L’ombrelco ⥀ Il romanzo della crudeltà #2
Pubblichiamo un altro racconto nato nel corso del laboratorio di scrittura narrativa Il romanzo della crudeltà, tenuto da Valerio Cuccaroni alla libreria Catap di Macerata: L’ombrelco di Sauro Serbassi, accompagnato da un’illustrazione di Stefano Sartori
L’ombrelco
Era martedì. O mercoledì. Forse anche giovedì, se non già sabato. Importava poco, un giorno valeva l’altro, un giorno era uguale all’altro, per Giancarlo.
La quotidianità s’era fatta d’un grigio indistinto, come la polvere che ricopriva in modo quasi uniforme il pavimento. La vita vera se ne era andata con Laura.
Gli unici pensieri di qualche rilievo, i soli a solcargli la mente di quando in quando, riguardavano il lavoro.
Poche immagini venivano ancora a trovarlo, sprazzi consunti dell’ufficio: il termosifone arrugginito sotto la finestra bianca, il cestino nero col sacchetto blu arricciato all’orlo, la porta coi battenti screpolati, il bicchierino di carta con le ultime gocce di caffè. Un tripudio di carta, pratiche, documenti, block notes vari: il caos organizzato della scrivania. La sua scrivania. Tra tutte, era forse la cosa che gli mancava di più. A volte si sorprendeva a pensarci, che gli pareva di sentirla ancora sotto i gomiti, solida e sicura, o sui polpastrelli, e allora era liscia e scorrevole. Eppure era solo una comunissima scrivania da ufficio, in ordinaria plastica nera. L’unica bizzarria, per dir così, erano i pomelli rotondi dei cassetti in basso sulla destra. Lontana anni luce dal modello che aveva sempre sognato per sé.
Il piccolo sogno, appendice e foglio di via per il sogno più grande. Il Grande Sogno. Diventare Scrittore. Giancarlo lo cullava fin dall’adolescenza, da quando a diciassette anni s’era scoperto una dose di talento non comune. O così almeno gli aveva detto il prof di italiano del liceo, entusiasta dei suoi temi e convinto che dovesse provare a scrivere davvero.
Da allora ci aveva lavorato sopra, il maggio venturo sarebbero stati vent’anni di lavorio. Risultato? Tre, quattro racconti pubblicati senza alcun compenso su periodici locali; una segnalazione a un premio letterario; un paio di proposte di pubblicazione a pagamento. Tutto qua.
Tirate le somme, quel talento promettente s’era rinsecchito nella grama realtà dei suoi trentasei anni. Così, da un gran bel pezzo di tempo, ben prima che Laura e il lavoro lo lasciassero, s’era via via disilluso, scrivendo sempre più di rado. Neanche ricordava più dove aveva riposto le centottanta cartelle del suo romanzo incompiuto. Solo il pensiero di una grande scrivania riusciva talvolta a ravvivare quella fiammella. Un’antica, monumentale e solenne scrivania da scrittore: in legno pregiato, simile a quella su cui aveva visto immortalato Pirandello in diverse fotografie. Il grande Luigi sembrava così sereno e a suo agio accomodato in quel modo. Sicuramente anche Giancarlo sarebbe stato sereno e a proprio agio in trono a una scrivania come quella, forse avrebbe persino ritrovato l’entusiasmo di un tempo. Di più: con una scrivania come quella sarebbe diventato scrittore anche lui, senza dubbio. Per questo sul finir dell’estate aveva iniziato ad andarne in cerca: con calma però, senza ansie, quasi assaporando il momento preciso in cui l’avrebbe scovata dietro la vetrina di un antiquario appartato. Prima che l’uno-due Laura-lavoro lo mandasse al tappeto.
Certo aveva dei soldi da parte, ma sarebbero bastati al massimo per un altro anno. Tuttavia, la ricerca di un altro impiego al momento non la prendeva nemmeno in considerazione.
