Nota sulla Letania per Carmelo Bene ⥀ Saggio di Aldo Tagliaferri

Nota sulla Letania per Carmelo Bene, proposto di seguito, è contenuto in Presentimenti del mondo senza tempo. Scritti su Emilio Villa di Aldo Tagliaferri (Argolibri, 2022). Precedentemente era stato pubblicato in Emilio Villa, Letania per Carmelo Bene, a cura di Aldo Tagliaferri, Scheiwiller, Milano, 1996, pp. 9-16

 

Presentimenti del mondo senza tempo. Scritti su Emilio Villa — Aldo Tagliaferri


Nota sulla Letania per Carmelo Bene

 

Benché fosse noto che Emilio Villa e Carmelo Bene si frequentavano, tra il 1969 e il 1972, in occasioni conviviali atte a soddisfare la sete (non solo di sapere) di entrambi, fino a poco tempo fa solo pochissimi amici sapevano dell’esistenza di questa Letania per Carmelo Bene, che l’autore aveva conservato seppellendola, letteralmente, nel proprio archivio di scritti editi e inediti. Ora, superati gli ostacoli frapposti da circostanze impreviste, e di forza maggiore, che intervennero nella vita di ciascuno dei due, e vinta la tradizionale riluttanza ad affidarsi a una mediazione editoriale propriamente detta, Villa ha deciso di pubblicare questo testo, che per certi aspetti, come qui si cercherà di dimostrare, testimonia di un rapporto fondato sulla scoperta di una convergenza di comuni interessi e intenzioni, e sulla reciproca stima.

Che i due fossero artisti “disorganici”, ovvero rappresentanti di una cultura estranea alle parole d’ordine delle conventicole politico-universitarie, e si battessero entrambi in favore di una critica intesa come creazione, e non come cadaverico regesto o come adeguamento ad aggiornate ideologie della comunicazione, diventa evidente proprio negli anni in cui i due si frequentarono: per ovvi motivi anagrafici le sfuriate villiane contro la cecità degli “esperti” d’arte erano più antiche di quelle formulate da Bene, per esempio ne L’orecchio mancante (1970), in violenta polemica contro un teatro e una critica teatrale “democraticamente” lottizzati e ridotti a chiacchiericcio mondano, ma entrambi nutrivano la stessa avversione nei confronti della irreggimentazione ideologica, della riduzione dell’arte a formulario di una fruizione catechistica predeterminata per via accademica o avanguardistica (o, sempre più frequentemente, come Villa aveva presto intuito, entrambe le cose insieme). La mai sopita polemica di Villa contro l’«Ytaglia» dell’ufficialità trovò insomma in Bene un testimone deciso a reggere la fiaccola di un’opposizione culturale contro poteri istituzionali rimasti inalterati attraverso i decenni, e il fatto che tale linea di resistenza non abbia minimamente intaccato il nocciolo duro dei poteri in questione dimostra solo che i mali denunciati dai due erano più gravi e radicati di quanto essi ritenessero.

Nel caso della Letania, comunque, ci si trova di fronte a convergenze più aspecifiche. Il mistilinguismo villiano qui agisce sulla base del lessico e di rimandi culturali attinenti soprattutto a una questione che, come oramai è noto, è sempre stata a cuore del poeta e ha ispirato, nel primo lustro degli anni Ottanta, i suoi scritti “sibillini”. Si trattava di saggiare la possibilità di ripercorrere le strutture dell’antico discorso oracolare, del quale egli aveva studiato le origini storiche e mitiche, pur nella assoluta coscienza delle difficoltà inerenti, nell’era tecnologica, a tale genere di sperimentazione. Tenendo a mente queste premesse, nel testo villiano, che con ogni probabilità risale agli inizi degli anni Settanta, si colgono più agevolmente le implicazioni dei riferimenti alla sibilla, al simbolo della spiga e dei misteri eleusini, alla magia di una voce che parla al di là dei poteri del soggetto e della coscienza classici.

