Non esistere a Manhattan. Mezza giornata nel West Village / Alessandro Giammei (2012)

Mentre il cervello di un tizio che si chiama Ercolino esplode sotto l’Empire State Building e la polizia ferisce una dozzina di persone per fermare l’assassino, a sette isolati di distanza mi metto in fila per ricevere la mia tessera della New York University. Per arrivare qui ho attraversato un parco dove ho lasciato un dollaro nel cappello di un signore che suonava la tromba accanto alla figlia impegnata a fare i compiti su una panchina. Dopo cinque minuti mi convinco che non c’è niente di più malinconico dei sorrisi che i ragazzi che mi precedono sono intimati a tirar fuori quando scatta il flash della macchinetta. La segretaria nera strilla istruzioni dall’altro lato dell’obiettivo, li chiama per nome, li fa sedere e poi conta alla rovescia. Loro mostrano una fila di denti assurdamente bianchi che mi fanno vergognare del mio smalto di fumatore ventiquattrenne, sollevano gli zigomi e tirano su il collo tutti alla stessa maniera, come esercitassero un movimento entrato nella memoria del corpo dopo una vita di ripetuti tentativi.

Una cosa tipo scalare le marce prima dello stop o asciugarsi gli occhiali quando fa caldo. Sembrano il bimbo sulle barrette kinder, che ti guarda dritto dritto negli occhi in attesa del primo momento utile per girarsi e scappare di corsa. Hanno quasi tutti diciannove anni. L’ispanico davanti a me dice che studierà finanza ma che in realtà è un fotografo, che se voglio mi mostra il suo lavoro. Ha nel telefono ventitré scatti presi al funerale di una donna norvegese, distesa in una bara bianca spalancata senza fiori né immagini religiose. In quasi tutte le foto compare il figlio della defunta, che beve da una bottiglia incartata e veste un completo da cowboy rosso e bianco. Il ragazzo mi dice che il tizio nella foto è malato di mente ma innocuo e che l’ha fotografato perché gli sembrava incredibile che un uomo potesse rimanere tutta la vita nella stessa casa e continuare a viverci dopo la morte della donna che lo ha messo al mondo proprio in quella casa. Mi dice che abita nel Queens, in una zona molto residenziale in cui le case hanno il giardino. Io gli dico che ho visto il Queens dal treno dell’aeroporto e che mi è sembrato inquietante. Lui sorride e mi dice che la conversazione che stiamo avendo è incredibile e che tutti trovano le sue fotografie inquietanti. Quando mi siedo sorrido anch’io, non so bene perché, ma non ho il coraggio di mostrare i denti. La tessera che mi danno è piena di ologrammi e io sembro una persona che ha bisogno di aiuto. Torno nel parco sperando con tutto il cuore di non incontrare mai più il ragazzo delle foto e mentre cammino sento gocce d’acqua cadermi addosso, sulla testa e sul collo. Impiego un po’ di tempo a capire che non si tratta di pioggia ma dei condizionatori che sporgono dalle finestre. Ci sono tre energumeni biondi che suonano, uno la batteria e gli altri due il sassofono, e la musica è talmente eccezionale che una signora in sedia a rotelle mi allunga dieci dollari e mi chiede di andarle a comprare uno dei cd esposti sul banchetto di fronte a loro. Io fingo di non capire l’inglese, mi allontano, poi mi pento tantissimo e mi sento triste. Per raggiungere la biblioteca faccio un giro molto largo con l’intenzione di non essere visto dalla signora. Anche lei, spero di non vederla mai più. Questa mattina ho cercato di aprire un conto in banca per ricevere il salario dall’università ma mi hanno chiesto il numero della previdenza sociale e non ce l’avrò fino a lunedì. L’indiano dietro lo sportello mi ha sorriso – denti bianchi allucinanti – e mi ha detto “mi dispiace signore ma fino a lunedì lei non esiste”. Quando striscio la mia tessera nuova al tornello della biblioteca succede una cosa simile: la guardia all’entrata mi dice che ci vogliono quarantott’ore perché il servizio sia attivo e che quindi non potrò usare il badge fino a lunedì. Gli chiedo come faccio a studiare, lui mostra i suoi denti bianchissimi e mi invita a entrare dall’uscita. Al piano terra ci sono cinquantaquattro uffici, quattro barili in cui si possono scaricare i libri in restituzione e tre ascensori. Ne prendo uno ma non so a che piano andare, quindi li provo tutti. Quando trovo la sezione riviste scendo, ma mi trovo di fronte a una serie di porte in vetro che si aprono solo con la tessera. Io la tessera ce l’ho ma fino a lunedì non esisto, quindi devo rimanere nell’atrio. Un sms mi avvisa che ho trovato casa e buona parte della mia disperazione scompare di colpo come un malditesta preso in tempo dall’analgesico. Torno giù di corsa usando le scale, perché voglio portare subito al padrone di casa i milleseicento dollari del deposito di sicurezza. Non ho mai visto in faccia il ragazzo che mi sta subaffittando la stanza per la prima settimana, ma ieri ho scoperto che suo padre era un amico del cuore di mia madre, che sua sorella è stata allieva di mia madre e che lui ha studiato nel mio stesso liceo di periferia dopo aver fatto le elementari nella scuola dove insegnava mia madre. Mia madre, tra l’altro, cerca in continuazione di contattarmi e non ha capito che con l’abbonamento di qui posso telefonarle solo al fisso e scriverle sms. Quando entro nell’appartamento comincio subito a sudare anche se l’aria condizionata è rimasta accesa ininterrottamente da quando sono arrivato. Il caldo che c’è qui non è caldo, è come se fosse pressione atmosferica, non so. Dentro casa c’è una ragazza croata che è qui a fare uno stage non pagato e studia alla Bocconi. Anche lei è in subaffitto e in cerca di una soluzione per il semestre, ma forse riuscirà a dividere una stanza in questo stesso palazzo con una sua compagna di corso. Vuole entrare alla scuola di legge dell’università dove insegnerò fino a gennaio, vuole vivere qui perché Milano le sta stretta mi dice. Me lo dice in italiano, con un accento milanese stranamente musicale. Tra sei mesi sarà in California per uno scambio. Tiro fuori dal calzino il mio rotolo di banconote, tutte da venti perché nessun bancomat dispone di tagli più grandi. Devo pagare in contanti. Non posso fare un contratto normale perché i contratti americani durano minimo un anno e richiedono uno stipendio pari a quaranta volte l’affitto mensile, quindi sarò in quello che chiamano long-term-sublet. Non so se tutto questo è vero o se semplicemente non capisco Craigslist. Dopo aver contato le ottanta banconote il padrone di casa mi sorride e mi abbraccia. È un professionista elegante e abbastanza giovane, che vive con la sua compagna nel loft accanto alla mia stanza. Ha denti talmente bianchi che sembrano finti ma a parte questo è di una simpatia disarmante. Mi firma una ricevuta, mi dà una fotocopia dei suoi documenti, mi offre acqua ghiacciata. Mi chiede di ricordare che, essendo in subaffitto, se qualcuno me lo chiede sono suo ospite e ci conosciamo da tanti anni. Mi dice che la mia ragazza può restare qui quando viene a trovarmi e mi mostra il mio bagno privato. Mi porta sotto uno stipite per mostrarmi lo spessore del muro e rassicurarmi che, quando vorrò starmene per conto mio, potrò semplicemente chiudere la porta e non ci sentiremo nemmeno. Mi dice che per loro, in quei momenti, sarà come se non esistessi.