Scrivere? Provava fastidio solo a pensarci, da allora. Peggio, era il pensiero che più gli procurava dolore, quando s’azzardava a fare capolino. Cosa ormai rara, vista la bella maniera, sempre più efficace, con cui Giancarlo aveva imparato a soffocarlo.
Dunque, era mercoledì. Mercoledì sei novembre, appurò dal calendario mezzo ingiallito appeso in cucina. Andò in bagno, orinò, diede una sciacquata svogliata alla faccia e alla fine si guardò allo specchio: i capelli avevano ormai raggiunto le spalle e la barba non si poteva guardare. Una volta si radeva ogni tre giorni, ora aveva smesso di tenere il conto dopo tre settimane e il prurito da pelo era diventato solo un altro mattone nel muro.
Qual era il programma della giornata? Lo stesso degli ultimi giorni, meglio, dell’ultimo mese: dormire, perlopiù. Novembre non era il mese dei morti? Ebbene, lui lo onorava adeguatamente. Scostò le tende dal finestrone della terrazza, giusto per dare un’occhiata fuori: non certo per quel tiepido sole avrebbe annullato il suo programma. Però si era appena alzato, e non gli andava di tornare subito a letto.
Decise di fare colazione, sebbene non avesse granché fame. Gli accadeva sempre più spesso, non avrebbe saputo indicare l’ultimo pasto consumato con gusto. A dire il vero, di gusto ne trovava ormai poco in ogni cosa, il pensiero di farla finita lo aveva sorpreso almeno un paio di volte. Era questo tuttavia un gesto troppo grosso e solenne, richiedeva troppa fatica.
Scaldò il latte di scarsa lena, racimolò tre biscotti dalla credenza e si portò al tavolo: come avrebbe impiegato le (poche) ore fino alla prossima sessione di sonno? Stava appunto chiedendoselo, quando percepì chiaro un suono odioso e familiare. Odioso per quanto familiare e tanto familiare da risultare ogni volta più odioso: il latrato del cane dei vicini, affaticato e spezzato. Era questa una bestia vecchia e malandata, come si poteva vedere dal pelo scolorito e sempre in disordine. Che razza di gente, i Mariucci, a lasciar giocare quel rottame di cane con il loro bambino! Una volta Giancarlo aveva visto con i suoi occhi il piccolo mettersi in bocca un giocattolo estratto direttamente dalle fauci bavose dell’animale. Da vomito. Del resto, contenti loro, a lui cosa importava?
Lo riguardava eccome, invece, quando lasciavano pascolare quell’ex-cane senza l’ombra di un guinzaglio fin dentro la sua proprietà. Nell’ultimo anno, perdipiù, quella carcassa ambulante aveva eletto il giardino di Giancarlo a suo bagno preferito. Lui non aveva tardato a farsi sentire: quante volte aveva gridato loro di tenere a freno quella bestiaccia? Una volta Laura era in giardino a prendere il sole e, vedendo l’animale avvicinarsi, l’aveva scacciato con energia (Laura detestava i cani, adorava invece i gatti); il cane allora aveva abbozzato una mezza reazione, prima di ripiegare di malavoglia. Lei era rimasta parecchio turbata dall’episodio e in seguito aveva evitato di stare in giardino, se non necessario (purtroppo per Giancarlo, di lì a breve la cosa si sarebbe estesa alla casa tutta). Siccome però i Mariucci continuavano più o meno a far finta di nulla, un mattino Giancarlo aveva insistito affinché lei lo accompagnasse a fare loro un rimbrotto ufficiale. Quella volta erano stati loro a rimanere piuttosto turbati, cosicché per qualche tempo la bestia non aveva più dato notizie di sé. Pian piano, però, negli ultimi mesi aveva ricominciato le sue capatine, dapprima rade e furtive. Furtivo e colpevole come l’atteggiamento dei Mariucci, specie del capofamiglia, allorché Giancarlo compariva all’orizzonte. Subito quegli richiamava il cane con tono severo e si scusava con Giancarlo adducendo le scuse più banali, tipo la rottura del guinzaglio o simili.
