Noe Itō, l’anarchica del Sol Levante

Francisco Soriano racconta la tragica storia di Noe Itō, vittima dell’eccidio più efferato della storia del Giappone ai danni di una cittadina che aveva la colpa di essere diventata un riferimento politico del femminismo giapponese. L’intera biografia di Noe Itō è stata scritta dallo stesso Soriano, pubblicata lo scorso anno (2018) per Mimesis Edizioni

I tetti si incenerirono nel turbinio dei fuochi e l’asfalto si sciolse in rigagnoli di fluidi che lambivano fino alle caviglie gli inermi cittadini in fuga. Dopo che il terremoto si prodigò per lunghissimi minuti alla distruzione di ogni cosa, si abbatté violentissimo il tifone che sopraggiunse dalla penisola di Noto, con la sua oscura falce di morte. Dalla pianura del Kantō si ergevano fumi e steli vorticosi di fuliggine, polveri in sospensione e odore acre di combustione. La baia di Sagami fu sommersa da detriti e ululati di bestie impazzite, grida di esseri umani ustionati e schiacciati dalle macerie, digrignanti dolore e terrore. L’isola del Honshu divenne la Torre del Silenzio di un popolo in ginocchio. Era il primo settembre del 1923.

La luna sopraggiunse immediata come un bottone obliquo incastonato nel suo velluto funereo. La tragedia che colpì Tōkyō, Yokohama e tutte le altre città rase al suolo delle province delle aree circostanti di Chiba, Kanagawa e Shizuoka, nel 1923, fu denominata Grande Terremoto del Kantō. Nella memoria collettiva giapponese, il sisma rivelò non solo gli straordinari poteri della natura, ma anche gli incredibili abissi che si nascondono nel cuore umano. Il grande regista giapponese Akira Kurosawa, spettatore giovanissimo del Grande Terremoto del Kantō, così riportava nella sua autobiografia spiegando le dinamiche che si innescano nei momenti più tragici vissuti dagli uomini:

Gli esseri umani sono delle bizzarre creature: se vengono sorpresi dal terrore troppo bruscamente, una parte del loro cervello resta come in disparte, stranamente calmo, seguendo dei pensieri totalmente estranei alla situazione.

Il governo instillò timori infondati e artificiosi perché fece passare l’idea che, grazie a subdole trame, bolscevichi e rivoluzionari avevano l’intenzione di prendere il potere: la paura divenne un pretesto per avere mano libera nella persecuzione e soppressione fisica degli oppositori politici. Con la scusa di evitare atti di sciacallaggio che proliferavano in quel momento, i militari vollero avere un controllo più capillare del territorio e le mani libere per compiere crimini efferati e impuniti. I giapponesi rinviarono al mittente gli aiuti dei russi che erano stati spediti per dar sollievo alle vittime del sisma. Le autorità nipponiche ritenevano che, insieme ai viveri e alle medicine, potessero essere scaricate non meglio identificate sobillazioni sovversive. Fu il tempo di una sistematica e programmata caccia alle streghe: ebbe inizio la ricerca dell’untore e moltissimi cittadini indifesi rimasero uccisi nei linciaggi dalla folla inferocita e aizzata dalle false notizie diramate dalle autorità nipponiche. Fu il gesto criminoso che intendeva cancellare nella coscienza collettiva l’onta di un male oscuro, di un fantasma demoniaco nascosto ma immanente, opportunamente alimentato nel momento più drammatico per il popolo giapponese, colpito da un sisma tra i più devastanti della sua drammatica storia.

In quel settembre del 1923, in cui il il Paese del Sol Levante venne travolto dalla tragedia e a poche ore dall’evento sismico, forze di sicurezza denominate Kempeitai, si misero alla ricerca della famiglia Ōsugi. Noe Itō, anarchica e femminista, compagna di Sakai Ōsugi, era già conosciuta alle autorità di polizia per il suo brillante attivismo sociale e politico. Nel marasma di rovine, corpi falcidiati e bruciati, strade interrotte e fiumi incandescenti, la polizia riuscì a occuparsi di cittadini comuni e di anarchici, socialisti e comunisti, antagonisti, riservando loro un trattamento degno dei peggiori regimi. Inoltre, nell’immane dramma, i militari eseguirono veri e propri rastrellamenti di cittadini di etnia coreana, rei di aver avvelenato le acque e compiuto gesti di sabotaggio ai danni del Giappone e del suo popolo. Le presunte azioni di questi poveri malcapitati mai furono dimostrate né documentate, ma solo pubblicizzate a mezzo stampa e alimentate con dicerie prive di ogni certezza e riscontro. L’eccidio fu servito. La gente stremata ed esaltata dalla rovina e dalla povertà, dal dolore e dall’alienazione che il terremoto aveva procurato, partecipò attivamente alla caccia all’uomo e all’omicidio di innocenti con la costituzione di collettivi di vigilanti e squadracce della morte. Migliaia di coreani e, addirittura, di giapponesi, scambiati come stranieri solo per aver avuto la colpa di possedere un accento diverso o perché si ritrovavano con una folta barba in volto, vennero trucidati e torturati fino alla morte per estorcere confessioni che mai avrebbero potuto pronunciare.

