Paolo Volponi nella letteratura italiana odierna ⥀ Salvatore Ritrovato

Per il Centenario della nascita di Paolo Volponi, abbiamo lanciato un’inchiesta sulla presenza dell’autore nella letteratura italiana odierna. Il primo a rispondere è stato Andrea Inglese (qui). Il suo scritto ha anticipato gli interventi di Franca Mancinelli, Fabio Orecchini e Salvatore Ritrovato per Volponiana. La poesia italiana per Paolo Volponi, tavola rotonda tenutasi domenica 30 giugno al festival di poesia totale La Punta della Lingua. Riproduciamo di seguito il discorso di Salvatore Ritrovato. Per saperne di più sulla nostra inchiesta clicca qui

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Volponi sulla punta della lingua

 

«Ciò che di me sopravvive
alla mia paura
appartiene interamente
agli altri»
Paolo Volponi, Per questi versi

 

Paolo Volponi è uno di quegli scrittori che si scopre dopo le scuole superiori, se va bene all’università. A me è capitato che Urbino, dove ho fatto l’università, è anche la città dello scrittore. Nel 1986, quando ero al primo anno di Lettere, usciva Con testo a fronte; nel 1989, in piena Glasnost, mentre cadeva il muro di Berlino e nasceva la Pantera (il movimento di protesta degli studenti contro la riforma universitaria del ministro Ruberti), uscivano Le mosche del capitale; infine, nel 1991, quando finii il percorso di laurea, era l’anno de La strada per Roma. A Urbino, anche se non vi abitava stabilmente, Volponi era un punto di riferimento non solo come scrittore, ma anche come uomo politico, intellettuale, vicino al movimento studentesco. Da un incontro all’università di Siena venne fuori un testo dal titolo Volponi incontra la Pantera su «L’immaginazione», nn. 73-74, genn.-febbr. 1990 (rifluito in Scritti dal margine, a cura di Emanuele Zinato, Manni, Lecce 1995, pp. 137-86, d’ora in poi SM).

Nel 1991 Volponi pubblicava un romanzo scritto molti anni prima: La strada per Roma. Era un romanzo d’altri tempi, ambientato a Urbino negli anni Quaranta, ricco di riferimenti personali: ma per noi era facile ritrovarsi nella storia del giovane protagonista che finisce l’università e si chiede che strada prendere. Che vincesse il Premio Strega importava poco; più interessante notare come il romanzo sembrava chiudere un cerchio di memorie e riflessioni aperte dalle pagine di Cantonate di Urbino qualche anno prima.

Nel 1990 era uscito Nel silenzio campale, e l’impressione fu quella di un congedo. Come confermerà, a breve distanza d’anni, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994 (d’ora in poi LV) tra Volponi e Leonetti, che si confrontano tentando un consuntivo della loro vita.

Da un lato, la lettura del Volponi scrittore suscitava entusiasmo e, insieme, sbigottimento di fronte alla complessità incontenibile di una lingua che si misura con un’idea radicale di modernità, contro le gracili vene delle narrazioni minimaliste proposte dal mercato editoriale e i contorti sentieri della poesia italiana fra gli anni Ottanta e Novanta, divisa tra eccessi sperimentali ed enfasi neo-orfiche; d’altro lato, la considerazione del Volponi politico e intellettuale (privo però di pose intellettualistiche) alimentava il desiderio di un approdo diverso alla realtà storica che stava prendendo un nuovo corso sotto i nostri occhi (dico «noi» riferendomi alla generazione che vide il muro di Berlino cadere in pochi giorni sotto le picconate e le ruspe). A nutrire tale desiderio era una concezione della letteratura come progetto, non intrattenimento, come discussione non compiacimento. Gli è che – avrebbe chiosato Volponi – quando porta avanti se stessa, anche attraverso le proprie regole, la letteratura ha sempre un’esigenza e una necessità di indagare, di fare della critica, di dibattere, di inventare, di penetrare all’interno anche delle sensazioni, delle emozioni, cioè di cambiare le luci, di penetrare, di scoprire la realtà di certi mondi (SM 142).