Da settembre, poi, con la dipartita di Laura e la guardia così dimezzata, la bestia aveva ripreso a scorrazzare nel suo giardino quasi come agli esordi. Giancarlo aveva ora altro con cui dannarsi e a malapena una volta ogni quattro, cinque intrusioni trovava la voglia e la forza per contestare o arginare quelle violazioni. Da quanto tempo non si sporgeva dal terrazzo per inveire contro la bestia e/o i suoi sciagurati padroni? Da quanto non scendeva a terrificarlo con la racchetta da tennis? Meglio ancora: da quanto tempo non usciva di casa, anche solo a prendere una boccata d’aria? Da una settimana e più lasciava fare all’animale i suoi sporchi comodi (mai contesto fu tanto adatto per l’espressione). Lo stesso fece anche quel mattino, continuando meccanicamente a inzuppare un biscotto dopo l’altro.
Si trascinò per la casa alcune ore, passando come un cuscino floscio dal divano, alla poltrona, al letto. E i riccioli di polvere del pavimento, di un indistinto colore tra il blu e il nero, gli si abbarbicavano alle ciabatte in modo discreto e silenzioso: scacciarli ogni tanto, sfregando i piedi uno contro l’altro, fu l’unica attività a cui egli si dedicò nel resto del pomeriggio.
La sera mangiò gli avanzi del giorno prima, del petto di pollo preso dal congelatore (ce l’aveva messo Laura qualche mese prima, roba genuina della fattoria dei suoi). Quindi giacque davanti alla tv, un blando zapping senza in pratica vedere nulla, per dar tempo allo stomaco di sbrigare il grosso della digestione e produrre i suoi borborigmi (i caratteristici rumori dell’apparato digerente: l’aveva imparato l’altra sera in un quiz).
Per finire, verso le nove, andò a letto.
Dormì un sonno nero fino alle dieci e un quarto del mattino dopo. Le ore successive furono stinte e impastoiate come il giorno prima. Fino alle diciassette, quando d’improvviso avvertì tutto d’un colpo sulla testa il gravame del soffitto, la chiusura, il cosiddetto effetto capanna. Sentì di dover uscire all’istante, pena la sopravvivenza. La morte comunque non lo spaventava… purché fosse stata tranquilla, pacifica, senza dolori né affanni.
Scese in giardino, nel bel mezzo del pomeriggio, come si trovava, sfoggiando il pigiama celeste sbiadito regalatogli da Laura, con annesse macchie di varia provenienza (ragù, grasso, dentifricio) nella parte superiore e riccioli di polvere a mo’ di frange in quella inferiore. Appena mosse qualche passo sull’erba soffice, si sentì subito meglio: la testa si alleggerì d’incanto, l’ansia si sciolse come neve al sole. Di sole ce n’era in effetti a volontà e Giancarlo dovette schermarsi un poco il viso con la mano, i suoi occhi non erano più abituati a tanta luce. Nel mentre udì il rumore di una serranda dalle case attorno (probabilmente qualcuno voleva vedere bene chi fosse quel tipo che girava in pigiama a quell’ora) ma non gli prestò attenzione; come non badò a una giovane coppia che passò lenta davanti a lui, oltre la siepe del giardino: mano nella mano, lo guardarono ostentatamente, ridendo tra loro. Solo provò una lieve fitta al cuore quando scorse la signora Giuliani, in terrazzo. Questa parve sul momento abbozzare un saluto, prima di girargli le spalle e tornare in casa. Non devo essere un bello spettacolo.
