferma: «Ho pensato forse d’imprevisto/si può anche morire/di schegge d’occhi ancora affilate».
Come si può riscontrare, tra le circostanze descritte e le conclusioni che ne trae la protagonista, c’è un notevole dislivello emotivo. Di esso, però, non viene fornita alcuna spiegazione. Il flusso poetico, insomma, è segnato da continui sprofondamenti: «La vita è altrove sulla terra e qui/apertura porte a destra/qui ormai non è rimasto nessuno».
Più che determinare linearmente un vissuto emotivo e esistenziale, qui la quotidianità genera un sentimento che può essere descritto come la versione convessa del presagio: non è la suggestione che si avverte quando un evento drammatico sta per verificarsi, ma il disagio prodotto dalla sensazione che qualcosa sia già avvenuto, anche se non sappiamo cosa.
La seconda parte della raccolta si caratterizza per una maggiore limpidezza, anche in virtù del contrasto con la sezione precedente.
Nonostante la temperatura emotiva dei testi non subisca particolari cambiamenti, essa risulta più coerente con le circostanze descritte. La seconda sezione di Quando tornerai sulla terra ne delinea subito i contorni, rendendo evidente la presenza di un evento traumatico, fin dal titolo (Prognosi), e dai primi versi: «Ricordo: la crosta dietro la testa sotto/il rigonfiamento del cranio tirava/i capelli troppo lunghi sul cuscino». Diversamente dal distacco che aveva caratterizzato la prima parte del libro, qui la relazione tra la voce poetica e la realtà risulta più diretta. Il dolore non ha più la forma di apparizioni sconnesse, solo innescate dagli eventi del mondo, ma assume una consistenza solida, e un’ubicazione concreta che talvolta viene indicata con precisione anatomica: «L’encefalo è coperto da membrane, nel suo caso/lo spazio assediato era sotto l’aracnoide», e ancora, dalla stessa poesia, «Gli occhi/pagano ancora col difetto il marchio/lasciato nella zona occipitale».
Se, come è stato sottolineato, il tono di queste composizioni conserva il grado di intensità che caratterizzava Descensus, qui il testo assume una forma più organica, acquisendo una nuova leggerezza.
Di descrivere questo cambiamento se ne occupa, di nuovo, la prima poesia della sezione, che sempre più prende le sembianze di testo programmatico, auto-esegetico: «Non mi piace ma devo:/-Inquinare/-Curare/-Reinventare il rimosso».
Inoltre, a questo proposito, è opportuno segnalare la presenza di alcuni dettagli che contribuiscono a spostare gradualmente l’asse emotivo dell’opera.
Infatti, in entrambe le sezioni, anche quando è rivolto verso l’esterno, lo sguardo si trova alle spalle di una membrana fisica (prima i finestrini di treni e auto, ora le finestre di una stanza di ospedale). Qui, invece, il mondo esterno riesce in qualche modo a superarla: «Eppure,/la vena si è aperta di nuovo. La ragazza è senza postura, la spina dorsale deve essersi sfilata. Non le resta che strisciare, oppure lasciare che il vento la scuota/con l’aria entrata al posto delle vertebre».
Fanno inoltre la loro comparsa, altrettanto di soppiatto, animali con cui la figura ferita sembra identificarsi, e riferimenti a un mondo naturale meno minaccioso, capace di mostrare compassione: «Il corpo dell’animale, un impasto/di tessuti e cemento ha radunato/le foglie come un velo funebre»; «Hai pregato/perché qualche ala lo togliesse dalla strada».
A differenza di quanto accaduto tra Descensus e Prognosi, la terza sezione della raccolta non fa segreto della continuità con quella precedente. La poesia di avvio de Il gioco della catastrofe, infatti, intitolata 0 (quasi a volerne sottolineare, come era già accaduto, la funzione di proemio) agisce come un ponte: «Celebro ancora l’anniversario, quando/la bambina si è lasciata/sfuggire anima e sangue sul marciapiede – luglio/per sempre ferito sull’asfalto».
A partire da qui, i riferimenti a tale episodio vanno e vengono, sfumando, ricalcando il ritmo lento e non lineare dei processi di guarigione. È la stessa voce poetica a suggerirlo, in uno dei testi più espressivi della raccolta: «La resistenza tra le forbici ha ceduto e tu/sacrifichi di nuovo i tuoi capelli./La prima volta è stato dopo il danno./La seconda prima del giudizio./Cresceranno nell’ordine, dalla castrazione/di centimetro in centimetro lenti/come una guarigione».
La rarefazione progressiva di questo fil rouge, che prosegue anche nella sezione conclusiva del libro (Due nomi), è fra gli elementi che impediscono al testo di assumere una forma unicamente antologica.