E qualche anno dopo, di rincalzo, avrebbe ribadito:

Ciò che mi interessa e mi piace di più è, in filosofia, come in letteratura, l’utopia. […] Mi piacerebbe arrivare a una rappresentazione completamente diversa del vivere dell’uomo sulla terra. Immaginare un futuro Paradiso Terrestre, dove metteremo le nuove città, le nuove industrie, le nuove università (LV 106).

Da un libro all’altro, le parole di Volponi sembravano riprendere il filo di un pensiero di Elio Vittorini: «Noi ancora andiamo avanti con delle sinfonie, con delle armonie, mentre il mondo fa già tutto un altro tipo di discorso, i linguaggi sono mutati ma non per la nostra letteratura». Era questa la posizione giusta per leggere e comprendere una raccolta come Con testo a fronte di cui non mollavo la lettura sperando di coglierne il messaggio criptato? Era un libro affatto nuovo, che apriva un nuovo orizzonte alla poesia. Era come se dicesse: la ricerca poetica è “politica”. Ne scaturiva una tensione non velata, ancor meno ostentata, che invitava il lettore, che avesse voluto giudicare i versi di Volponi con il bilancino del bello e del brutto, ad abbandonare le vecchie categorie e ad affidarsi al gesto stesso dello scrivere e del leggere: un gesto democratico, perché alla portata di tutti, di “ribellione”. D’altronde, il soggetto della raccolta non chiedeva immedesimazione; anzi, non si lasciava trovare, di tanto in tanto appariva (come dirigente), poi si inabissava, tirando fuori le sue nevrosi e sperimentandone il linguaggio, in strofe unissonans, segnate da un uso energico dell’accumulatio caotica. A Volponi non restava che avvisare il lettore:

se uno crede che la letteratura sia un’attività politica, cioè di intervento, di modificazione della realtà, di progetto, di ricerca, d’ampliamento dell’area culturale in termini linguistici e in termini anche psicologici, storici, allora si capisce come la letteratura vada messa a confronto anche con l’industria e con i problemi dell’industria (SM 140).

Giusto. Ma a Urbino di industria se ne vedeva poca, non sarebbe stato presuntuoso occuparsene? Vi erano, invece, i “mattoni”, quelli che Franco Mazzini aveva narrato, in un libro noto a un pubblico raffinato (Urbino. I mattoni e le pietre, Quattroventi, Urbino 2000). A dispetto della moderna civiltà della “trasparenza”, fatta di acciaio e vetri, questi mattoni sembravano tenere ferma la città in un’epoca ormai lontana e irrecuperabile, in un’aura senza tempo, in un paesaggio immobile come il fondale di un sogno. Mattoni più veri delle pareti patinate della Città ideale di autore anonimo conservata nel Palazzo Ducale. Qual era il mondo da esplorare e criticare, e dal quale imparare? Che cosa poteva fare la letteratura se non voleva firmare la resa all’«industria culturale»?

Con testo a fronte era un libro eccezionale, inimitabile. Dovevo ripartire da una sua costola: quella delle poesie in cui un’esile ma insopprimibile vena post-lirica, precipitando dalle prime raccolte come da un’antica sorgente, resiste e si diffonde, si piega e si dispiega, scoprendo lacune, aprendo crepe, provocando slavine che esondano trascinando materiale inerte e di risulta, relitti e reliquie. Si trattava di poesie che mi imponevano di ragionare con e contro me stesso, espugnando le “contraddizioni” della poesia, non per incarnare un’astratta nostalgia poetica, bensì per legarla più strettamente a quella natura di cui è fatto anche l’uomo (per quanto possa essere divorato dalla febbre del “trans-umano”).