Riprese a camminare senza pensare a niente, se non alla bella sensazione di non avere più un tetto sopra la testa, godendo del benessere dimenticato dell’aria aperta. Finché non ripensò al maledetto cane dei vicini: chissà quanta schifezza aveva già calpestato! Il giardino doveva essere ormai un campo minato. Era già stato fregato? Non osava guardare. Quando trovò il coraggio sollevò prima una pantofola, poi l’altra. Salvo. Incredibile a dirsi, eppure i piedi erano ancora immacolati, umidità a parte. Quasi non credeva a tanta fortuna… Che l’anziano Bambo avesse iniziato a soffrire di stitichezza? Improbabile: vecchio era vecchio, tuttavia quello era sempre stato il suo grande talento. Volse lo sguardo intorno di tra l’erba, in cerca di montagnole marroni… Eccone là una! Avanzò con cautela, per ispezionare più a fondo. Gli occhi avevano ormai fatto l’abitudine all’insolito sole di quel pomeriggio, e il tepore fuori stagione pareva essere un toccasana.
Via, poteva andar peggio: dopotutto, la bestia si era limitata a un paio di ricordini. Diede un’altra occhiata in giro per sicurezza, quindi rientrò in casa. Per il momento la sortita era sufficiente, era già stanco e pronto per una nuova discesa nell’oblio. Si costrinse tuttavia a un ultimo sforzo, tanto per rendere ancora più appagante la dormita successiva: provvisto di paletta e sacchetto, tornò in giardino per fare pulizia delle malefatte di Bambo. Bambo: perfino per un avanzo di canile come quello era un nome cretino; né d’altronde si sarebbe aspettato altro dai suoi padroni.
In apnea, insaccò il primo mucchietto, riprese fiato e attaccò il secondo; infilò la paletta sotto e… qualcosa di duro oppose resistenza; Giancarlo fece una smorfia per chiudersi il naso, cacciò ancora la paletta sotto al puzzolente mucchietto e, sì, c’era davvero qualcosa di solido. Conclusa l’operazione, Giancarlo buttò tutto nel cassonetto più vicino (usciva dalla sua proprietà dopo una marea di tempo) e, senza badare a quella strana cosa scura, tornò a tapparsi in casa. Esausto e sudato per lo sforzo cui s’era sottoposto dopo valanghe di immobilità varie, si buttò sul divano. Sonnecchiò.
Quando riprese conoscenza erano le sei e un quarto. Si sentiva viscido come una serpe e puzzolente come un maiale. Non ricordava quando aveva fatto l’ultimo bagno, ma ora non poteva proprio farne a meno, si disse più volte per convincersi ad affrontare l’impegno supplementare che gli si profilava davanti.
Alla fine la molla decisiva fu il pensiero del godimento amplificato con cui, lindo e rilassato, si sarebbe spaparanzato per la sua morbida triade (poltrona, divano, letto). Già pregustando la sensazione, prese a spogliarsi; andò quindi in bagno e iniziò a riempire la vasca: dopo il giardino, toccava a lui ora essere pulito; certo ne avrebbe cavato un lavoro di gran lunga migliore, giacché il coso rossastro là fuori recava ancora chiare tracce di Bambo. Che restasse pur là quello strano oggetto dalle molte punte, di merda Giancarlo ne aveva avuta abbastanza in quei mesi.
Fu gran cosa ritrovarsi nell’acqua calda, un benessere taumaturgico e sublime. Magari l’indomani avrebbe anche potuto portare a termine la faccenda, con la scusa di un’altra boccata d’aria. Inoltre la cacca sarebbe stata ancor più secca e quindi meno disgustoso. Chissà, magari anche la cosa era biodegradabile.
Si concesse un bagno di un’ora e mezza, con acqua quasi bollente: col cielo tornato plumbeo, fu vera libidine sguazzare in quel caldo. Mentre si asciugava i capelli una melodia si affacciò d’un tratto alla memoria: come una larva cercava di rompere il bozzolo del tempo, quasi fosse proprio appropriata al momento. Strano avere una sensazione del genere su una canzone e non riuscire a ricordarla. Poco male, ben altre cose gli premevano, a cominciare dalla cena, prima tappa verso l’agognato nulla del sonno. Di sicuro non aveva l’imbarazzo della scelta: della scamorza affumicata stravecchia e alcune fette di prosciutto (un tempo poteva essere stato addirittura san daniele) di cui era rimasto solo il sale del sale. Fine. Solo di crostini ve ne erano ancora, anche se non tanti come avrebbe voluto (già gli veniva male a pensare al momento in cui sarebbe stato costretto a uscire per la spesa). Pazienza.