La famiglia Ōsugi era bene in vista nella società giapponese: la giovane e fascinosa Noe Itō era una impavida giornalista, militante anarchica e femminista; il nipote di sei anni si trovava solo per caso presso gli zii al momento dell’arrivo della polizia. I tre vennero prelevati e condotti in una caserma poco distante. Picchiati e sfigurati dalle botte subito dopo essere stati intercettati e insensatamente arrestati, furono uccisi e gettati in un pozzo accuratamente coperto da un ammasso di pietre. Gli Ōsugi rappresentarono il capro espiatorio per eccellenza, il nemico da annientare contro il pericolo imminente di un golpe anarco-comunista. Il sacrificio dei tre fu l’emblema del potere che si rigenerava nel più efferato dei delitti, che si ergeva a custode e giudice di un male oscuro da combattere a tutti i costi seppur con la bonifica di intellettuali inermi, attivisti e stranieri sgraditi, ritenuti tutti pericolosi nelle vesti di sabotatori dell’amor patrio e di insubordinati al dogma dell’obbedienza alle sacre istituzioni. È la storia tragica di Noe Itō, vittima dell’eccidio più efferato della storia del Giappone ai danni di una cittadina che aveva la colpa di essere diventata un riferimento politico del femminismo giapponese. La repressione fu senza esclusione di colpi. I partiti che apparivano tra i più radicali vennero presto vietati e i giornali sistematicamente sottoposti a censura o costretti a ubbidire nel diramare informazioni: furono sospesi e condannati coloro i quali non erano allineati con le scelte dettate dal potere costituito. Cominciò, in questo modo, la tutela a ogni costo dell’ordine pubblico e si consolidò l’ideologia dell’emergenza che impone forza e inflessibile violenza. Le riunioni pubbliche e i congressi dei movimenti politici antagonisti furono interdetti o controllati dalla polizia. In venti anni, fino al 1945, più di 75.000 persone furono attenzionate, imprigionate, interrogate e torturate. Le vittime furono sottoposte a regimi detentivi inumani e di inusitata efferatezza: riuscirono a malapena a sopravvivere. Le formazioni politiche più reazionarie e le forze dell’ordine riuscirono a creare un clima culturale di aggressione e di ossessivo consolidamento della sicurezza e dell’ordine. Pertanto, si sospesero garanzie e diritti e si riscrissero le regole del quadro legale del Paese. La prova dello stato ambientale dell’epoca, può essere riscontrato nelle dichiarazioni del torturatore, il capitano Amakasu Masahiko, giudicato per i suoi crimini dal tribunale di guerra: fu lui che eseguì con successo la spedizione punitiva contro la famiglia Ōsugi. Amasaku, noto per il suo sadismo, affermò di aver strangolato Noe Itō e gli altri componenti della famiglia dopo averli bastonati con le proprie mani e un rastrellamento contro elementi rivoluzionari, aggiungendo testualmente di aver agito per l’amor di patria e nel timore che l’anarchico potesse suscitare dei disordini nella difficile ora del terremoto. Inquietanti e raccapriccianti i contributi giornalistici di quel periodo pubblicati con l’avvallo del ministero dell’Interno: il ministro si operò in una riuscita e capillare campagna d’odio nei confronti dei coreani e degli anarchici al fine di giustificare la legge marziale da lui stesso decretata. Si temette l’insorgenza di una possibile protesta della gente e una conseguente deriva tra società civile e potere imperiale. Le istituzioni corsero ai ripari: accettarono in parte le accuse e cercarono di derubricare gli omicidi in incidenti, ammettendo l’eliminazione di altre centinaia di cittadini individuati come pericolosi sovversivi in quel frangente drammatico del sisma. È così che, l’incidente o meglio definito come il caso Amasaku, costrinse il capitano torturatore a subire un regolare processo per i crimini commessi dalle squadracce da lui guidate. Amasaku venne condannato alla pena risibile di dieci anni, da scontare nel penitenziario di Chiba: una beffa, se si considera che due anni dopo verrà reintegrato nell’esercito di Hirohito senza perdita del grado di capitano e beneficiando dell’amnistia generale in occasione dell’ascesa al trono dell’imperatore. Noe Itō subì la morte da lei stessa prevista: prima stordita di botte e poi strangolata, infine gettata in un pozzo.

Certa fu la notizia che nei quindici giorni successivi al sisma, almeno altri quattordici attivisti operai furono imprigionati e assassinati in una caserma, forse con le medesime modalità criminali a cui era stata sottoposta la famiglia Ōsugi. Il panico instaurò dinamiche illogiche e istintive, le voci tra la gente non facevano altro che accrescere il terrore: c’era chi affermava che al momento dell’incendio dovuto all’evento sismico, alcuni socialisti avessero agitato le bandiere rosse gridando banzai, al cospetto delle fiamme divoratrici della società capitalistica. A Yokohama si affermava che anarchici e socialisti divisi in gruppi insidiassero la vita e i beni dei cittadini. In pratica, si sosteneva che alcune formazioni avessero avuto l’incarico di appiccare gli incendi, di avvelenare le acque e di attuare dei veri e propri massacri. Si narrava di moti rivoluzionari a Tōkyō e Osaka e dell’assassinio di un numero elevato di ministri e della fuga del Tenno. Non da meno le accuse ad americani e russi che avrebbero tramato contro il Giappone, i primi invidiosi di un Paese in crescita, i secondi invece intendevano instaurare un regime bolscevico. Poco mancò che si scatenasse una furia omicida e xenofoba anche nei confronti di altri cittadini stranieri che invece si limitò ai poveri coreani e agli estremisti giapponesi che intendevano sovvertire il potere. Ad Omori, città tra Tōkyō e Yokohama, fu la stessa polizia che gettò l’allarme contro il coreano assetato di vendetta, garantendo impunità alla popolazione civile che ben si attivò nella formazione di milizie composte da cittadini comuni. A Yokohama una trentina di coreani furono arsi vivi dopo essere stati legati agli alberi in un parco; a Saitama furono assaltati dei camion nei quali vi erano coreani arrestati che presto vennero trucidati, alcuni torturati finemente e con crudeltà, altri ancora furono accecati o fatti a pezzi.