Alcuni versi di Volponi erano di talmente lucida e abbagliante impenetrabilità da profondarmi nel segreto della poesia, là dove era possibile intravedere quell’”enigma” che un Piero della Francesca avrebbe colto nella Flagellazione di Cristo (lo ricorda Volponi in un celebre filmato della Rai, visibile qui). Un enigma che si dischiude nell’interrogazione stessa dell’opera e spinge lo spettatore a guardare e indagare dentro di sé, a dubitare di ogni soluzione definitiva e, di conseguenza, di ogni tentativo di fondazione sul soggetto. I versi di Volponi cominciavano a sgocciolare qua e là nelle mie cose, come avviene in Anniversario che scrissi alla fine degli anni Ottanta (poi finito in Come chi non torna, 2008). In verità si trattava di una poesia dedicata ad Amelia Rosselli, che conobbi ad Arezzo – dove capitavano anche Pagliarani, Porta, Fortini e, ovviamente, Volponi – negli incontri di letteratura “materialistica” organizzati intorno alla rivista «Titus», ma i meccanismi analogici del montaggio li avevo appresi da intense letture volponiane:

Dietro l’ultima pagina si forma
come un cono d’ombra che vuole
nel diario occultare la tranquilla
rivisitazione dell’esistenza.
E poi il bruciato odore sembra avere
delle ginestre, dai rebbi
tranciato, e di mediocri feste.
La certezza del loglio grasso
accresce il moto d’insolenza
ripetuto dal giglio scampato
alla falce in agguato.

Sarà un fiore più ossuto
che si è radicato se scuote
il capo e neppure nei vasi
soffoca di terracotta,
sopra al male guardato, scansato.

Rileggendola mi tornano in mente alcune poesie di Con testo a fronte. L’oggetto per esempio:

La vista di un’ortaglia di una maglia
si affaccia sotto il turchino;
turchino non è un colore
ma l’oggetto preciso del dolore,
vecchio, perso, sempre vicino.

Il modello del verso volponiano è spesso tagliente e lapidario come una lama affilata (penso a Le tracce dell’ultimo sovrano, Dice di aver saputo, Gli uccelli furono ingannati, ecc.); non di rado si distende in una sofferenza appena contenuta nelle pieghe di una memoria che non ama compianti (come in Ettore, in cui il poeta ricorda un caro amico scomparso). Il meccanismo del verso volponiano, fra torsioni e distorsioni discorsive (in direzione del testo “evaporato” a fronte), sgrumava i dettagli entro una cornice nel quale si perdeva lo sguardo del lettore (come avviene in una bellissima poesia dedicata a Pasolini, Pasolini da cinque anni è morto).

Quanto dico vale altresì per le immagini notturne e lunari, come nel celebre esordio di Con testo a fronte («Di un piccolo colore mai visto / si screzia la mesta luna / della mia cecità: / si muove a cercarlo la mente / per arrivare a comprendere se sia / nuovo o affatto inesistente…»), sul quale mi sono soffermato in diversi saggi; o nella prima parte di Come perso, dove la spinta assertiva, sottesa a una intentio ontologica, si dilata in visioni cosmiche in cui il respiro lucreziano si mescola con suggestioni eliotiane dai Quattro quartetti:

La notte è più della morte:
è il sogno l’abisso che non si colma,
la caduta dell’imprendibile sorte.
L’alba è la pecora mansueta
che lecca la spiaggia del mare,
l’aurora il gregge che riconosce
il mite dorso collinare.

Nella poesia di Volponi avvertivo un motore lirico di immagini in grado di adire alla dimensione interiore della coscienza senza negarne la testura tradizionale di simboli e meta-simboli (la luna come sogno e specchio di un’evasione impossibile dal pianeta; la notte come profondità dell’inconscio ecc.), trasvalutati ora in una dimensione discorsiva più interrogante, ora in una dimensione affabulante che smonta i clichés e rovescia le attese:

Omero alla fine dell’ultimo verso
dell’Iliade lasciò cadere la mano,
distolse l’occhio e appena di traverso
voltato il capo sopra un gesto umano
“adesso sono pronto – disse – ad ascoltare
com’era fatta Ilio e come il mare
suo sbattesse; e a sopportare
ciò che gli uomini non poterono sopportare”

cui seguono versi di non minore e distesa limpidezza:

Qualche tempo addietro era la luna
caduta al di là della collina
morbida sotto la curva marina
che dondolava da ogni terra e duna […]
La notte mi detta una poesia
che non si può trascrivere:
soltanto colore che sia
o solo tratto da attraversare […]