Infatti, anche se affiora con minore frequenza, esso permette di identificare le nuove ramificazioni tematiche che emergono come elementi di un vissuto più stratificato, complesso e tridimensionale, a cui la guarigione sta lasciando spazio.
È questo il caso della seconda voce, segnalata all’inizio delle poesie con la lettera P, che affianca quella della protagonista nella quarta sezione del libro: senza rappresentare univocamente un personaggio autonomo, essa rivela una nuova apertura verso l’Altro, la cui presenza era stata finora incostante, se non marginale.
Rilevanti, allo stesso modo, sono le prime escursioni nel mondo esterno di un corpo che finora si era limitato a frequentare ambienti chiusi, dai quali osservava sé stesso e il mondo attraverso membrane di vario genere. Inizialmente la possibilità di uscire viene solo menzionata: «Uscirebbe in strada se non fosse/per la ruggine sul cancello, per il nome/che sbiadisce sul cartello all’inizio della via, per il cielo/cianotico e senza pronomi». Subito dopo, però, racconta la protagonista: «abbiamo fatto due passi/via M. scongiurando la lucertola/che strisciava con la coda mozzata».
In questa sezione, a differenza delle precedenti, i luoghi non presentano l’atmosfera minacciosa della grande metropoli. Permettono infatti alla voce di riprendere fiato: «la città/si incolla addosso molto presto, ma io/riesco ancora a dimenticarla./Qui ci vengo per pregare, ma fuori dal santuario/la terrazza sui monti fa sperare/in un qualche tu che ascolti».
Sono luoghi modesti e familiari, capaci di mostrare compassione: «Casa sono ottanta metri quadri in un paese/ancora più ristretto, ma in fondo/alla via, sullo sterrato, la/pietà senza giudizio dei sentieri».
Se questi versi invitano lo sguardo a prolungarsi oltre la drammaticità delle esperienze vissute, l’apparizione finale di Proserpina ristabilisce l’equilibrio emotivo della raccolta. Ritornando sinteticamente su ciascuno dei temi che la caratterizzano, la poesia conclusiva ne rivela la struttura complessa e circolare, mostrandola a figura intera. Lo spessore di Quando tornerai sulla terra, infatti, non si esaurisce nelle tracce narrative che lo attraversano, e lascia spazio a affioramenti lirici dal carattere aperto e trasversale. Il risultato è un’opera intensa e viva, capace di alludere senza lasciarsi afferrare.
(Nicola D’Altri)
⥀
XIV
È una città quasi priva d’aria, quella
che c’è pare illusione ottica.
Qualcuno muove da lontano e con pigrizia
gli oggetti uno per uno: tutto
è denso di polvere
e sole, polvere e sole.
Gli occhi ci si abituano e si schermano di giallo, fanno
la loro patina la cancrena
del caldo sui muri allucinati.
Senza riparo: cadrà su tutti.
Forse è per questo che hanno detto
realismo magico forse
per questo da piccola mentivo, per vedere
la finzione
staccarsi dalla lingua e camminare.
IV
La resistenza tra le forbici ha ceduto e tu
sacrifichi di nuovo i tuoi capelli.
La prima volta è stato dopo il danno.
La seconda prima del giudizio.
Cresceranno nell’ordine, dalla castrazione
di centimetro in centimetro lenti
come una guarigione.
Non volevo che niente
andasse sprecato e il pensiero striscia dentro, grida
la biscia sotto il piede dentro il campo, i marcatori
per segnare gli animali
quelli vivi dai morti. L’offerta
si distingue facilmente.
Casa
Essere ombre ha i suoi vantaggi – penso
ma non ha i pini ai lati delle strade
con l’odore delle pigne aperte, bocche
in attesa dello scambio, non si sente
il brusìo delle foglie ai cancelli.
Casa ha questa piccola
difesa di retroguardia San Pietro
in silvis un nome in potenza, ma mi dice
poco o nulla la croce
tesa con le braccia spalancate.
Casa sono ottanta metri quadri in un paese
ancora più ristretto, ma in fondo
alla via, sullo sterrato
la pietà senza giudizio dei sentieri.
Silvia Atzori (1998) è nata in Provincia di Varese, dove vive e lavora come insegnante di lettere.
È laureata in lettere moderne presso l’Università degli studi di Milano, dove si è dedicata soprattutto allo studio della poesia italiana del secondo Novecento. È redattrice di Medium Poesia. Suoi testi e articoli sono comparsi su diverse riviste, testate giornalistiche e blog. Ha partecipato ad alcuni progetti legati alla scrittura poetica, tra cui la prima edizione del laboratorio La poesia si fa città, presso l’Università IULM. Nel 2023 è risultata tra i vincitori di Pordenonelegge Esordi.