Imbastì un pasto frugale con le sparute pietanze e alla fine il risultato non fu da buttare. Il prosciutto era davvero qualcosa di apocalittico e al contempo la cosa più gradita. Giancarlo, pur ripudiandone il sapore a ogni boccone, non poteva staccare gli occhi dalle fette adagiate sulla carta lucida e grassa in cui era stato avvolto. Quei suoi colori: un’alternanza di rosso, arancione, violaceo fin quasi marrone, fino ad arrivare al bianco del grasso. Questo vi stonava, perciò Giancarlo lo asportava e lo ammonticchiava sull’orlo del piatto. Quei vari colori erano proprio azzeccati. Gli stessi della cosa in giardino. Pensiero dopo pensiero, un’immagine tirò l’altra finché si ritrovò a reprimere un mezzo conato di vomito. A un certo punto, non poté più posare lo sguardo sull’affettato senza un senso di nausea. L’impulso di buttarlo nell’immondizia fu forte, poi considerò la penuria di viveri e lo rimise in frigo; qualche boccone di pane e scamorza, poi si lasciò cadere sul divano.
Accese la televisione e diede il via al molle zapping cui s’era abituato ad abbandonarsi. In pratica non guardava mai nulla, usava la tv per anestetizzarsi, ché in fondo era sempre stato il suo pensiero: detestava la televisione e nella vita precedente non gli sarebbe nemmeno passato per la testa di consumare una serata davanti a quella scatola; a parte I Simpson (chissà perché continuava a venirgli in mente Telespalla Bob e la sua incredibile capigliatura), veniva buona solo per qualche film e poco altro. Ora si rivelava invece un passatempo sufficientemente alienante, in grado di riempire le ore tra la cena e il letto. Era insomma la prova generale per la notte, l’anticamera del sonno vero e proprio, con le ore che vagolavano come nuvole notturne, senza lasciare traccia. Quella sera però si sentiva più irrequieto e strano. E solo, forse per la prima volta in quelle settimane, in cui la solitudine era stata compagna discreta e gradita. Una culla d’ovatta, un familiare cuscino in grado di attutire quasi ogni dolore.
Mentre adesso lo prendeva il desiderio struggente di una donna. Non era sesso che anelava, quanto piuttosto una presenza femminile rassicurante, calda e materna.
Una mamma, la sua mamma, che gli carezzasse i capelli; lo prese uno struggimento tanto forte da costringerlo ad alzarsi e camminare. Così riuscì in qualche modo a domare la confusione e a scacciare quegli infantili pensieri: gli bastò immaginare il patimento di sua madre nel vederlo ridotto in quel modo, se fosse stata ancora viva. Al diavolo, una bella dormita avrebbe spazzato via ogni cosa.
Cinque minuti dopo era già a letto con la speranza di poter durare il sonno in eterno.
Cose rosse e fosche, immagini indecifrabili e vaghi suoni dell’infanzia gli negarono requie per quasi due ore. Pur di non alzarsi, Giancarlo combatté con quel malcerto impasto d’impressioni e alla fine l’ebbe vinta.
Verso le tre del mattino dovette andare in bagno. Lì, seppur intontito dal sonno, si ritrovò a scrutare dalla finestra il buio del giardino, appena rischiarato dalla flebile luce del lampione sulla strada. Quel coso dev’essere ancora là: il pensiero lampeggiò quasi a sua insaputa, mentre tornava sotto le lenzuola.
