Paolo Volponi nella letteratura italiana odierna ⥀ Andrea Inglese
Per il Centenario della nascita di Paolo Volponi, abbiamo lanciato un’inchiesta sulla presenza dell’autore nella letteratura italiana odierna. Il primo a rispondere è Andrea Inglese. Il suo scritto anticipa gli interventi che faranno Franca Mancinelli, Fabio Orecchini e Salvatore Ritrovato per Volponiana. La poesia italiana per Paolo Volponi, in programma domenica 30 giugno al festival di poesia totale La Punta della Lingua. Per saperne di più sulla nostra inchiesta clicca qui
Il fronteggiamento tra mente e mondo nella poesia di Volponi
Una delle figure ricorrenti nella poesia di Volponi è la situazione di fronteggiamento tra psiche umana e paesaggio, tra mente e mondo. (Con il sostantivo «fronteggiamento» voglio includere i più comuni significati del verbo «fronteggiare», ma anche quelli più specifici, legati all’uso che le scienze sociali attuali fanno del sostantivo, sottolineandone l’aspetto adattivo.) Nei testi volponiani, la mente è, a seconda dei casi, coscienza del paesaggio, frutto organico di una più ampia organicità, prolungamento discorsivo di un sostrato muto e biologico, oppure, in un’ottica rovesciata, legge storica, prassi collettiva, violenza di specie che organizza capillarmente il territorio non umano, trasformandolo in paesaggio. Vi è comunque sempre una condizione di rispecchiamento tra il soggetto umano e l’ambiente che lo circonda, anche se non si tratta mai di un rispecchiamento alla pari, armonioso, equilibrato. In tale condizione s’insinua sempre una scheggiatura, una profonda traccia di violenza, che l’un polo ha compiuto o rischia di compiere sull’altro. E il testo poetico, spesso articolato in successive strofe, spinte a sommarsi quasi da un’incapacità di conclusione, è allora lo spazio enunciativo, in cui questo rispecchiamento-fronteggiamento avviene, e avviene senza esito certo, senza che sia già deciso quale dei contendenti prevalga: se il sostrato naturale o la mente che su di esso è protesa. Forse, per Volponi, si tratta solo di misurare attraverso un esercizio ogni volta rinnovato la consistenza, l’estensione, l’intensità di questa parentela tra umanità e paesaggio, tra la presunzione della libertà e la potenza del fatto ambientale, organico e inorganico. Perché se il paesaggio non è mai intatto e inerte, ma è lavorato da tutte le specie viventi, e particolarmente da quella tra loro più efficace e nociva, l’umanità stessa, la psiche, collettiva ancor prima che individuale, è a sua volta lavorata dalle generazioni e dai mondi storico-sociali che la precedono. Il paesaggio, così come l’essere umano, è nello stesso tempo prodotto e produttore, fattore condizionante ed elemento condizionato. Per utilizzare una chiaroveggente formula di Francis Ponge: «L’uomo non è il re della creazione. Per niente. Piuttosto il suo persecutore. Persecutore perseguitato» (Méthodes, Gallimard, 1961). Parlare, come ho fatto, di rispecchiamento-fronteggiamento è un altro modo di evocare la condizione umana di persecutore perseguitato riguardo al mondo naturale. La lirica moderna, in effetti, ha espresso meglio di altri generi letterari la necessità dell’individuo di ritrovare il proprio volto nella natura che lo circonda, quasi che quest’ultima fosse garante di una autenticità del singolo minacciata dall’universo artificiale della vita metropolitana e collettiva. In Volponi, però, similmente a quanto accade in Zanzotto, vi è molto presto la consapevolezza di quanto il paesaggio non possa costituire questo supporto malleabile di stati emozionali o di proiezioni mentali, sorta di sfondo accogliente e astorico, su cui l’individuo, isolatosi dal consesso sociale, inscrive liberamente le sue fantasticherie. Ciò non è più possibile non solo a causa di quella catastrofe che la modernità capitalistica ha finito per produrre sul paesaggio nel corso del Novecento, ma per la caratteristica irriducibilmente estranea, in senso leopardiano, che esso comunque mantiene. Il paesaggio non può più essere figura dell’umanità, ossia di quel lavoro di addomesticamento lento e tenace in grado di mantenere un equilibrio tra la specie umana e il suo ambiente. L’accelerazione produttivistica ha sfigurato il paesaggio; d’altra parte, quest’ultimo – ci ricordano molti versi di Volponi – non è mai stato abbastanza addomesticato. Di fronte ad esso, l’individuo è doppiamente minacciato, come ricorda Emanuele Zinato nel saggio introduttivo all’opera poetica: «Nei versi, infatti, compare precocemente la paura, l’ansioso terrore animale davanti a forze incontrollabili, interne e esterne» (Introduzione a Paolo Volponi, Poesie 1946-1994, Einaudi, 2001). L’incontro con la natura ridesta il terrore sia del caos psichico che di quello terrestre, dal momento che le potenze ambientali, più e meglio dell’uomo, possono essere letali e distruttive. Dentro questa costellazione di pericoli, ma anche di fascinazioni, si svolge la vicenda della poesia volponiana.