Proprio nei racconti e nelle citazioni sulla vita di Noe Itō, famoso rimane il breve aneddoto raccontato da Bertrand Russell nella sua autorevole autobiografia. La giovane movimentista nipponica era consapevole della pericolosità delle proprie azioni e profetizzò l’atroce destino:

Era giovane e bella … Dora (moglie di Russell), le chiese: Ma non hai paura che le autorità ti possano fare qualcosa?. Lei si portò le mani alla gola e rispose: So bene che lo faranno prima o poi.

Noe Itō fu una donna con una personalità particolare e un credo irremovibile: giovanissima collaborò con i suoi articoli al successo delle pubblicazioni della rivista Seitō divenendo caporedattrice e trasformando profondamente l’ispirazione della testata, con accenti più estremi e di chiara impronta anarco-femminista. Le autorità si allarmarono perché seguirono con attenzione l’evoluzione ideologica e la mutazione genetica della rivista, secondo obiettivi che rivendicavano eguaglianza di genere e diritti umani con una certa incisività. Fu così che i funzionari del governo cominciarono seriamente a temere l’affermarsi di principi che sarebbero stati inaccettabili se si fossero consolidati nell’universo femminile nipponico, in una società con un sistema di valori assolutamente conservatore e oscurantista. Con una critica sociale serrata, mista alle rivendicazioni femministe più coerenti, Noe Itō certificò il suo impegno politico ultimando la traduzione del libro The Tragedy of Woman’s Emancipation, di Emma Goldman. Dalla pensatrice occidentale trasse probabilmente l’afflato libertario e femminista più autentici e interpretò con estrema coerenza il concetto di azione diretta per il raggiungimento degli obiettivi in un contesto di violenza di Stato e di chiusura indiscriminata alla libertà di pensiero.

Una sposa deve considerare il marito come il suo Dio e servirlo, adorandolo. Deve riguardarlo come se egli fosse il cielo stesso. Fra gli antichi c’era il costume di lasciar giacere a terra, durante tre giorni, la femmina appena nata. Questo prova maggiormente la somiglianza dell’uomo col cielo e della donna con la terra.

È uno dei passi testuali del codice Kaibara, vigente fino agli inizi del Novecento e redatto in ottemperanza ai valori del focolare domestico, un misto di diritto di famiglia e leggi consuetudinarie. Fu Ekken Kaibara, filosofo confuciano del Seicento, a scrivere un vero e proprio prontuario denominato Onna daigaku, Sulle cose utili da sapere per le donne. Kaibara spiegò le dottrine confuciane in un linguaggio elementare che poteva essere compreso dal giapponese di tutte le classi sociali. Fu uno dei primi pensatori che ritenne necessario applicare l’etica confuciana alle donne, ai bambini e alle classi inferiori. Egli scrisse anche un manuale di istruzioni Doji kun, Istruzioni per bambini, in cui veniva sostenuto un metodo pedagogico che servisse a disciplinare i propri figli, tenuti ad accettare ciecamente i regolamenti dei propri genitori. Tre erano i doveri imprescindibili e insindacabili per le donne: obbedienza al padre da figlia; obbedienza al marito da sposa; obbedienza al figlio maggiore se la donna fosse divenuta vedova. I precetti sono rimasti radicati per secoli nella cultura e nei comportamenti di molti giapponesi. L’egemonia culturale di questi valori ha favorito ingiustizie e negazione di diritti umani fondamentali, ha reso impervio il percorso tortuoso per la rivendicazione dei diritti di eguaglianza di genere e libertà.

Un altro dei principi etici più importanti che riguardava gli aspetti comportamentali delle donne, nella famiglia e nella società nipponica, era quello della buona sposa e della madre responsabile. Con un decreto del 1899 si stabiliva che il ruolo dell’insegnamento nella scuola secondaria per le donne era quello di formarle secondo il valore della buona sposa e della madre responsabile. Ciò avrebbe contribuito al raggiungimento di un alto livello di progresso per la società giapponese. Era proprio l’articolo primo che regolava il sistema pedagogico della scuola primaria nel 1900 in Giappone: affermava la necessità di impartire un’educazione appropriata a ciascun sesso tenendo conto però del ruolo differente che avrebbero avuto in futuro. Si enumeravano una serie di norme discriminanti di assoluta gravità: si prevedevano la separazione dei sessi nelle classi e un’accurata scelta di testi per la lettura che avevano come soggetto lavori domestici; alle donne venivano riservate quelle materie utili per la vita domestica, come i corsi di cucito e di arte culinaria. Nella logica autoritaria della società giapponese e delle istituzioni che imponevano ferree direttive morali, rientrava il progetto di rendere più difficili per le donne le condizioni di permanenza nelle scuole superiori, al fine di evitare che si potessero formare come spiriti liberi capaci di ribellione. Fu un atteggiamento pianificato: il ministro dell’educazione, in una delle sue preoccupate dichiarazioni nel 1906, affermava:

Ci sono delle donne che aspirano ad abbracciare una carriera e trovare un lavoro dopo gli studi, ma questa opzione deve restare un’eccezione perché la loro vocazione deve rimanere innanzitutto quella di diventare spose, gestire la casa ed educare i figli.