Suggestioni che si sarebbero asserragliate fra i miei appunti, contaminandosi con altre importanti voci (come la spietata pietas di Kavafis) rimbalzando di raccolta in raccolta, in un faldone di testi erranti, fino ad approdare al testo che congeda La casa dei venti (2018):

Omero spense la luce perché pensava:
il buio cancellerà ogni sogno.
Gli eroi, gli errori di quel poema troppo lungo
i discorsi che per abitudine o inerzia
salgono alle labbra degli oratori, tutto cancellato.
E gli dèi che puntano sui match e truccano la partita.
La rivolta di Tersite contro ogni certezza.
Anche il bacio di Achille e Patroclo
e il pianto di Briseide spariranno all’alba.

Lo incontrai il giorno dopo che se ne andava
ripetendo (ma con calma): cosa ho fatto?
e fra sé: chiedetemi ancora un verso!
La sua voce appena si sente, freme un po’, si spezza.
Il tempo è come il mare, mi ha detto,
quando passa sulla sabbia:
all’inizio è solo una macchia, poi ha fretta

Dovevo ripartire da qui: cioè da una tradizione di padri e maestri, che, pur lontani fra loro, potessero dialogare. Non a caso dal laboratorio della Pantera urbinate venne fuori una rivista di letteratura contemporanea, diretta da Marco Alloni, e sostenuta da poeti e critici di razza come Manuel Cohen, capace di superare i circuiti un po’ frusti dei cenacoli per iniziati, di cucire nuove trame, alla ricerca di nuovi varchi: parlo di «Profili letterari», che Eugenio Schiavo, benemerito patròn delle edizioni Montefeltro, pubblicò dal 1989 al 1995. Esperimento intorno al quale aleggiavano i buoni auspici di Volponi:

Io ho visto tanti miei coraggiosi amici, bravissimi, scrivere libri, bellissime riviste, pubblicarli, correre loro stessi con fasci e pacchi di questi libri e riviste sulle spalle per le stazioni e spedirle, perché non c’era un altro sistema; e non arrivano a nessuno: stanno lì. […] Per fortuna in alcuni punti, in alcune Università, c’è ancora il tentativo di ricerca libera; ma nelle case editrici, per esempio, non c’è più. Io stampo con la Einaudi; ho visto cambiare il mondo e ho visto cambiare anche la Einaudi: libri di conflitto – o anche saggi e ricerche – sono rari, difficoltosi, e non vengono accettati, non trovano spazio e mercato (SM 161).

Parallelamente, ne Il leone e la volpe, Volponi esprimeva «anche un’altra speranza», di leggere cioè «ancora qualche bella poesia», pur precisando che «le poesie non cambiano il mondo, ma aiutano chi le legge, a stare più vigile, a pensare, a capire la società in cui è immerso» (LV 132).

Scrivere ancora qualche bella poesia? In che senso? Avevamo deciso di non cedere alla tentazione di pubblicare poesie sulla nostra rivista, e di aspettare, dibattere, confrontarci, ligi ai moniti volponiani: la letteratura non è passatempo ma lotta, non intrattenimento ma conoscenza, non imitazione ma rottura, non applauso ma critica. In tal senso, una letteratura come ricerca, ancorché non riconducibile all’esperienza, la rendeva possibile, coerentemente con l’ascolto delle istanze lirico-sperimentali di un Volponi e – non si dimentichi – di una Rosselli o, infine, di uno Zanzotto, che nel 1986 era uscito con Idioma, e intanto attendeva alle strabilianti Fantasie di avvicinamento, nel 1992. Nel mio piccolo, rigettavo la figura del poeta ambizioso di mettersi in vetrina; per contro avvertivo una no-confort zone di imminente disgregazione di quella comunità provvisoria rispetto al sistema che essa si era proposta di soppesare e valutare con una specie di orgoglioso ripiegamento sulla letteratura come “condizione”, per usare un’espressione cara a Carlo Bo, il nostro rettore. (Con Bo, però, evitavamo di confrontarci, intimoriti dalla distanza siderale dalla quale sembrava guardare le tristi sorti della colonizzazione della letteratura da parte di un’editoria senza editori, e soprattutto dalla lontananza generazionale che si traduceva in un dislivello di propositi e progetti cui non sapevamo come agganciarci, persuasi che la letteratura che lui aveva vissuto fosse ormai sigillata come in un inviolabile scrigno).