Spostati gli assi di riferimento dall’orizzonte dell’enigma delfico a quello tout court della parola, nella quale il poeta coglie e amplifica il dissidio tra significante e significato, ciò che conta, per Villa, non è tanto il senso del testo quanto la portata onnipresente dell’enigma, non una presunta dimensione dialogica (sia pure di un dialogo con una voce amica) bensì l’ebbrezza di una ispirazione demonica che fomenta il nonsenso ai limiti del delirio. La litania si giustifica, dati i suoi tradizionali connotati invocanti e iterativi, come una forma retorica particolarmente adatta ad accogliere cascate di immagini, di effetti glossolalici, di allitterazioni, di riferimenti liturgici, e convogliarle nell’alveo di un cursus musicale, essenzialmente ritmico, al quale invano si cercherebbe una chiave di lettura tradizionale.

Complessa è la storia delle vie percorse da Villa nell’affrontare la musicalità nella poesia, con l’intento sempre più manifesto di lasciarsi alle spalle i modelli dei grandi decadenti, dei quali aveva tenuto conto almeno fino alla fine degli anni Quaranta, e di introdurre nella sua poesia acquisizioni sonore e lessicali che miravano a ricondurre al “canto” anche le dissonanze più spericolate e a integrare, a costo di dissolverla, la particolare sonorità dell’italiano fondendola con quella di altre lingue. 

Soprattutto a partire da Heurarium (1961) Villa elabora una sonorità di impronta atonale, fortemente ritmica, sorretta da frequenti allitterazioni e da scomposizioni e fusioni semantico-sonore, tutti elementi che ritroviamo nella Letania dove affiorano anche immagini e allusioni che rinviano ad altri ambiti culturali a lungo scandagliati dall’autore (per es. al Corpus Hermeticum, al trou inteso come “vacuità” inerente tanto alla parola quanto al soggetto). A volte egli dà l’impressione, quando scrive nel suo francese selvaggio, di gareggiare ancora con la parola esaltata di Artaud e con la tecnica combinatoria di Duchamp, ma ci pare che invenzioni come «le Grand Jeu en brides de la Suggestion, pour le Je Grand en bribes», che giocano sul chiasmo tra Jeu en brides (Gioco imbrigliato) e Je en bribes (Io sbriciolato), siano degne di nota in quanto dimostrano che l’autore, pur affidandosi all’onda di un piacere eufonico, non perde di vista la sfondo concettuale e peculiare della sua poetica.

Essenzialmente questa letania, o litania (l’autore alterna le due grafie), configurandosi soprattutto come celebrazione della voix, cioè della voce di Bene, e della voie, cioè del sentiero dell’oralità da questi percorso e prediletto, è un testo paradossale perché scritto, e su questo punto vale soffermarsi. La posizione assunta da Bene sulla inesauribile querelle tra scrittura e oralità è, notoriamente, netta, tutta a sostegno di una “scrittura vocale” nella quale, come egli ha sostenuto ne La voce di Narciso, «un dentro “soffia” in un altro dentro, demonicamente immediato» (definizione che si attaglia benissimo allo stile sibillino dell’ultimo Villa) e però, d’altra parte, «poesia è la voce. Il testo è la sua eco». La divergenza che sembra emergere da quest’ultimo assunto non è rilevante quanto potrebbe sembrare a prima vista, dato che sia l’autore sia il destinatario della Letania si trovano d’accordo sul diffidare della scrittura, nella quale identificano il tentativo di imbrigliare e codificare una energia primaria che entrambi presuppongono irrappresentabile e di costruire, appunto attraverso rigide codificazioni, il recinto istituzionale e censorio dal quale il poeta tendenzialmente sfugge (è in quanto aspira a forgiare una parola che è, in effetti, visione della parola, che Villa ricorre a un «verbevoir» e a un «verbedire»). La parola che essi perseguono non può che essere, come scrive Villa, «sola solitaria unica non conoscibile» e pertanto resistente al pensiero riduttivo, e al velenoso incanto dei luoghi comuni che esso produce, dato che perdere il filo del discorso in arte può essere virtù, non demerito, esattamente come nella vita.

