Paolo Volponi nella lingua italiana odierna ⥀ Valerio Cuccaroni
Per il Centenario della nascita di Paolo Volponi, abbiamo lanciato un’inchiesta sulla presenza dell’autore nella letteratura italiana odierna. Il primo a rispondere è stato Andrea Inglese (qui). Il suo scritto ha anticipato gli interventi di Franca Mancinelli, Fabio Orecchini e Salvatore Ritrovato per Volponiana. La poesia italiana per Paolo Volponi, tavola rotonda introdotta da Massimo Raffaeli e tenutasi domenica 30 giugno al festival di poesia totale La Punta della Lingua. Dopo avere riprodotto il discorso di Salvatore Ritrovato (qui), in attesa di pubblicare gli altri interventi, chiudiamo questo anno di celebrazioni volponiane con una riflessione di Valerio Cuccaroni sulla storia di due parole chiave dell’ideologia dominante, manager e computer, rilette con le lenti che ci ha fornito Volponi. Per saperne di più sulla nostra inchiesta clicca qui
Ho dedicato la mia ricerca di dottorato, condotta ormai vent’anni fa tra l’Italia e la Francia, tra l’Università di Bologna e quella di Paris IV Sorbonne, a Paolo Volponi perché, fra gli autori presi in considerazione all’epoca, rispetto a Pier Vittorio Tondelli e Gianni Celati, Volponi seppe unire alla sua ricerca letteraria un impegno fattivo nella società e nella politica italiane del suo tempo. Era, insomma, un esempio di umanesimo attivo che ogni intellettuale in una repubblica dovrebbe incarnare. A distanza di vent’anni il mio giudizio non è mutato, semmai ha trovato conferma nel completo trionfo del capitalismo postfordista, del finanzcapitalismo di cui Volponi narrò la genesi nel suo capolavoro Le mosche del capitale.
Maestro del dubbio a cui ispirarsi per rileggere in negativo la narrazione dominante, Volponi può fornirci gli strumenti necessari per ricostruire la storia di due termini tecnici dell’ideologia imperante: manager e computer.
Il declino dell’industria italiana, di cui sono emblematici il calo del fatturato nel settore e la degenerazione del caso Fiat in fuga con Stellantis, si riflette sulla storia della nostra lingua. Come si dice manager in italiano? Non esiste un vocabolo singolo nella nostra lingua per definire questa professione, occorre impiegare una locuzione polirematica, un sostantivo con un complemento di specificazione, “dirigente d’azienda”. Allo stesso modo, invece di management abbiamo “direzione aziendale”. La lingua, in effetti, proprio come l’economia, funziona secondo il principio della massima resa con il minimo sforzo, per cui al posto del dispendioso dirigente d’azienda si è imposto l’uso di manager; invece di direzione aziendale management.
Nel Censimento permanente delle imprese, pubblicato a novembre 2023, l’ISTAT preferisce il termine manager a dirigente (usato solo in un paio di elenchi del tipo “i dirigenti, i quadri, gli impiegati, gli operai e gli apprendisti”). Esemplare l’uso del prestito innovation manager, al posto di un possibile ma non utilizzato “*dirigente dell’innovazione”. Scrive l’ISTAT: “Riguardo alle attività innovative svolte nel 2022, viene confermato il carattere poco formalizzato già emerso in altre rilevazioni. Soltanto il 20,8% delle imprese con attività di innovazione hanno individuato al proprio interno una struttura o una persona responsabile dei progetti di innovazione, ovvero la figura dell’innovation manager.”
Alla nostra economia servono dirigenti dell’innovazione: perché ce ne sono così pochi? La mancanza di parole nostre per indicare le nostre necessità può spiegare in parte la situazione? La lingua riflette i cambiamenti sociali: la sostituzione di vocaboli italiani con un prestito anglosassone per indicare la funzione apicale del mondo industriale è il sintomo della sostituzione di una nostra visione dell’economia con una visione di importazione. Ce lo dimostra la storia, anzi la leggenda di Adriano Olivetti: la sua vita, spesa per sviluppare un’industria che coniugasse alta cultura, servizi sociali, innovazione tecnologica agli utili necessari per gli investimenti, condusse l’azienda a dominare il mercato internazionale delle macchine elettroniche. La spinta fu così forte che sopravvisse alla sua morte, spingendo il gruppo di ricerca guidato dall’ing. Perotto a progettare Olivetti Programma 101, uno dei primi, se non il primo in assoluto, “calcolatori da tavolo”, come avremmo potuto chiamare i personal computer, se avessimo ricordato il successo riscosso da quella macchina all’esposizione di New York nel 1965, i 900 mila dollari di diritti che la Hewlett-Packard dovette pagare all’azienda italiana per avere copiato la P101 con la sua macchina HP 9100A e i 44000 esemplari di P101 venduti, tra cui quelli alla NASA, usati per lo sbarco dell’Apollo 11 sulla Luna.