Un nuovo decreto del 1908, suggellò i principi dei precedenti dispositivi di legge. Prevedeva per le studentesse il consolidamento dello studio delle arti della casa a discapito degli apprendimenti accademici per l’insegnamento nella scuola superiore. Le università impedivano l’iscrizione alle donne, le quali non erano ammesse nemmeno come auditrici. La donna era l’artefice della casa, nasceva per servire tutti e doveva farlo con grazia e umiltà, doveva alzarsi presto e andare a letto tardi. Kaibara desiderava che le donne giapponesi fossero sobrie e silenziose lavoratrici e contava le ore del sonno e anche quelle della preghiera: non deve pregar troppo perché Dio si prenderà egualmente cura di lei. Durante il miracolo economico del periodo Taishō, la donna giapponese era l’emblema di una nuova schiava, strumento efficiente delle moderne esigenze industriali: più ore di lavoro e minor compenso retributivo rispetto agli uomini, in una asimmetria di trattamento assolutamente ripugnante. La donna nipponica diveniva finalmente moderna se integra al progetto del liberismo sfrenato, della modernizzazione economica espansiva, del nazionalismo patriottico. Al contrario, nel campo dei diritti, continuava la negazione all’eguaglianza, alla libertà, allo studio, al voto, alla remunerazione. Il senso del dovere, l’obbligazione, il sesso, il debito morale di gratitudine, dovevano legare ogni donna al suo uomo, come se avesse a priori ricevuto da questa schiavitù un beneficio o una manifestazione di benevolenza, rispettabilità, decenza e cortesia

Noe Itō nacque il 21 gennaio del 1895. La sua figura va inquadrata in un momento storico di forte polarizzazione e contrasto fra generazioni, classi sociali, interpreti dei movimenti antagonisti e istituzioni, nazionalismo e istanze internazionalistiche pacifiste: la società patriarcale tentò una strenua resistenza come risposta alla moltiplicazione di idee riformatrici. La prospettiva di superamento del feudalesimo non fu certo indolore e le contraddizioni sociali non fecero altro che estremizzarsi all’ombra di una centralizzazione nel potere che si sviluppava parallelamente a una deriva decisionale e sovranista senza precedenti. Noe Itō nacque da una famiglia poverissima: nel bisogno, la madre lavorava nei campi come bracciante e il padre si adoperava come operaio ceramista in un’industria locale. All’età di otto anni, nel 1903, frequentò la scuola elementare del suo villaggio, primeggiando nello studio. Le condizioni di vita, soprattutto economiche, della famiglia Itō peggiorarono e la bambina venne affidata a uno zio che viveva a Nagasaki. Fu subito disponibile ad aiutarla. La vita urbana affascinò Noe che ebbe accesso a biblioteche e scuole: finalmente ottenne la possibilità di dimostrare la sua precocità negli apprendimenti. La triste realtà però l’attendeva al varco: fu costretta a ritornare nel suo villaggio d’origine insieme alla famiglia che sprofondava drammaticamente nella più totale povertà. A soli quattordici anni, si vide costretta a lavorare in un ufficio postale per sbarcare il lunario. La giovane era amareggiata perché aveva dovuto lasciare la scuola e sostenere i suoi genitori ormai al tracollo economico. Disperata, scrisse allo zio che intanto si era trasferito a Tōkyō. Lo convinse ad accoglierla e venne accontentata. Fu ospitata, ancora una volta, al fine di continuare i suoi studi in una scuola cittadina dove pare ci fosse un sistema pedagogico più moderno. Lo studio fu il suo solo interesse: storia, filosofia, letteratura, lingua inglese. Dopo aver conseguito brillantemente il diploma, Noe Itō fu convinta dai genitori a contrarre un matrimonio: come le regole della buona famiglia giapponese imponevano, fu promessa in sposa al figlio di un ricco conoscente già proprietario di un’azienda agricola. L’uomo era più anziano di circa vent’anni. Noe detestava con tutte le sue forze lo sposo: egli si impegnò, quasi come in un contratto commerciale, a provvedere alle spese per la formazione culturale e artistica di Noe e a trasferirsi presto negli USA, dove lui stesso avrebbe precedentemente studiato. Presto, Noe si accorse che il marito non era in grado di mantenere nessuna delle promesse. Il primo incontro fra Noe e l’uomo fu disastroso: disgustata, scappò di casa. Noe non aveva nessuno che potesse aiutarla e fuggì a Tōkyō, trovando rifugio ancora una volta a casa dello zio. Questa volta però, dopo qualche mese si trasferì presso il suo professore di inglese. Il docente era già noto presso le autorità di polizia come un soggetto insubordinato alle regole del patriarcato e della società. Il professor Jun Tsuji, fu per la giovane Itō il primo approccio alle idee libertarie che in quei tempi cominciavano a circolare soprattutto fra le nuove generazioni. Noe Itō non era una donna propensa alla vita di routine, né a essere la geisha di un uomo autoritario dai comportamenti tradizionali autoritari. Jun Tsuji era un personaggio importantissimo, un uomo colto e creativo, anarchico riconosciuto, dadaista, nichilista, stirnerita e impegnato traduttore di opere dall’inglese; egli aveva una vita da bohémien, insofferente e anticonformista. Tradusse in giapponese l’opera di Cesare Lombroso, L’Homme de génie e si dedicò senza sosta al capolavoro di Max Stirner, L’Unico e la sua Proprietà. Noe Itō aveva solo sedici anni. Il fascino di Tsuji fu un’onda incontenibile e travolgente per Noe Itō: dalla relazione nacquero due figli, Makoto e Ryuji. Intanto, le autorità scolastiche dove insegnava il professor Tsuji, intimorite dal clamore di questo scandalo pubblico furono costrette al licenziamento del docente che, con il suo comportamento immorale, avrebbe danneggiato la reputazione della scuola. Anche Noe Itō subì i mugugni della gente e un ostracismo che sembrò emarginarla dal contesto sociale. Noe Itō conobbe Sakae Ōsugi proprio grazie al professor Tsuji. Insieme collaboravano alla redazione di articoli e traduzioni, spesso censurati dalle autorità, a cominciare dalla pubblicazione del secondo numero del Heimun Shimbun (Giornale del Popolo), la rivista anarchica fondata da un gruppo di attivisti libertari che faceva capo a Ōsugi.

