Non hai vissuto finché non sei morto nel MUD ⥀ Estratto da Per una storia della letteratura elettronica italiana di Roberta Iadevaia
Un estratto da Per una storia della letteratura elettronica italiana di Roberta Iadevaia, edito da Mimesis edizioni, 2021
Roberta Iadevaia nel suo ultimo libro, Per una storia della letteratura elettronica italiana, edito da Mimesis edizioni, traccia una storia della letteratronica italiana, genere letterario importantissimo per la nostra rivista, che già nel 2020 ha avviato un corso di letteratura elettronica tenuto da Fabrizio Venerandi, creatore del “primo MUD italiano” – ma anche autore di Niente di personale, edito dalla nostra casa editrice Argolibri.
Non hai vissuto finché non sei morto nel MUD
Se le avventure testuali fecero scoprire alle appassionate di giochi, di letteratura e di informatica il fascino dell’esplorazione solitaria del cyberspazio, le bacheche elettroniche dimostrarono che quello spazio poteva essere abitato, ampliato e personalizzato da più utenti contemporaneamente e che, così facendo, quegli utenti erano molto più che semplici individui: erano parte di una vera e propria comunità.
Quando le stanze virtuali puramente testuali delle bacheche elettroniche furono dotate di un’ambientazione precisa e di una serie di regole, diventando così un mondo-gioco, nacquero i MUD. Originariamente la sigla significava Multi-User Dungeon, poiché Roy Trubshaw, lo studente dell’Università dell’Essex autore del primo MUD della storia, chiamato proprio MUD (poi noto come MUD1) distribuito in rete nel 1980, volle rendere un tributo alla versione di Zork che più gli era piaciuta, quella riscritta in linguaggio Fortran e condivisa in rete, nel 1978, con il nome di “dungen”, abbreviazione di dungeon appunto. Quando i MUD divennero un vero e proprio genere, la “d” della sigla smise di riferirsi a un’avventura testuale in particolare e così, da “dungeon”, passò a indicare “dimension” o “domain”. Possiamo però semplificarci la vita e tradurre MUD, semplicemente, con “avventure testuali multiutente”.
Il primo MUD realizzato in Italia, Necronomicon, venne sviluppato da Venerandi, autore delle mappe, delle descrizioni e degli enigmi e dal programmatore Alessandro Uber che, come Colombini, decise di scrivere l’intero codice da zero, nell’intento di fare meglio dei MUD esistenti, compreso Tiny MUD, il primo MUD meno incentrato sui combattimenti e più sulla cooperazione tra utenti e sulla componente narrativa che il suo autore, Jim Aspnes della Carnegie Mellon University, aveva distribuito gratuitamente in rete nel 1989, lo stesso anno della nascita di Necronomicon.
Il MUD italiano si spinse ancora oltre Tiny MUD, caratterizzandosi per la precisa volontà di essere non un semplice gioco, ma un vero e proprio motore di esperienze letterarie. Ciò si tradusse in una cura estrema della storia, delle descrizioni, particolarmente corpose per l’epoca e delle modalità di interazione tra lettori/giocatori, come stiamo per vedere. Tuttavia, a differenza del cugino statunitense, Necronomicon era un servizio a pagamento: per accedervi, infatti, gli utenti dovevano connettersi, al costo di 220 lire al minuto, dai terminali SIP della Videotel, un servizio che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi in Italia dopo aver avuto un certo successo in Francia. Nonostante il titolo, che rimanda al grimorio maledetto inventato da Howard Phillips Lovecraft, il MUD italiano non era ambientato nell’universo creato dal solitario di Providence, per quanto fosse caratterizzato da un’ambientazione fantasy. Nel MUD, infatti, l’utente doveva impersonare uno studente di arti magiche che, venuto a conoscenza del Necronomicon, il libro della conoscenza e della sofferenza, abbandonava il monastero in cui viveva per partire per un lungo viaggio che lo avrebbe portato in oltre settecento ambienti, tra cui gli intricati sotterranei delle “Sette vie”, un villaggio abitato, un castello sotto un lago e una valle. Lo scopo del viaggio consisteva nell’accumulare tante letture parziali del Necronomicon fino ad arrivare alla conoscenza completa del testo maledetto. Come nelle avventure testuali, dunque, l’utente doveva interpretare