Propongo due passaggi di un testo tardo, Intinto, che appartiene alla raccolta Nel silenzio campale (Manni, 1990), per verificare queste ipotesi di lettura. Ecco l’incipit:
La mente materiale che batte e bibe
come pompa dell’Union Carbide,
intera come ogni presente
suo pensiero, dal lato aperto del lago
va a infrangersi contro l’orlo tagliente
della costa, duro quanto presago.
L’Union Carbide, multinazionale statunitense specializzata nella produzione di fitofarmaci, è qui assimilata all’azione battente e succhiante della «mente materiale». Proprio una filiale indiana dell’Union Carbide, va ricordato, è stata responsabile del disastro di Bhopal, uno degli incidenti industriali più nocivi per le conseguenze sull’ambiente e gli esseri umani che si sia registrato alla fine del secolo scorso (1984). La mente è un’azione, e un’azione capace di avere un impatto materiale di grande potenza, benigna o maligna a seconda delle circostanze. Ma questa azione ha un suo corrispettivo, un suo ostacolo possibile, in quel paesaggio naturale in cui finisce per «infrangersi», e in cui trova un suo limite «tagliente» e «duro». Il primo blocco di versi, delimitati dal punto, distribuisce gli elementi chiave della figurazione poetica. E ci troviamo, appunto, in una delle tante situazioni di rispecchiamento-fronteggiamento tra mente e spazio naturale, che innescano la versificazione volponiana.
Leggiamo ora la chiusa del testo:
Qui sopra qualsiasi uomo cosciente
sa che ogni segno, traccia, sporgenza
è manovrabile per essere stato di un altro;
visto, appreso, adattato da altri
in infiniti modi differenti.
Insieme sono ed hanno comunque in comune
la sorte di essere stati fatti, usati, messi.
L’avverbio di luogo indica la posizione sempre sporgente e sovrastante della “coscienza”, che è la modalità dell’essere umano di essere proteso ad altro, di essere in parte “estraneo” al suo ambiente, e quindi in grado di metterlo a distanza, di “dominarlo” con il pensiero. Ma questa condizione, che rimanda al potere d’agire, alla libertà, alla scelta, è a sua volta un prodotto, un fatto, una realtà che porta in sé una dimensione inerziale. Volponi evoca la catena intergenerazionale di gesti e pensieri che, alle nostre spalle, ci condizionano e, nello stesso tempo, ci rendono “aperti” alla decifrazione del mondo e all’intervento su di esso.
A partire da questa sorta di modello figurativo, che si declina in una quantità di esemplari testuali ogni volta diversi e dagli esiti imprevedibili, si potrebbe avviare una puntuale indagine stilistica e tematica. Indagine, per altro, già presente negli studi specialistici dell’opera volponiana. In questa occasione, m’interessa sottolineare un punto, commisurando questo tratto dell’opera di Volponi al nostro panorama poetico contemporaneo. Gli studi scientifici sull’emergenza climatica, che hanno messo all’ordine del giorno concetti come quello di Antropocene, sembrano avere un’influenza forte anche sul piano della pratiche artistiche e poetiche. E si parla molto, oggi, di «eco-poesia» o di forme di scrittura in qualche modo animate da una nuova sensibilità ambientale. Questo atteggiamento ha qualche inconveniente. Esso produce, innanzitutto, una sorta di distorsione ottica, in quanto rischia di ignorare le diverse forme novecentesche di critica dello sviluppo capitalistico e del più generale dominio dell’umanità sulle risorse del pianeta, forme di cui certa poesia (come quella volponiana, zanzottiana o pongiana) è stata espressione e parte integrante. Soprattutto, però, nozioni come quelle di «eco-poesia» hanno lo stesso difetto di certe formulazioni politiche dell’ecologia. In entrambi i casi, si rischia di fare dell’attenzione all’ambiente e alla sua preservazione una sorta di tema particolare, legato a delle sensibilità particolari, laddove siamo di fronte a una questione politica che riguarda l’umanità in quanto tale, la sua organizzazione sociale, le sue forme di produzione, la stessa sua sopravvivenza, oltre che quella di tutti i viventi. Quindi, in maniera esplicita o meno, in forme dirette o indirette, il tema della crisi ambientale, ossia della crisi del nostro mondo storico capitalistico non può non attraversare le pratiche artistiche e poetiche più consapevoli. La rilettura dell’opera in versi di Volponi può allora esserci utile da questo punto di vista. Il tratto ecologico che possiamo riscontrare in essa è connesso all’ampia consapevolezza che l’ha nutrita e allo sguardo critico che Volponi ha saputo portare sulla modernizzazione. Inoltre, in lui, non troviamo nessuna forma d’idealizzazione ingenua della natura, dal momento che essa è ad un tempo intima, intrecciata irreversibilmente con l’organizzazione artificiale delle società storiche, ed estranea, come anche il nucleo opaco, inconscio, della mente umana. Tra questi due spaventi – riguardo al caos della psiche e al caos del non-umano – si situa il tentativo di dare forma al mondo, e al discorso sul mondo. E la poesia volponiana si attribuisce, nello spazio simbolico e materiale della pagina, questo compito inesauribile e sempre fallibile di costruire un’architettura di suoni e significati.
(Andrea Inglese)
* Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.