Vignetta estratta dalla rivista anarchica Heimin Shimbun

Tsuji e Itō vivevano nella povertà e nel disagio ma la loro relazione era appassionata e soprattutto libera. Fu un periodo di vita intensissimo in cui Noe poteva liberare la sua curiosità e la sete di conoscenza: ogni genere di informazione, libro, articolo, conferenza, sciopero, traduzione, la vedevano in prima fila. Con il tempo il rapporto con Ōsugi si saldò in una relazione vorticosa. Noe e il professor Tsuji si lasciarono senza rancori e, coerentemente con lo spirito che li animò negli anni del loro sodalizio amoroso, stabilirono una condotta senza strascichi vendicativi né odi. Continuarono la loro collaborazione su temi comuni e non mutò la stima reciproca: di comune accordo, il figlio primogenito dei due rimase a casa di Tsuji, finché quest’ultimo non si diede al nomadismo e fu in grado di sostenerlo. Ōsugi era già sposato e intratteneva relazioni abbastanza convulse con le sue amanti. Una di queste, Kamichika Ichiko lo accoltellò, ferendolo gravemente in una casa del the. Lo scandalo trascinò Noe Itō in una spirale di odio e pregiudizio, fu colpita da pettegolezzi e maldicenze: fu malmenata da un amico di Ichiko e messa alla gogna pubblicamente per aver ostentato la sua idea di vita che si ispirava all’amore libero. Agli occhi dei tradizionalisti la sua condotta era la prova della sua pericolosità sociale. La famiglia Ōsugi fu sconvolta: il fidanzato, promesso sposo della sorella di Sakae, vergognandosi del clamore provocato dallo scandalo, si rifiutò di convolare a nozze. Il dramma evolse in tragedia: la donna infelice e prostrata si suicidò e Yasuto, prima moglie di Ōsugi, chiese il divorzio. Sakae e Noe non indietreggiano nel loro ménage libero e chiacchierato, nonostante tutto. I due vivevano in assoluta libertà e rispetto reciproco. Non conoscevano impedimenti né risentivano del retaggio culturale del loro Paese continuando nel loro stile di vita. Per Noe Itō la vita procedeva senza attimi di esitazione: aderì alle istanze del movimento anarchico, radicalizzandosi. L’ingiustizia sociale, ormai insostenibile, determinò in lei una reazione istintiva: difese le ragioni di prostitute, gruppi sociali marginali che non avevano alcuna rappresentanza, si ribellò all’esproprio da parte dello Stato centralizzato di terreni a discapito di contadini inermi. Lo sviluppo economico senza precedenti produceva enormi diseguaglianze e trasformazioni sociali incredibili. Nacquero movimenti sindacali a impronta anarchica e una dialettica antagonista in tutto il mondo del lavoro. L’azione politica di Noe Itō si contraddistinse soprattutto per l’impegno profuso nella traduzione e nella redazione di scritti giornalistici che avevano la funzione di sensibilizzare l’opinione pubblica femminile a nuove conquiste sociali e guadagnare spazi di consenso nel campo dei diritti umani. I movimenti femministi organizzavano a più riprese convegni e incontri in onore di Emma Goldman e Kropotkin. Noe, fervente attivista, si guadagnò le attenzioni delle autorità di polizia: erroneamente, venne addirittura archiviata come socialista. In quegli anni, così convulsi, si dedicò alla traduzione in giapponese di altre due opere fondamentali scritte da Goldman: Matrimonio e amore e Minoranza contro Maggioranza. L’approccio politico e movimentista di Sakae Ōsugi e Noe Itō era completamente diverso da quello di socialisti e comunisti: si innestava sui principi anarchici universali che superavano culture, Stati e frontiere. A differenza di molti esponenti del socialismo e anche di tanti libertari, non subirono mai la folgorazione del culturalismo nazionale, riferimento imprescindibile per una larga maggioranza della popolazione educata allo sciovinismo, al consenso e alla sete di conquista. Le pubblicazioni di Noe si moltiplicarono insieme a quelle del compagno Ōsugi, soprattutto negli anni che vanno dal 1917 al 1920. Ōsugi e Noe ebbero due figli con i nomi di Emma, in onore dell’amata Goldman e Nestor, in omaggio all’attivista ucraino Nestor Makhno.

 

