Nel centro dello sguardo, come neonati – Su Libretto di transito di Franca Mancinelli
È un verso ben integrato nelle brevissime prose, quello che Franca Mancinelli dà alle stampe nel suo Libretto di transito, uscito nel maggio del 2018 per la Casa Editrice Amos 27.
Un Libretto che si pone in naturale continuità con le precedenti e pregevoli opere di Mancinelli – Mala kruna e Pasta madre – con una conferma per la ricerca del dettaglio e l’apertura verso la dimensione del silenzio, che si concretizza nelle pagine lasciate bianche, per alternare il suono della voce a quello della pausa.
Nell’opera si tratteggiano scene di vita quotidiana che colgono la minuzia con precisione e puntualità: un dato che può sembrare banale assume qui una luce nuova, grazie alla poesia che osserva le cose con uno sguardo ospitale, che resta in attesa e si pone in ascolto… per riemergere dalla nebbia, spalancare «un altro spazio nella mente» e lasciarsi attraversare: «La mattina qualcosa nel tuo corpo si muoveva: un’acqua attraversata dalla sua corrente».
Ecco la metamorfosi che accade in modo quasi impercettibile, nella consuetudine dei gesti: è il transito, ciò che per legge di natura porta il cambiamento, con la crescita e la maturazione. Questo passaggio si impone come un dovere, per entrare nel mondo adulto: «Cresco ancora nel buio, come una pianta che beve dal nero della terra. Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte. […] … è una privazione a cui ti hanno abituato.» E lascia presagire come il passaggio da uno stadio della vita ad un altro non sia mai veramente accettato, poiché «la pura infanzia dell’acqua ne è scossa, e infranta fino al suo letto di sabbia». Da qui il desiderio di una condizione di purezza, di un mondo segreto che si può riconoscere nello stato originario delle cose,
Alcuni testi, in corsivo, raccontano del viaggio comunemente inteso: su un treno, si dorme, si ascolta «il rumore che fanno le rotaie sul ponte», si accetta quell’evento con una fitta di dolore, per non turbare l’infanzia, per non strappare gli occhi a quel mondo «Così fanno gli adulti, nascondono per proseguire».
Come avveniva in Pasta madre, è fondamentale in questo libro l’elemento rituale, che nomina gesti ripetuti, azioni che danno (o tolgono) senso al giorno: «È sempre qui che ci incontriamo», «La mattina alzandoci reggiamo una brocca sulla nuca. […] Ma ciò che conta è che la brocca posi di nuovo sulla nuca la mattina dopo».
E come nelle raccolte precedenti, anche qui la parola si rivolge ad un tu: un interlocutore di volta in volta indefinito, mutevole, enigmatico… Un tu che può essere umano, animale, vegetale, dal momento che questa poesia è fortemente abitata dall’elemento naturale – l’albero, la pianta, l’animale – con caratteri antropomorfi, che arriva persino a fondersi con l’uomo. Si generano visioni suggestive, a tratti magiche che hanno il potere di evocare la sacralità della natura, in una dimensione ancestrale, in cui l’uomo tende a scomparire. O dove di umano resta solo la voce: una voce commossa, capace di pronunciare la fatica, il dolore, lo sforzo che la vita richiede: «Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più.»
Una necessaria fragilità attraversa le pagine, conduce la parola verso una possibile ‘incarnazione’ originaria: l’esserci per la terra, per l’acqua, per l’argilla, per l’aria, e per ogni elemento che ci percorre: «Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. […] Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo…».
Libretto di transito raccoglie in una manciata di testi (33 per la precisione, numero per altro significativo) la grande forza visionaria di questa autrice. La sua voce pacata, ritraendo dettagli apparentemente insignificanti, riesce a spalancare scenari onirici, riflessioni sui temi della vita, silenzi, fratture interiori, fotogrammi che racchiudono vicende enigmatiche intrise di una vena nostalgica, regalando un sapore amaro all’atto del transitare. E sebbene ogni viaggio ci porti a scoprire qualcosa di nuovo, nel momento della preparazione e della partenza – e nel momento stesso del transito- siamo costretti a lasciare indietro pezzi di noi. Quelle parti rifioriscono dentro come piante dal frutto velenoso: noi le avvertiamo, in un grido insaziato, le sentiamo premere nella loro mancanza. Mancinelli trova sempre il punto di dolore, la scheggia che non può sottrarsi alla parola. È la sua capacità chirurgica, ponderata, di selezionare e porre al centro dello sguardo della poesia l’essenziale.
Ti chini verso una pozza di fango. Porti le mani sul viso
e lo fai scuro. Resta l’incavo degli occhi. Dalla punta
delle dita alle spalle ti accarezza la terra. Il bianco dei
denti chiama le ossa sommerse. Un grande animale
marino dorme sotto la sabbia. Il rito è quasi concluso.


Rossella Renzi
Rossella Renzi in poesia ha pubblicato: "I giorni dell’acqua" (L’arcolaio 2009), "Il seme del giorno" (L’arcolaio 2015), "Dare il nome alle cose" (Minerva 2018), "Disadorna" (peQuod 2022); il saggio in E Book "Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola" (Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana “Territori” per cui ha curato il volume "Argo 2020 L'Europa dei poeti". Con altri autori ha curato "L'Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie" e numerosi Annuari di poesia. Conduce Novissime, podcast mensile di poesia e letteratura, insieme a Lello Voce. Collabora con l’Associazione Independent Poetry attiva nell’organizzazione di eventi sul territorio romagnolo. Si è laureata nel 2003 all’Alma Mater di Bologna col Professor Alberto Bertoni, con una tesi su Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento.
mi sembra che nl nostro paese….le poesie le scrivano meglio le donne