un personaggio e intraprendere una missione che prevedeva l’esplorazione di vari ambienti, la collezione di specifici oggetti e la risoluzione di enigmi. A differenza delle avventure testuali però, e similmente a certi videogiochi, Necronomicon era dotato di un sistema di potenziamento per cui, più tempo l’utente trascorreva all’interno del mondo virtuale, più abilità acquisiva, potendo così salire di livello. Ma la differenza principale tra MUD e avventure testuali, va da sé, riguardava la possibilità che offrivano i primi di interagire non solo con i personaggi gestiti dal programma, i cosiddetti non-player character (NPC), ma anche con gli avatar controllati da utenti reali: per la prima volta le giocatrici non dovevano limitarsi a seguire i percorsi stabiliti dagli autori, ma potevano loro stesse scriverne di nuovi e potevano farlo in maniera collaborativa. Per questo motivo i creatori di MUD prestarono particolare attenzione al riconoscimento del testo, sviluppando parser più evoluti rispetto a quelli delle avventure testuali. Spetta proprio a Venerandi e Uber la creazione di uno dei parser più evoluti dell’epoca: in Necronomicon, infatti, il programma era in grado di distinguere “dialoghi”, ovvero frasi udibili da chiunque si trovasse all’interno di una stessa stanza, “frasi urlate”, udibili anche dalle stanze attigue e “frasi sussurrate”, che potevano essere ascoltate solo dal destinatario selezionato dal giocatore. Allo stesso modo, come abbiamo anticipato, Venerandi e Uber prestarono particolare attenzione agli aspetti relazionali della comunicazione: i giocatori potevano infatti scegliere tra ben otto diversi modi di ridere, cinque modi di baciare e svariati modi di cantare, fischiare, piangere, ballare, accarezzare e toccare.
Un’altra, fondamentale differenza tra MUD e avventure testuali era relativa alla simulazione delle dinamiche temporali: il mondo virtuale dei MUD era attivo ogni giorno, 24 ore su 24. Ciò voleva dire che, anche quando nessun utente era connesso, la “vita” nel mondo virtuale procedeva. In questo modo non solo veniva rafforzata l’illusione che quel mondo fosse reale, ma risultava possibile rinnovare continuamente la storia.
Come ha giustamente osservato Venerandi,
era difficile nel ‘91 avere comandi come “ridi sardonicamente”; o personaggi non giocanti che lavorano, vanno a casa, riposano, fanno vita sociale in birreria; o far disperdere la voce a seconda della lontananza; o integrare all’interno di un MUD un ufficio postale funzionante, e una libreria scrivibile dagli utenti…1
Dovrebbe apparire più chiara, a questo punto, la differenza tra MUD e avventure testuali: nei MUD non si aveva più l’impressione di giocare a Dungeons & Dragons con un chatbot poco evoluto, ma la sensazione era quanto di più simile ci fosse mai stato a una partita dal vivo. La struttura dei MUD, inoltre, non era né lineare, né a bivi, poiché non vi era un solo percorso vincente, ma più fabule moltiplicabili all’infinito. In questo modo, evidentemente, il confine tra autore e lettore si assottigliava, dal momento che quest’ultima poteva scrivere qualcosa che lo stesso autore non aveva previsto, né poteva tanto meno prevedere. L’autore, allora, era diventato un meta-autore, in quanto aveva accettato la perdita della proprietà esclusiva dell’autorialità, rinunciando al ruolo di creatore di narrazioni stabili e condividendo con altri agenti, il dispositivo e l’utente, le funzioni tradizionalmente di sua competenza.
Vediamo allora che, in letteratura elettronica, l’autore è in primo luogo un progettista di ambienti e strumenti, un designer dell’immaginario che tenta di regolamentare, assieme al medium informatico, lo scambio comunicativo (freedback loop) che si instaura tra testo e fruitore. Il ruolo rivestito da quest’ultimo, passato da spettatore a vero e proprio agente corresponsabile dell’esistenza stessa di una situazione comunicativa, non rappresenta certamente una novità: l’interazione, infatti, non è una possibile caratteristica della comunicazione, ma la sua struttura propria. Ai media digitali spetta però il merito di aver reso più visibile tale struttura, in virtù della natura topografica della scrittura elettronica.