Copertina del primo numero di Seito

Nel 1911, Noe Itō entrava a far parte del gruppo-rivista Seitō, grazie all’incontro con Hiratsuka Raichō, fondatrice del magazine per sole donne. La rivista aveva contenuti polemici che ponevano l’accento su problematiche del mondo femminile, sul ruolo sociale delle donne e della loro funzione politica. Il matrimonio combinato, l’aborto, la prostituzione, la contraccezione furono i primi temi affrontati dalla rivista nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla rivendicazione dell’uguaglianza di genere e delle libertà di opinione. Seitō fu un mensile pubblicato tutti i primi del mese dal settembre 1911 al febbraio del 1916, a eccezione di due numeri censurati e proibiti. La redazione, originariamente fu composta da alcune delle studentesse che avevano fondato l’Associazione Seitōsha, un gruppo letterario femminile. Hiratsuka Raichō fu una dei membri del gruppo e la fondatrice del mensile, talentuosa figlia di una famiglia della buona borghesia nipponica che aveva i mezzi economici per sostenerla negli studi. Seitōsha aveva anche un organo di stampa e Raichō insieme a una sua amica, Yasumochi Yoshiko redassero il primo articolo che enunciava: La nostra associazione ha come obiettivo di risvegliare la coscienza delle donne e a spingerle ad abbandonare la tradizione facendo nascere in loro un nuovo genio femminile. Con l’appellativo Atarashii onna (Nuove donne), gli altri media davano al gruppo guidato da Hiratsuka Raichō e, successivamente, con accenti più estremistici da Noe Itō, una valenza di una vera e propria corrente ideologica basata su concreti accenti femministici che si ponevano l’obiettivo di inserirsi nel dibattito culturale e sociale dei tempi. Raichō scrisse un famoso Manifesto che suscitò scalpore e ammirazione, intitolato “All’origine la donna era il sole”. Considerando i tempi e l’attenzione della censura che si mostrava sempre più minacciosa perché legata a filo diretto con le autorità di polizia, Seitō ebbe un successo strepitoso tanto che, sempre più numerose, tante donne di tutte le città del Giappone fecero riferimento alle rivendicazioni e alle aspettative di cambiamento della rivista. Il mensile fu una testimonianza attiva, non un mero esercizio intellettualistico di un gruppo di donne borghesi che voleva emanciparsi parlando come un’élite all’interno di un salotto di un quartiere benestante. Fu uno spazio dedicato al dibattito che ricercava soluzioni reali, su cui si confrontavano davvero tutti e che consentiva alle lettrici e ai lettori di inviare lettere e idee: la redazione fu sommersa dall’arrivo di lettere e scritti da tutto il Paese. Solidarietà, mutuo sostegno per i bisognosi, amore omosessuale e divorzio furono fra i temi preferiti dai lettori. Il mensile rifletteva gusti letterari nuovi ed eclettici come l’haiku, la poesia sperimentale, i drammi e il racconto realistico di storie vissute e molte traduzioni della letteratura europea della fine dell’Ottocento. Quale ruolo ebbe nella società nipponica è facile dedurlo. La rivista fu uno strumento in cui si discorreva di questioni culturali che non potevano essere distaccate da problematiche di tipo politico e sociale, tanto da rappresentare una vera minaccia agli equilibri sociali del Paese. Le autorità nipponiche nelle loro politiche educative avevano imposto sistemi didattici e scolastici in cui si impediva alle donne di studiare, vietando all’occorrenza anche di pensare. La rivista ebbe una seconda fase esistenziale in cui il dibattito si fece più incisivo e le rivendicazioni più estreme. La redazione del mensile non fu immune da polemiche interne dovute a visioni diverse di concepire le rivendicazioni ma anche da attriti personali. L’arrivo di Noe Itō nella redazione rappresentò una vera e propria mutazione genetica della rivista estremizzandone i contenuti.

Il celebre messaggio che la giovane Hiratsuka Raichō rivolse alle sue compagne nel settembre 1911, sul primo numero fu molto struggente e riscosse un successo insperato:

Quando nacque il Giappone, la donna era il Sole, l’essere umano per eccellenza. Ora è la Luna! Vive illuminata dalla luce di un’altra Stella. È la Luna, con un viso pallido come quello di una ammalata. Questo è il primo grido delle Calze Blu! Siamo la mente e il braccio delle donne del nuovo Giappone. Esponiamo noi stesse alla derisione degli uomini, ma sappiamo ciò che si cela sotto quel riso beffardo. Facciamo sorgere finalmente la luce del nostro sole nascosto, il nostro genio mai riconosciuto! Lasciate che finalmente si sporga oltrepassando le nuvole! Questo è il grido della nostra fede, della nostra personalità, del nostro istinto che è portatore della nostra volontà. Da quel momento, vedremo il trono splendente del nostro essere divine.

Al successo di critica però, si contrappose anche una reazione scomposta e violenta da parte di esponenti tradizionalisti che, sentendosi derisi nei valori tradizionali dei padri, presero di mira le donne di Seitō minacciandole di morte più volte. L’illustrazione della prima copertina di Seitō è davvero sorprendente per bellezza ed eleganza: c’era l’immagine di una donna con un abito che riecheggiava lo stile artistico di Klimt. Metafora di speranza e armonia, si vede un corpo in forma stilizzata e minimalista proteso verso l’alto. Altri richiami simbolici nella stessa immagine e riferibili soprattutto all’abbigliamento, lasciano prevalere invece l’idea di elementi e canoni nipponici del più tradizionale kimono. La rivista non abiurò mai a temi letterari, ma si caratterizzò per il forte accento polemico. Nell’articolo Atarashiki onna no michi (Il sentiero delle donne nuove), Noe Itō così esordì:

Sul sentiero ancora sconosciuto che i pionieri devono intraprendere, la strada appare disseminata di rovi pieni di spine che ostacolano il loro percorso. Le donne devono abbattere enormi rocce per spianarsi il cammino e perdersi in montagne profonde. Attaccate da insetti velenosi, sofferenti per la fame e la sete, devono oltrepassare colli, scalare enormi altezze e attraversare le valli aggrappandosi talvolta alle radici delle piante. Intanto, in questo tragitto, devono strozzare le loro urla, le loro preghiere e le loro lacrime amare prima di superare tanta sofferenza.