Ben presto divenne uno strazio: un caleidoscopio indecifrabile di immagini, con tanto di sottofondo musicale, lo assaliva e lo assillava. Cominciò a calmarsi soltanto quando in quel coacervo inestricabile si distinse una tenue cantilena. Una canzoncina familiare stava finalmente mettendo a tacere – dipanando a un tempo – l’ambiguo groviglio in cui s’era impastoiata la sua notte. Era lì lì per riaddormentarsi, quando dieci parole di quella nenia si stagliarono tanto nettamente nel buio da costringere Giancarlo ad aprire gli occhi: Se l’ombrelco saprai tenere, a te fortuna, amore e potere. L’ombrelco? E che diavolo era? Eppure, solo a pronunciare quella parola, un mondo lontano e dimenticato squarciò le tenebre e lo travolse come un’inondazione. Lacrime copiose bagnarono il cuscino mentre Giancarlo tornava piccolo, nel suo letto di bambino, ad ascoltare rapito le fiabe della mamma. Sua madre possedeva un repertorio sterminato di favole, le fantastiche storie variavano ogni sera, senza mai ripetersi per mesi e mesi. Al contrario, la ninna nanna rimaneva pressoché invariata, perché Giancarlo voleva sempre e solo quella: l’ombrelco. Una favola anche quella, ma in forma di canzone. Raccontava appunto la storia dell’ombrelco, un oggetto misterioso con la straordinaria proprietà di procurare ciò che i versi della ninna nanna promettevano: amore, fortuna, potere. Così misterioso da sfuggire a qualunque descrizione: i riferimenti della canzone erano di fatto talmente vaghi da scoraggiarne qualsiasi raffigurazione. Il piccolo Giancarlo poteva quindi immaginarselo ogni sera in forme differenti e nelle più svariate grandezze, non se ne stancava mai.
Le tante parti scruterai e sicuro mai sarai…
Il testo della canzone accennava solo a dei lembi, tante protuberanze in parte simili ai tentacoli di una piovra. L’unica cosa sicura era il colore, rosso. Rosso come il sangue del cinghiale grosso, le parole esatte della canzone. Ad affascinare il piccolo Giancarlo sopra ogni altra cosa era però il carattere assolutamente, crudelmente casuale della vicenda, sicché al fascino si univa una specie d’odio tutta particolare. Un po’ come gli accadeva con Wile E. Coyote: adorava quel cartone, ma non sopportava di veder trionfare sempre quell’odioso pennuto! Con l’ombrelco era ancora peggio, a questo non si poteva neppure dare la caccia o favorirne in qualche modo l’apparizione. Bisognava affidarsi alla fortuna e basta. Lasciare al caso. Esso, sempre secondo la fiaba, sceglieva ogni secolo un fortunato mortale, preferibilmente in disgrazia, cui palesare il favoloso dono. Così in antica Grecia un servo lo udì tintinnare in un vaso di terracotta; nel buio Medioevo fu trovato incastrato nella ruota d’un carro, in alta Slesia; in epoca rinascimentale lo si scoperse racchiuso in un vecchio cassone intarsiato di Baltimora. E così via, fino all’alba del secolo scorso, raccolto da un vegliardo ubriaco sopra un cumulo d’immondizia in un laido vicolo parigino.
Giancarlo s’asciugò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto. Rimase così alcuni secondi, prima di accendere l’abat-jour e restarne infastidito giusto il tempo di infilare le ciabatte. Una gli sgusciò via e, come sempre succede, andò a ficcarsi sotto il letto. Giancarlo imprecò, mettendosi carponi per recuperare la calzatura ribelle. Strano l’effetto della sua voce, a quell’ora: assonnata certo, eppure bella viva per essere appena uscita dal sonno. Pure i movimenti erano piuttosto guizzanti per uno appena emerso dal torpore.
Dov’era la torcia? Ce l’aveva poi una torcia? Con impazienza e gran fracasso, passò in rassegna ogni mobile per scovarla infine nello scaffale basso della cucina.
Per fortuna, le pile facevano ancora dignitosamente il loro servizio, la luce anche se debole sarebbe stata sufficiente. Non gli passò neanche per le retrovie del cervello di mettersi qualcosa addosso, prima di scendere in giardino.
Qui regnava un silenzio umido e delizioso, appena disturbato dai lontani rombi delle automobili per le vie centrali della città.
