Non verrà la morte e non avrai che occhi per guardarti indietro di Simone Redaelli ⥀ Passaggi

Presentiamo oggi per la rubrica Passaggi la prosa breve Non verrà la morte e non avrai che occhi per guardarti indietro di Simone Redaelli. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Immagine in copertina: Via Carlo Pisacane 42, Milano © Google.

 



 

E in effetti è proprio vero: sono un vecchio e ricordo di quando ero un bambino che pensava (mi trovo in quel punto esatto della mia memoria) alla morte, e ci pensava con un tumulto più simile alla sfida mentre si sporgeva oltre il davanzale in un’intrepida vertigine di devastazione, in quell’istante pensavo Non arriverò mai alla fine della corsa, mi fermerò prima, lo so, ho troppa necessità di divorare la vita, di schiantarmi nel centro delle cose, di bucarne il cuore pulsante, non sopravvivrò, non posso proprio farcela, l’istinto mi divora, l’eccitazione apre voragini, mi scaglia lontano da ogni ragionevole piano di persistenza, da ogni cosciente intento di durevolezza, e invece eccomi qua, eccomi qua in carne e ossa a intellettualizzare, a mitizzare il ricordo di quel desiderio. E se mi sposto poco più in là (in quest’altro punto esatto della mia memoria) c’è mia madre che mi afferra voltandomi vorticosamente per le spalle, mi trascina via dalla finestra e mi guarda dritto nel volto, non negl’occhi bensì nel volto, e mi guarda nel volto perché io voglio che lei si ricordi il ghigno trionfale del medagliato a morte, perché abbia paura mentre io ho gioia, ed è proprio per questo che io ora ho necessità, ho estrema necessità che voi capiate che l’unico risultato al quale abbia mai ambito, l’unico fremito che abbia mai dardeggiato nel mio petto, è volato dal secondo piano di via Carlo Pisacane 42 a Milano, e si è schiantato al suolo, mentre io, io sono ancora qui, vivo, e non c’è dolore più grande che la vita possa darmi. E se esistesse un sentimento per ogni procedimento mentale che eseguo, se per lo meno potessi rianimare un battito di quell’eccitazione puerile, avrei senz’altro la possibilità di nutrirmi della malinconia, dell’eco vetusta e sublime dell’atto mancato e invece eccomi qua, eccomi davvero qua inerte a ripensarmi mentre Mamma, mamma, voglio morire, le grido, voglio porre fine, proseguo, voglio porre fine a questa stupenda vita, concludo e invece eccomi qua a ripensare che le intuizioni in tenera età hanno vita breve proprio perché partorite a così lunga distanza da ciò verso cui naturalmente tendiamo, e che siamo soliti chiamare senilità.
E dunque, per volontà di mia madre questa lunga distanza è stata in me percorsa, e quindi, per volontà di mia moglie è stata da me ritessuta e allora perché no, perché non prendere ad esempio colei che mi sta venendo incontro proprio adesso, colei che m’ha trascinato la vita un po’ più in là, nascendo, cioè mia figlia, alla quale mormoro, a ripetizione, mentre s’avvicina
Vorrei solo che tu non mi sopravvivessi. Vorrei solo che tu non mi sopravvivessi.
Papà…! Ancora non mi hai perdonato, vero? Scuote la testa e ride, è già dispettosa e vivace ma di certo allude a quando mi scoprì mentre la guardavo poco più che infante affacciare il faccino in un’intrepida vertigine di devastazione oltre il davanzale del nostro appartamento al secondo piano di via Carlo Pisacane 42 a Milano, e di certo, nel guardarmi, deve aver scambiato la sua gioia per la mia gioia, mentre mia moglie aveva paura, poiché in effetti, credo sia giunto il momento di confessarvelo, è in quel momento che mia figlia maliziosa decise che non avrebbe mai ucciso il proprio padre, e saperlo senz’altro la diverte, e allora da quel giorno si fa gioco di
Guarda! Ed estrae un coltello dalla manica.
Un taglietto in un braccio, un taglietto nell’altro e poi
Basta così. Mi dice. E poi Basta così. Mi dice, e incrocia impertinente le braccia sul petto, mentre cola il sangue, mentre mi dice che Questo non è un suicidio e mentre ripete che È finito, giuliva ripete che È assolutamente finito, papà, guarda, non ha bisogno di ritocchi, e questo non lo voglio più vedere mentre scaglia il coltello lontano
e adesso non voglio spostarmi al di qua di questo ricordo, che è appena passato, perché nel futuro che appena lo segue mia figlia mi costringerà ad alzarmi in piedi, ad avvicinarmi, non già per soccorrerla ma per guardarla dritta nelle braccia, come fece sua madre a suo tempo, gridandomi Non lo puoi fare!, e guardandomi morire mentre scendevo dal parapetto del balcone del nostro appartamento al secondo piano di via Carlo Pisacane 42, a Milano, e triste e salvo rientravo in casa, per poi offrirmi non già le sue braccia bensì il suo ventre, perché io ti sentissi, figlia mia, sentissi che la pasta amniotica del tuo battito era fatta della mia stessa voragine di perdizione, e godessi di quella strana forma di invidia che i padri nutrono nei confronti delle figlie quando sanno che faranno meglio di loro e invece no, invece tu vuoi che io soffra nel corpo, fino alla fine naturale dei miei giorni, in questo armonico e ancor vigoroso corpo di vecchio, e mentre mi prendi le mani con le tue mani e mentre disponi i miei palmi sui tuoi fianchi, e mentre danziamo, proprio ora in questo ricordo che è ancora presente, ancora una volta so che non verrà questa mia morte a lungo premeditata, perché tu, dannata e viva, continuerai in questo scherzo infantile di volermi sopravvivere, e a me non resteranno che questi occhi, orgogliosi e delusi, innanzi a questa tua vita felice perché ormai, lo hanno capito tutti, non posso far altro che vivere questa vita vigorosa fino alla naturale fine dei miei giorni
Sei il papà migliore del mondo.

Simone Redaelli

Settimane dopo aver finito questo pezzo, ci torno sopra. Non tanto per riscriverlo. No, il pezzo è finito. È proprio finito. Lo so benissimo. Non ho altro da aggiungere. Solo, ho capito perché l’ho scritto.
Se, per ipotesi, veniste a sapere le ragioni per le quali ho scritto quel che ho scritto, in che modo muterebbe la vostra opinione su ciò che avete letto?
È importante che lo scrittore sappia perché scrive quel che scrive?
Io ho 33 anni. Questo pezzo parla di un individuo che, fin dall’infanzia, non desidera altro che il suo incontro col suicidio. È la sua spinta vitale.
Ma la vita è irta di ostacoli.
Questo pezzo è finito perché, lo so benissimo, ho scelto ogni parola che lo compone. Non c’è nulla di lasciato al caso. Sono troppo terrorizzato all’idea che quello che scrivo non si capisca. Infatti, le piccole ripetizioni che dissemino nella prosa mi aiutano a fare il punto. A rimarcare le cose che il lettore non deve dimenticare.
In via Carlo Pisacane 42, a Milano, è successo qualcosa di terribile. Questo evento appartiene alla mia memoria, alla memoria di un giovane affabile, mansueto, che oggi tiene le porte alle signore per vederle sorridere. E adesso appartiene anche alla vostra, di memoria.
Ma il pezzo è finito. E io sono contento, funziona bene, funziona esattamente come dovrebbe.
Sto chiaramente cercando di impressionare qualcuno.
Ma il pezzo è finito. E io sono contento.

 


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