Per Noe Itō le donne dovevano finalmente avere il coraggio di percorrere il sentiero utile alla loro stessa liberazione. La polemica diventava virulenta quando profetizzava, con la metafora degli insetti velenosi, la futura reazione dei tradizionalisti che vedevano ridursi spazi e terreni di agibilità grazie all’azione delle nuove donne. Il richiamo forte alle stesse come pioniere di una nuova era, fu in realtà il proprio grido di guerra scagliato come esempio verso chi voleva guadagnarsi l’appellativo di nuova donna:

Le pioniere non permetteranno a nessuno di immischiarsi nei loro affari. Non saranno interessate a chi deciderà di seguirle perché le stesse non avranno il diritto di criticarle. Non resta che marciare con gratitudine sulle orme di chi (le pioniere), ha percorso il cammino. In realtà, non sanno come andare avanti da sole e non resta loro che procedere sulle orme dei pionieri usando il loro esempio.

Le pioniere diventavano un gruppo di lotta, non di saccenti signore nel chiuso di un salotto: un’idea molto cara a Noe Itō. Non mancavano le accuse che Noe Itō, con legittima preoccupazione, rivolgeva agli uomini che avrebbero dovuto essere parte attiva nella lotta contro le ingiustizie di genere. L’attivista nutriva un serio pessimismo verso gli uomini, artefici e complici di ingiustizie verso le donne. Noe Itō più volte, dalle colonne del mensile, interpellava gli uomini e chiedeva un loro coinvolgimento, una solidarietà, una onesta presa di posizione: subiva invece polemiche e attacchi che non risparmiavano accuse caricaturali, frutto di pregiudizi moralistici infondati nelle ragioni della lotta femminista, arroganti e talvolta volgari. La scrittrice richiamava alla lotta e alla collaborazione coloro i quali avevano per secoli perpetrato sudditanza e prevaricazione. Su diverse questioni, si appellava a un sincero risveglio da parte degli uomini, nella speranza che quest’ultimi potessero cambiare in profondità le loro coscienze. Così come nel dibattito sulla verginità, Noe urlava contro l’ingiusta pretesa da parte degli uomini di ritenere la castità delle donne come condizione indiscutibile per un matrimonio felice e virtuoso. Più moderata nei toni ma arrembante, Hiratsuka Raichō scriveva:

Le nuove donne non sono disponibili a marciare sulle orme di quelle che le hanno precedute. Non si adagiano a vivere alla stregua delle donne del passato, impigrite e ridotte in una condizione di schiavitù, corrotte strumentalmente dagli uomini.

Raichō espresse anche un’aspirazione per il futuro: spezzare le catene che le stesse donne avevano legato ai propri polsi. In un famoso articolo, frutto del dibattito interno alla rivista, così scrisse:

Le nuove donne aspirano alla distruzione dell’antica morale e delle vecchie leggi elaborate per far comodo agli uomini. Ma i fantasmi che si sono impadroniti della testa delle donne, le perseguitano con accanimento. Viviamo nella speranza di costruire una nuova morale, un nuovo regno, una nuova religione, delle leggi nuove.

Altre donne del gruppo espressero punti di vista. Iwano Kiyo evocava le attività reali delle donne, il lavoro, la professionalità e, soprattutto, l’istruzione. Solo con la conquista di questi spazi e di queste conoscenze, si definiva la possibilità di sublimare la propria personalità e realizzare le aspirazioni di ogni essere umano nel contesto sociale. Sulla stessa lunghezza d’onda furono gli scritti di Katō Midori. La femminista si soffermava sui contenuti dell’espressione donne nuove affermando che, una comprensione non solo semantica delle parole, sarebbe stata possibile se inquadrata in una visione storica sulla questione dell’uguaglianza di genere:

Fondamentalmente penso che l’espressione donna nuova non possa indicare soltanto quelle donne dei nostri tempi. Il significato si è evoluto, ma in ogni epoca storica sono apparse delle donne che hanno messo in discussione i modelli sociali dei loro tempi.

Midori faceva l’esempio di Fukuda Hideko vissuta in epoca Meiji. Verso la fine del 1880, quest’ultima già lottava per l’indipendenza delle donne con caparbietà e determinazione: La sua coscienza era quella relativa a un progetto che si proiettava nel futuro fino alla nostra epoca; la realtà è che il suo attivismo non fu invano e che è sopravvissuto a tutti i tentativi di cancellazione della sua memoria. Atipica era infatti la figura di Fukuda Hideko nel dibattito delle donne di Seitō, invitata da Raichō a dare un suo punto di vista sulla rivista. Il suo testo era intitolato Fujin mondai no kaiketsu (La soluzione al problema delle donne), che procurò al mensile la censura di quel numero. In questo scritto, Fukuda diede il suo contributo proponendo in tre punti una soluzione globale ai problemi dei diritti di eguaglianza, considerata possibile solo con l’avvento di un sistema comunista. Per Fukuda non era sufficiente l’ottenimento degli stessi diritti dell’uomo che avrebbe costituito solo una liberazione relativa per le donne, come la conquista del diritto di accedere nelle scuole e università o partecipare attivamente alla vita dei partiti politici. Bisognava pretendere una liberazione finalmente assoluta: era necessario assicurare la libertà della persona e non semplicemente la libertà della donna. Fukuda riteneva come Itō che il processo di liberazione doveva e poteva coinvolgere gli uomini, con coscienza e convinzione. Tutta colpa della civilizzazione se fra uomini e donne vi era discriminazione: una divisione perpetrata dal sistema capitalistico di accaparramento delle risorse e dello sfrenato obiettivo del consumo. A queste condizioni, la società non poteva che stratificarsi in classi sociali. Una società senza le scienze, senza la conquista della tecnica e senza le macchine avrebbe condotto alla pace e al gioioso governo della felicità. Solo il comunismo dunque, nella sua visione, avrebbe permesso di liberare gli esseri umani da questa schiavitù: Al nascere del comunismo, amore e matrimonio diventeranno naturalmente liberi. La sua idea di libertà non avrebbe distrutto la coesione della famiglia ma, al contrario, l’avrebbe rafforzata: Solo in una società senza proprietà privata, matrimonio e denaro, si può avere una speranza di sopravvivenza in cui l’amore vero diviene elemento unificatore. Senza il cambiamento epocale a cui si richiamò Fukuda Hideko, la conquista dei diritti politici sarebbe stata raggiunta solo da una parte delle donne e la lotta di classe già diffusa tra gli uomini si sarebbe estesa di conseguenza fra le donne.