Oggi, l’idea che la letteratura resti, malgrado tutto, una “condizione” che trascende qualsiasi riduzione professionalizzante (dall’editoria alla scuola al giornalismo), mi pare una prospettiva essenziale per tornare a leggere l’opera di Volponi di là dal suo oggettivo perimetro temporale. In nome di cosa, infatti, occorre che la letteratura “rompa” la realtà se non vi è la coscienza insopprimibile di una condizione cui la letteratura dà voce? Scrive Volponi:

Essere intellettuale significa non essere solo bravi, eruditi, istruiti, laureati e scrittori e saggisti. L’intellettuale, secondo me, è magari uno che non ha fatti tanti studi ma che ha una capacità di invenzione e che progetta delle novità. Bisogna porsi fuori da queste condizioni: il che significa dibattere, significa essere scomodi, significa pagare anche di persona, intervenire. Ci sono scrittori che scrivono delle cose che si sa che vanno secondo il gusto, per cui accontenteranno molte orecchie, molti ron ron e daranno evasioni e dolcezze a tanti buoni lettori: centomila, duecentomila, trecentomila. E ci sono scrittori che invece rodono contro se stessi e contro la pagina, duramente, sapendo benissimo che quel che fanno è difficile (SM 160).

Oggi sappiamo che il vero maestro è colui che insegna a riflettere all’allievo sui propri limiti, e però non nasconde i suoi. In quegli anni non era un’ansia di scrittura a farci cercare vie nuove e originali, ma un’attesa cui era impossibile dare un nome. Ad angolare la lettura dell’opera volponiana, fra gli anni Novanta e il Duemila, era la riflessione su una società letteraria sempre più arrendevole alle esigenze del mercato editoriale, così come già presagiva Volponi ne Il leone e la volpe:

Le opere letterarie, o pubblicistiche in genere, rispondono ormai a ricette precostituite: la riconoscibilità, la spettacolarità. Mai l’azzardo, mai la sfida. Quando i romanzi di consumo li si spaccia per altro, si finisce per vendere merci avariate. La cultura, la letteratura italiana si sono incrinate, sperse, e anche nascoste. Si può parlare oggi, di scrittori italiani? No, perché siamo in presenza di gruppi frazionati in lotta. Non esiste più la civiltà letteraria, se mai ce n’è stata una. E qui c’entra, eccome, l’industria culturale… (LV 112).

Da studioso di Volponi, attento osservatore delle sue mosse, esigente e insieme ingenuo pedinatore delle sue carte nelle quali prendeva forma l’Opera, mi sentivo altrove rispetto a lui: l’Italia nella quale ero nato e formato non aveva conosciuto né la devastazione della guerra né l’ansia della ricostruzione, godeva però dei frutti dolciastri di un benessere malato. Tra poche certezze e molti dubbi, cominciava a stagliarsi, nella mia fantasia, la trascurabile vicenda di un uomo gettato nell’esistenza e catturato in una rete ingarbugliata di finzioni e simulazioni, dove allignava un’orgogliosa ma fragile coscienza esistenziale, un sentimento vano di indipendenza che lo spazio interiore della letteratura poteva garantire, in contrapposizione agli eventi storici (prima guerra del Golfo, fine della Guerra Fredda, conflitto nella ex-Jugoslavia, Mani pulite…) che negavano quei valori di democrazia, verità, libertà, onestà, e così via, portati nel cuore di un’opera marginale.

Ecco, il concetto di “marginale”, che campeggiava nel titolo della raccolta di articoli e interventi di Volponi usciti l’anno dopo la sua morte, prendeva vivo risalto agli occhi di un giovane che voleva ripercorrere il Novecento facendo sua la lezione “inattuale” dello scrittore urbinate, senza la pretesa di imitarla, fino a cadere nella trappola dei manierismi ideologici.