Non dovrebbe sorprendere, a questo punto, che anche un MUD all’avanguardia come Necronomicon, sebbene molto apprezzato dal pubblico e dagli addetti ai lavori, ebbe vita breve. Nel 1994 infatti, non riuscendo più a rientrare nelle spese, Venerandi e Uber decisero di sospendere il servizio e oggi ciò che resta del primo MUD italiano è un sito web, una sorta di archivio in cui è possibile consultarne una versione statica, ribattezzata neoNecronomicon. Ciò non deve sorprendere, dicevamo, proprio perché la scrittura topografica, come abbiamo già sottolineato, è prima di tutto visiva e associativa ed è nella maggior parte dei casi finalizzata ad agevolare la comunicazione umano-computer. Capiamo allora che l’era delle interfacce a base totalmente testuale era destinata a tramontare di pari passo con la diffusione dei computer. Per quanto i MUD cercassero di implementare il parser, infatti, rimaneva comunque un’impresa ai limiti del possibile riuscire a elaborane di così evoluti da poter competere con gli esseri umani; più in generale, interfacciarsi con un mondo virtuale e con i suoi abitanti utilizzando esclusivamente il testo rendeva l’interazione macchinosa, non immediata e non alla portata di chiunque. Per questo motivo, esattamente come era avvenuto per le avventure testuali, i MUD furono progressivamente sostituiti da sistemi dotati, totalmente o in parte, di interfacce grafiche. Non si trattò, naturalmente, di un fenomeno circoscritto alle opere creative, ma di un vero e proprio cambio di paradigma che coinvolse l’informatica tutta. Seguendo il percorso tracciato da Englebart, infatti, appena la tecnologia lo permise, si passò dalle interfacce a righe di comando a interfacce grafiche che sfruttavano metafore che ormai conosciamo più che bene, come la scrivania (desktop) per lo schermo, le icone per i file e le finestre per le applicazioni. Se a questi elementi aggiungiamo il puntatore controllato dal mouse e la presenza di un menu otteniamo il famoso acronimo WIMP (dalle iniziali dei termini inglesi per “finestra, icona, menu, cursore”) utilizzato appunto per riferirsi alle novità introdotte dalle interfacce grafiche, novità che, nemmeno a dirlo, vennero pubblicizzate e glorificate come prove evidenti di una nuova era in cui l’informatica sarebbe stata finalmente alla portata di chiunque, perché comunicare con il computer non era mai stato così intuitivo e immediato. Un aspetto in particolare veniva enfatizzato: con le interfacce grafiche gli utenti potevano vedere a schermo, in tempo reale, il risultato delle proprie azioni, paradigma questo sintetizzato da un altro famoso acronimo: WYSIWYG, What You See Is What You Get, “ciò che vedi è ciò che otterrai”.
Sherry Turkle2 ha notato come le interfacce grafiche fossero il prodotto esemplare della società postmoderna: mentre le interfacce testuali erano il riflesso della “cultura analitica” modernista, in quanto l’immagine del computer come calcolatore suggeriva che ciò che accadeva al suo interno potesse essere scompattato in pezzi più semplici, e dunque le idee computazionali apparivano come una delle grandi e unificanti meta-narrazioni moderne, con l’emergere della “cultura della simulazione” incarnata dalle interfacce grafiche si approdò all’estetica postmoderna della complessità e della decentralizzazione, per cui trasparente non era più ciò che poteva essere ricostruito analiticamente, ma ciò che poteva essere esplorato con facilità al livello superficiale della rappresentazione visuale. Di conseguenza, le interfacce grafiche modificarono anche le modalità di apprendimento degli utenti, che non dipendevano più da un’analisi a priori, ma da quella che la sociologa ha definito “tecnica del bricolage”, ovvero la manipolazione “concreta” e in tempo reale di oggetti virtuali: è l’agire psicomotorio, infatti, che viene riportato nelle icone informatiche e, proprio attraverso il suo fare performativo, chi fruiva aveva la sensazione, più forte che mai, di abitare concretamente l’ambiente virtuale. Furono ancora una volta i poeti elettronici a problematizzare questa retorica, giocando con le interfacce per rivelare gli abissi che le stesse si sforzavano di nascondere, abissi al cui interno agivano entità che non dormivano mai.
1 A. Mannoni, MUD/ neoNecronomicon, la riscoperta dell’ignoto, in “Punto Informatico”, 7 dicembre 2001.
2 S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano 1997.