Si potrebbe illustrare la convergenza tra i due da altri punti di vista, per esempio notando come l’esaltazione villiana del ruolo dell’«Histrio o Clown o gran millenario Sciamano» concordi perfettamente con quanto veniva sostenuto negli scritti di Bene, che in proposito poteva agevolmente rifarsi a celeberrimi precedenti teatrali e ai fools di Shakespeare in particolare, ma il lettore non faticherà a rintracciare tali linee di continuità. Ci sembra opportuno, invece, sottolineare come le due prospettive sottintendano, nell’elaborazione artistica della parola, un tentativo di oltrepassare un limite, di superare una condizione esiliaca, più marcatamente oggettivata nello scritto, e di risalire, come suggerisce in modo inequivocabile la metafora utilizzata da Bene, alla «voce di Narciso». E quale sia questa condizione esiliaca comune è icasticamente riassunto da Villa, nel testo, in una formulazione densa di tutti i connotati della Perdita: è quella di essere «exilé mûr du Temps-Dieu de Blessure», nella cui definizione figurano, oltre al concetto di esilio quello di un defraudante stato di maturità (mûr può significare anche, oltre che «maturo», «logoro»), quello di un Tempo-Dio e quello della ferita per eccellenza, la ferita narcisica.

Il tempo profano del mondo, quello rifiutato dal neo-gnostico poeta Villa, si contrappone qui a un tempo in cui il divino è presente e reale: il “tempo” dell’onnipotenza perduta. E la maturità come metafora della caduta è almeno altrettanto congeniale al poeta che all’attore, teorico dell’«arte bambina», per il quale «ogni maturità è delinquenziale».1

 Questo mitico tempo, il Tempo-Dio, il tempo in cui si era Dio, fondamento di ogni narcisismo, è ciò che conferisce all’arte di entrambi una dimensione di insondabile. Irreparabile nostalgia, e al tempo stesso l’irrefrenabile tendenza al superamento non solo della rappresentazione, dello “show” amletico al quale è incommensurabile il “that within” dell’interiorità, ma dell’arte stessa. Villa non solo rifiuta di annettere all’opera la massima importanza e ne ritrae il valore verso la sua segreta origine, ma esplicita anche la condanna della mondanità («il mondo è cattivo, non bisogna essere partecipi nel mondo», dichiarò il poeta coram populo nel 1984) e giunge a chiedersi cosa sarà l’arte quando finalmente avrà cessato di essere semplicemente se stessa. 

E parallelamente Carmelo Bene non si limita a disprezzare e superare la rappresentazione teatrale dell’arte, col tentare di fare della propria voce il veicolo del silenzio, ma affronta lo statuto stesso dell’arte per toglierle il privilegio istituzionale e conferirle un privilegio non mondano e più prestigioso: «Trovo che essere artista, sebbene l’artista sia superiore al politico, all’etico, all’esteta (l’arte è pur sempre mondana) non valga una vita. L’arte dovrebbe essere almeno la messa in crisi del non essere santi. (…) Non so spiegarmi un’arte che non sia teologica, che, nella mancanza di Dio, non tradisca non l’ambizione, ma una sua vocazione alla santità».2

La consonanza più profonda tra la voce oracolare di Villa e la voce narcisica di Bene sta in questo rinvio al divino, a una funzione teologica della parola coincidente con il discorso impossibile e necessario sul proprio io ideale: i poeti sono i santi della loro stessa perduta divinità, e l’arte è teologica in quanto parla di essa, parla dell’uomo e della sua divinità perduta. Sacerdoti di una «Rêve-Elation», di una Rivelazione che è appunto il sogno dello stato di elazione narcisica prenatale, e accomunati da una medesima «intransitiva idolatria» per cui teologico diviene il parlare di sé, Emilio Villa e Carmelo Bene sono dunque entrambi presenti a pieno diritto nella litania della «vox hieroglypha» che compone questo pezzo di bravura e di occasione, il che contribuisce grandemente a determinarne la riuscita e l’interesse.

 

1 Carmelo Bene, La voce di Narciso, a cura di Sergio Colomba, il Saggiatore, Milano, 1982, p. 137.

 

2 Ivi, p. 169.