A semplificare quanto sto dicendo, mi soccorre la prossimità del cimitero di San Cipriano dove Volponi oggi riposa, accanto alla moglie Giovina e al figlio Roberto. Cimitero di una delle tante frazioni di Urbino, sul dorso di un colle situato a nord-ovest del paese: intorno è un panorama di cime e verdeggianti convalli, adagiate con pennellate lente e sfumate. Non casualmente scelsi di aprire la mia ultima raccolta per Marcos y Marcos, La circonferenza della vita, con una poesia ispirata a una visita che feci a San Cipriano, il 2 novembre 2014:

È umida la luce dell’autunno, a San Cipriano.
Intorno, fra corone di siepi, si accendono i prati.
Calma e antica è l’aria della mattina.
Lungo il sentiero ritrovo i passi di altre giornate.
Salgono in pochi quassù, i minuti contati
ospiti tra gli ospiti di un’altra vita.
Dopo un po’ scende il silenzio sulla collina
le voci se ne vanno alla prima corrente.
È come un piccolo altrove il cimitero
un mondo che vive per un fringuello o un biancospino.
Fatto recinto nel ricordo dell’innocenza.
Sono nella corte dove nessuno mi aspetta, chiuse
le porte della pieve come un ufficio senza orari.
Almeno oggi questa colpa di esistere vorrei metterla da parte,
dimenticarla, come non riguardasse la mia coscienza.
Resto nella corte dove nessuno mi aspetta.
L’ombra che mi segue si ferma con me, si avvicina.
Sono io che aspetto la visita che mi riporta in vita.

Quel rompere gli schemi della realtà che Volponi invocava mi invitava a riflettere su una condizione d’attesa proprio nell’ultimo fortilizio dell’antica cittadella della letteratura, sempre più stretta nelle logiche commerciali, contro i salotti e i saloni, contro i premi allineati al trito conformismo, e così via. La mia condizione era quella di un giovane che dalla provincia osservava sbigottito il disfarsi senza costrutto della preziosa eredità politica post-resistenziale, il mummificarsi dei suoi valori, che non bastava celebrare, bisognava risvegliare: era, insomma, la condizione di chi non soffre solo per mancanza di spazio democratico, ma anche per mancanza di aria buona, pulita. Possibile che non restava che indossare una mascherina? Chiaro che no. Al centro della mia prima raccolta misi un’allegoria di quell’antica navigazione che aspetta chiunque si imbarchi nel mare della letteratura: in fondo, era un libro che parlava di altro come di un sogno, del “sogno di una cosa”. Un’allegoria dell’attesa che non voleva colmare semplicemente un vuoto di idee e prospettive, ma spingere il soggetto all’indagine della contraddizione fondativa della scrittura poetica tra «quanta vita» il soggetto, ripiegato su posizioni post-ermetiche (come denunciava l’indizio luziano del titolo), sarebbe stato in grado di filtrare (più o meno del 5% per cento montaliano?), e la rappresentazione che egli ne avrebbe offerto: contraddizione che ribolliva in una chimerica, o forse utopica, coscienza di “non-classe” che, con redivivo senso di “in-appartenenza”, sopravviveva in una comunità disgregata dal totalitarismo neoliberista, trionfalmente sopravvissuto alla fine di una fase storica.

A quale classe sociale potevo dire di appartenere trentenne con una precaria borsa di studio senza contributi, senza previdenza, senza assicurazione, senza indennità integrative, senza rimborsi? A quale visione o narrazione liberatrice del mondo potevo affidarmi? Che cosa si era modificato nel linguaggio con il quale intendevo rappresentare le vicende di un me che in buona parte coincideva con l’io empirico, e quindi nella coscienza di questo me nel quale mettevo in scena delle verità che sarei stato altrimenti incapace di riconoscere ed esprimere? In quel prologo allegorico trovai lo slancio, sollecito ma disilluso, verso la ricerca di una – con parole di Volponi – «verità del mondo contro la simulazione, la sofisticazione, la bugia che il mondo è diventato» (SM 196).

(Salvatore Ritrovato)

Urbino, 29 giugno 2024