La tenue luce del lampione una trentina di metri più in là e il serafico canto dei grilli erano gli unici segni di vita; l’alba era ancora di là da venire. I piedi passarono dalla pietra dei gradini d’ingresso all’erba appena umida di rugiada e sulle prime rabbrividì. Presto però il freddo scomparve e la sensazione divenne quasi gradevole. Accese la torcia e iniziò a ispezionare per ritrovare il punto esatto. Ben cosciente dell’assurdità della situazione, sorrideva come imbarazzato e si lisciava la mascella: come lui, anche i muscoli del viso s’erano ormai disabituati a quell’operazione elementare. Presto riconobbe il preciso ciuffo d’erba accosto alla siepe, sotto al quale doveva ancora giacere lo strano coso. Di fatti, era lì. Giancarlo lo trasse con delicatezza dall’erba, dimentico d’ogni cosa. Per fortuna si ricordò di Bambo soltanto quando rientrò alla luce dell’ingresso. Col ricordo riaffiorò anche il puzzo, e Giancarlo si affrettò a salire al piano di sopra. L’inconveniente era poca cosa paragonato alle mille sensazioni in cui era immerso; entrò in bagno e accese la luce: non il lampadario, ma i faretti sopra il bianco specchio ovale. Ché la luce normale mal si addiceva, così vistosa e irruenta. Quasi volgare. Ci voleva un chiarore più delicato per non infrangere l’incanto della magia. In quel circoscritto biancore, Giancarlo posò la cosa ancora informe e maleodorante nel lavandino, sotto un getto prolungato d’acqua calda, intervenendo solo per disincrostare gli ultimi ostinati residui del vecchio Bambo, sublimando infine il tutto con schiuma Dove in quantità.
Prese quel coso rosso sgocciolante e se lo rigirò davanti agli occhi. Senza quasi accorgersene, iniziò a canticchiare: Le tante parti scruterai ma sicuro mai sarai… Sicuro Giancarlo non lo era per niente – come si poteva esserlo di fronte a una forma simile? – ma intanto prese a dondolarsi, una specie di autocullamento ad accompagnare le strofe dell’amata canzone dell’ombrelco. Squadrava quella cosa indefinibile da ogni lato, continuava a tastarla, senza esserne mai pago. A cosa si poteva paragonare? Alla chioma di Telespalla Bob, certo; o alla cresta di una palma; i paragoni erano però sempre inadeguati, non si avvicinavano abbastanza a ciò che Giancarlo aveva sotto gli occhi e tra le mani. Le strane protuberanze del tronco parevano lingue di fuoco congelato, ambigue lance, come lava essiccata. O ancora, rosse banane in miniatura stranamente innervate. I brani che Giancarlo era riuscito a ripescare dalla memoria non erano molti, così si baloccava perlopiù col ritornello: Se l’ombrelco saprai tenere a te fortuna, amore e potere…
Lo teneva, eccome se lo teneva! L’ombrelco.
Giancarlo Giustozzi: era dunque lui il fortunato mortale di questo secolo. Una smania incredibile gli andava crescendo dentro, si sentiva come un vulcano pronto a eruttare di nuovo dopo secoli di inattività. Percorse e ripercorse a passi inconsulti le stanze, il corridoio e la cucina, scese nel magazzino e poi in garage; spalancò il portone, eruppe in giardino: la notte era ancora pesta, quasi l’alba non dovesse sorgere più. Sta a vedere che il mondo finisce proprio ora che l’ho trovato io! pensò Giancarlo, prima di scoppiare a ridere. D’accordo, aveva l’ombrelco. E ora?
Poteva, doveva fare qualcosa per accelerare il corso degli eventi, per accrescere le straordinarie proprietà del favoloso oggetto? Dopo aver vagato confuso ed esaltato nel giardino per una buona mezz’ora, si risolse a tornare a letto. Dopo tanti giorni, non avrebbe giaciuto solo: si accucciò sotto le coperte, stringendo con avidità e tenerezza l’ombrelco tra le mani e contro il petto. Sotto il calore del suo fiato, nell’oscurità placida della notte.