Uno dei dibattiti più interessanti sulla rivista mensile nipponica si svolse in occasione della messa in scena del dramma di Nora, personaggio della Casa delle bambole del drammaturgo finlandese Henrick Ibsen, nel teatro imperiale di Tōkyō. Nel gennaio del 1912, Seitō dedicò un numero speciale occupandosi interamente dell’opera di Ibsen. Fu l’occasione per le donne di interessarsi a questa pièce teatrale che dava slancio al fronte femminista sulle questioni del matrimonio, la valorizzazione della persona, il ruolo della donna nel sociale e la sua istruzione. Raichō diede una svolta alla rivista su questo tema, grazie alla sua originalità e alla concezione della personalità intima delle donne che dipendeva meno dall’esperienza amorosa e un po’ di più dalla meditazione spirituale e religiosa. Nel novembre del 1911, la famosa attrice Matsui Sumako, diretta dal drammaturgo Shimamura Hogetsu, rappresentò il personaggio riscuotendo un successo epocale. In Giappone, le donne non avevano diritto di calcare le scene teatrali dal 1629 e ufficialmente fino al 1891. L’evento fu di grande impatto perché apriva un periodo di polemiche e critiche, di formazione di schieramenti e discussioni accesissime sul significato dell’opera, soprattutto perché sanciva l’inizio del teatro moderno in Giappone e per la prima volta interveniva in scena un’attrice di professione formatasi in una scuola d’arte drammatica. In Seitō, si evidenziava il messaggio esplicito dell’eroina Nora: richiamava la possibilità che nelle donne vi fosse l’acquisizione di una personalità indipendente rispetto all’uomo in seno alla coppia. Si poneva l’accento sulla scelta di Nora di lasciare la propria abitazione e si identificava in questo gesto la rivolta femminile: Nel nostro Paese ci sono molte Nora che non hanno ancora preso coscienza di se e fra quelle invece che si sono rese conto della propria condizione condividono i tormenti della protagonista del dramma.

Era il 1911: l’anno cominciava con l’esecuzione di numerosi militanti anarchici e di una donna condotta sul patibolo, Kanno Sugako, per il crimine di lesa maestà all’imperatore in un fallito attentato. La censura prese il sopravvento e veniva sistematicamente applicata a opere che discorrevano o evocavano il socialismo e, ancor peggio, l’anarchismo. Il 3 settembre del 1910, più di 56 opere furono passate al setaccio dei nuovi censori nipponici e prontamente vietate perché intrise di pensiero distruttivo (Hakai shiso). A compimento di questa ventata reazionaria, antidemocratica e violenta delle istituzioni autocratiche giapponesi, celate dietro il velo di una fittizia forma parlamentare, in un rapporto del ministero dell’interno si denunciava in modo allarmante, l’influenza esercitata dagli scritti politici sulle giovani generazioni, soprattutto femminili. Nel 1911, il ministero dell’istruzione fece adottare un programma sulla promozione dell’insegnamento morale del popolo (Kokumin dotoku kyoiku shinko no kengi), e organizzare sessioni di studio anche per i futuri insegnanti con precetti morali solidi e duraturi per le donne. Le donne nuove di Seitō ebbero un ruolo incisivo nella società giapponese del tempo e furono testimonianza di coraggio e progresso in un contesto assolutamente ostile. Tutte le protagoniste di questa esperienza unica in un Paese orientale, avranno ruoli e percorsi diversi in seno a partiti, movimenti e ideologie: le donne di Seitō furono tuttavia un movimento femminista che per la prima volta in Giappone ponevano la questione indivisibile fra l’emancipazione della donna nella sfera intima e familiare, e un riconoscimento pubblico del diritto all’eguaglianza di genere. Per Noe Itō furono anni convulsi e decisivi: iniziò il suo isolamento nella redazione della rivista e, nel gennaio del 1915, la fondatrice Raichō si defilò, decidendo di concederle la totale direzione della testata. Fra mille difficoltà ebbe la possibilità di uscire ancora con qualche numero ma la rivista fu sempre meno incisiva nella sua funzione di diffusione di idee nel dibattito femminista. Seitō divenne sempre di più il terreno d’espressione del proprio talento letterario di una parte delle giornaliste che, al contrario, mal digerirono la necessità di Noe Itō di dare un impulso reale e incisivo a ciò che veniva sostenuto negli scritti. La fine dello spirito di questa importantissima e decisiva esperienza era dietro l’angolo e la sua spinta propulsiva era ormai compromessa. Seitō venne chiusa agli inizi del 1916 dalla censura dopo una serie di avvertimenti e vessazioni da parte della polizia. Nei confronti di Noe Itō fu attuata una persecuzione senza precedenti, prima di subire nel 1923 una morte efferata e disumana.

Si dice che, ancora oggi, Noe Itō attraversi scalza i sentieri dei peschi in fiore. Sparisce al primo raggio di luce del giorno che nasce, per rimanere indelebile nella memoria delle donne e degli uomini liberi.