Neruda | di Pablo Larraín | recensione di Enrico Carli
Genere: Biografico
Durata: 107 min.
Cast: Luis Gnecco, Gael García Bernal, Alfredo Castro, Mercedes Morán
Paese: Argentina, Cile, Spagna, Francia
Anno: 2016
“La poesia è azione”. Nel Cile degli anni cinquanta due giovani poeti, Alejandro Jodorowsky e Enrique Lihn, si misurarono con questa affermazione del futurista Marinetti decidendo di attraversare la città in linea retta, senza mai deviare. Quando si imbattevano in un albero, si arrampicavano in cima e continuando a conversare discendevano dall’altra parte. Se sul loro percorso c’era un’auto, la scavalcavano salendo sul parabrezza. Di fronte a una casa suonavano alla porta e uscivano dal retro passando, se necessario, attraverso una finestra. Questi aneddoti sono raccontati nel libro di conversazioni con Jodorowsky Psicomagia. A questo punto l’intervistatore chiede: “Chissà quanti problemi avete avuto…”. Jodorowsky risponde così:
No, perché? Dimentichi che il Cile era un paese poetico. Ricordo di aver suonato a una porta e di aver spiegato alla signora che ci era venuta ad aprire che eravamo poeti in azione e dovevamo attraversare la sua casa in linea retta. Lei ha capito perfettamente e ci ha fatto uscire dal retro.
Questa introduzione per meglio comprendere, solo due anni prima, l’emissione dell’ordine di arresto al poeta cileno Pablo Neruda da parte del presidente Videla. La poesia, in Cile, era pericolosa. Perché era amata, perché era azione, perché il suo più celebre rappresentante era un senatore comunista.
È da qui che prende il via il film di Pablo Larraín. Videla incarica un investigatore di arrestare e umiliare Pablo Neruda, e il poeta è costretto alla fuga e all’esilio che lo porterà, tra gli altri luoghi, a “passare” per la finestra di Michael Radford e Massimo Troisi nel film Il postino, che idealmente si affaccia laddove questo sipario si chiude, nei giorni dell’esilio di Neruda a Capri. Ma, prima, c’è la Cordigliera delle Ande, l’Argentina e, attraversato l’oceano, Parigi (nella capitale francese Neruda frequenterà Pablo Picasso).
E questo è anche, più o meno, tutto ciò che c’è del biopic in Neruda. Il resto ce lo mettono lo sceneggiatore Guillermo Calderón e l’ormai quasi intoccabile regista cileno Pablo Larraín, che a soli quarant’anni sembra già essere un maestro indiscusso per l’impegno politico del suo cinema e il taglio particolare con cui racconta le dittature che si sono succedute in Cile (premi in ordine sparso: nomination all’Oscar per il miglior film straniero nel 2012 con No – I giorni dell’arcobaleno; Gran premio della giuria nel 2015 per Il club al Festival internazionale del cinema di Berlino; miglior film, Tony Manero, e migliore attore Alfredo Castro al Torino Film Festival nel 2008).
Perché il resto, l’inseguimento e l’ostile ammirazione da parte dell’ispettore di polizia Oscar Peluchoneau (Gael García Bernal), nemesi di Pablo Neruda (Luis Gnecco), è invenzione letteraria stratificata, voce narrante dal tono strampalato in cui convivono invidia, sarcasmo, adorazione, superbia e ricercatezza. Questo impettito esecutore del potere è deciso ad ammanettare il poeta fuggitivo, è il suo compito e lui un orgoglioso funzionario dello stesso governo che il poeta comunista offende col suo essere prima ancora che un membro del senato (un senato che include orinatoi e lavabi) un libero pensatore e amante. “Le donne immaginano che Neruda faccia l’amore con una rosa in bocca”, dice di lui il pragmatico investigatore.
Se i colori desaturati e l’ambientazione retrò sono una maniera consueta nell’opera del regista attraverso cui raccontare la storia politica del suo paese, questa pervasiva voice-over è nuova nel suo cinema laconico. Può ricondursi ad opere più verbose, come per esempio Il club, nella rappresentazione di individui che con le loro parole celano agli altri l’orrore di cui sono imputabili, però nel caso di Neruda nello spettatore viene come a insinuarsi, durante l’ascolto dell’irritante soliloquio dell’ispettore Peluchoneau, uno stato d’animo che sebbene non sia privo di affascinante ambiguità, di contro lascia troppo presto intuire gli esiti del racconto di finzione.
Non è un cineasta da colpi di scena, Larraín, ed è certo più interessato ad essere disturbante che accondiscendente verso un cinema d’intrattenimento fine a se stesso, eppure qui si ha la sensazione che questo programmatico proposito all’urticante appesantisca uno dei suoi film altrimenti più libero e leggero come i versi del poeta di cui narra.
Senza voler svelare altro della storia, che terminerà in un tallonamento sulla Cordigliera delle Ande (“l’onda di terra che aggetta sulla pianura argentina” la definisce, cito a memoria, Peluchoneau), l’afflato allegorico del triste e invidioso omuncolo vuole sì simboleggiare l’impotenza dell’oppressore nei confronti della bellezza e della libertà, che desidera a sua volta castrare per rendere più simile e anzi inferiore a sé il poeta fingitore (“vattene pure così passerò i prossimi vent’anni a scrivere su di te”, dice alla moglie Delia uno sdegnato Neruda), e con lui quella parte di Cile che capisce la poesia e la respira, ma dopo un po’, pur essendo testo e sottotesto di innegabile buona fattura, ci si annoia senza ricompensa finale, perché il discorso non va oltre il già visto/sentito. La domanda interessante in questo genere di epilogo, a me pare (ma anche la più pericolosa nel suo svolgimento), non è tanto chi ha inventato chi, né in che misura si deve onorare questa relazione, ma cosa succede quando ci si trova al cospetto del proprio creatore.
In molti hanno già dato anche qui, è vero, ciò non toglie che il demiurgo abbia di caso in caso le più diverse intenzioni, l’ignoranza del personaggio di finzione è invece subordinata allo scopo principale della sua ricerca, a maggior ragione quando il punto di vista è “suo”. La narrazione si avvolge su se stessa, in questo caso. I sei personaggi in cerca d’autore di pirandelliana memoria, diventati uno, non hanno più dalla loro una coscienza che indaga, ma solo l’agnizione ultima che riconosce il “divino mandato”. Con buona pace del braccato Neruda negli anni in cui Jodorowsky e Lihn tiravano dritto per le strade.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it