Dopo un po’ si decise a deporre la sua cosa preziosa sul comodino: senza l’energia che l’oggetto aveva preso di sicuro a trasmettere, forse sarebbe riuscito ad addormentarsi. Nei successivi venti minuti passati a rivoltarsi nel letto, Giancarlo non mancò comunque di allungare ogni tanto la mano per assicurarsi che il suo tesoro fosse ancora lì. Forza e potere, ogni minuto di più.
Di colpo Giancarlo scalcia via le coperte e fila in bagno a farsi la barba. Sembro un hippie fuori tempo massimo, pensa ad alta voce davanti allo specchio. Eppure è un bell’uomo, un ragazzo ancora: dopotutto ha solo trentasei anni e dopo una visita al barbiere sarebbe stato ancora meglio.
Non ha finito di radersi e già rovista nell’alcova alla ricerca di solo lui sa cosa. Eccolo lì, il Kirby, il tremendo aspirapolvere comprato chissà dove dalla madre e a lei sopravvissuto. Una bella pulita da cima a fondo era proprio quello che ci voleva. Buttato via il pigiama per l’improvviso caldo, ombrelco in mano, passò l’aspirapolvere per tutte le stanze, incurante dell’ora inusitata come delle possibili lamentele dei vicini.
Il sole, forse svegliato da tanto frastuono, era ormai ben alto in cielo mentre Giancarlo rimirava soddisfatto il pavimento. Il pensiero di riposarsi non lo lambì nemmeno, si concesse solo un’altra veloce doccia per lavare via il sudore. Sudare per della sana e consistente attività fisica, un’altra sensazione dimenticata. L’ultima volta era stato per giocare a tennis con Marco: che sfide erano quelle con l’amico, anche se le sudate più gustose erano di gran lunga quelle con Laura. Chissà cosa faceva Marco? Magari più tardi lo avrebbe chiamato. Più tardi, perché prima c’era da andare a fare la spesa. E che spesa! Voleva rivedere il frigo pieno come un tempo; gli si era svegliato un appetito enorme, lo stomaco sbraitava e aveva una gran voglia di cose buone e sfiziose. Avrebbe anche potuto mangiare fuori, perché no? Intanto, premeva la colazione: tempo di vestirsi, darsi una pettinata, prendere l’ombrelco e uscì alla volta del bar più vicino.
Percorrere a piedi quei pochi metri fu una cosa divina. Al bar buttò giù due cappuccini e tre paste farcite: marmellata, crema, cioccolata. Quindi tornò a casa a prendere l’auto e recarsi al supermercato più fornito della città: qui comprò ogni ben di Dio, stipando il carrello all’inverosimile.
Col passar delle ore, Giancarlo si sentiva sempre meglio e al ritorno canticchiava allegro il motivo dell’ombrelco, in gloria al suo tesoro tascabile eppure immenso. Nel chiudere il garage udì la campana della chiesa: s’era fatto mezzogiorno. Entrato in cucina, scaricò a terra le tre sporte stracolme della spesa e mise a bollire l’acqua per la pasta. Nonostante la fame feroce, l’idea di mangiare fuori era stata presto accantonata: aveva troppa carica in corpo per starsene seduto a un tavolo ad aspettare e lasciarsi servire. Avrebbe fatto da sé e mangiato per tre: come primo un bel piatto di penne affogate nella panna al salmone, appena comprata. Per secondo e contorno stavolta avrebbe avuto di che scegliere, con tutta la buona roba che ora si accingeva a trarre da terra. Mentre l’acqua raggiungeva il bollore, avrebbe riposto ogni cosa al suo posto; quindi avrebbe sciolta la panna in un pentolino con del latte, aggiungendo una sottiletta per renderla più cremosa; di seguito avrebbe dosato e preparato la pasta; infine, avrebbe impiegato il tempo della cottura per apparecchiare, tagliare il pane e mettersi sottomano tutto l’occorrente, dallo scolapasta al parmigiano.