Cosa è successo, allora? Perché il dirigente è diventato manager e il calcolatore computer, che peraltro è un latinismo anglosassone e significa calcolatore (da computare, latino per calcolare)?
Esistono i manuali di storia, economia e sociologia per capirlo, ma, se avessimo bisogno di un racconto che restituisca una prospettiva umana alla storia apparentemente disumana della finanza e delle merci, potremmo prendere, dallo scaffale di una qualsiasi delle migliori librerie o biblioteche italiane, Le mosche del capitale.
Trentacinque anni fa, nel 1989, l’ex dirigente d’azienda Paolo Volponi pubblicava il più grande romanzo italiano sul capitalismo che sia mai stato scritto. Basato sulla vicenda autobiografica di Volponi, dirigente della Olivetti che da direttore delle risorse umane ne divenne amministratore delegato, al suo apparire Le mosche del capitale suscitò polemiche perché in alcuni personaggi del romanzo si riconobbero persone viventi che accusarono l’autore di avere distorto la realtà, in special modo Renzo Zorzi, già dirigente olivettiano, ma Volponi fu difeso da Franco Fortini e quelle polemiche evaporarono.
Rielaborando riflessioni e appunti accumulati negli anni, Volponi raccontò la vicenda di Bruto Saraccini, un suo alter ego, dirigente d’azienda, che si incarica di perpetuare una visione illuminata dell’industria, identificabile in quella di Olivetti. Saraccini viene nominato amministratore delegato di un’impresa chiamata MFM, ma a causa delle sue simpatie comuniste, il presidente gli affianca l’ingegner Sommersi Cocchi, provocando così le dimissioni dello stesso Saraccini.
Se si considera Le mosche del capitale un romanzo a chiave, Sommersi Cocchi non può essere che Ottorino Beltrami e non Carlo De Benedetti, come erroneamente scritto nella voce Wikipedia dedicata al romanzo.
L’ingegner Beltrami fu chiamato, a novembre 1971, come amministratore delegato, dal presidente della Olivetti, che all’epoca era Bruno Visentini (nel romanzo diventato Ciro Nasàpeti), proprio per affiancare Volponi, che non poteva restare da solo ad amministrare. Beltrami era un ammiraglio, al comando di sommergibili nella Seconda guerra mondiale, che aveva avuto un ruolo determinante nella divisione Olivetti General Electric. Sommergibili, aziende internazionali, cultura manageriale americana: Beltrami incarnò il nuovo stile di leadership aziendale. La politica del personale si indurì in un modo inconcepibile nella Olivetti di spiriti liberi quale fu in precedenza.
Le mosche del capitale narra la fine dell’utopia realizzata da Olivetti e sostituita da un processo di deideologizzazione e normalizzazione, che passa proprio dalla imposizione di una figura di dirigente, come quella dell’ing. Beltrami, nell’accezione americana di manager.
Non basterà sostituire una parola straniera con un’altra italiana, ma tornare a leggere Le mosche del capitale, da quest’oggi in cui si chiude il Centenario della nascita di Paolo Volponi per tutti gli anni a venire, potrebbe aiutarci a riprendere quella teoria della prassi che restituisca all’Italia la possibilità di sviluppare un altro tipo di industria, capace di trasformare l’utopia in realtà.

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)
Buona sera Valerio, una riflessione molto interessante questa su Volponi grazie. Ho ripreso subito in mano il volume Le mosche del capitale che ho letto forse quasi 3 decenni fa. Mi sono accorto che nella edizione Einaudi Tascabili del 1991, vi è una piccola prefazione non firmata (ma che potrebbe forse essere di Volponi stesso che parla in terza persona, mi piacerebbe sapere cose ne pensi), in cui si legge: “è stato persino troppo facile identificare … l’ingegner Sommersi Cocchi con Carlo De Benedetti” quindi probabilmente deriva da lì l’errore da te riscontrato in Wikipedia quando osservi: “Se si considera Le mosche del capitale un romanzo a chiave, Sommersi Cocchi non può essere che Ottorino Beltrami e non Carlo De Benedetti, come erroneamente scritto nella voce Wikipedia dedicata al romanzo”.
Da ultimo, cominciando a rileggere subito il romanzo mi sono anche reso conto che ha uno stile abbastanza difficile alla lettura, con quegli elenchi interminabili di soggetti o oggetti mai separati di virgole e affastellati (quasi un Ariosto del XX secolo) che cullano il lettore inducendogli una sensazione viva delgli scenari descritti ma anche gli fanno perdere il filo. Ho pensato che oggi pochissime se non nessuna casa editrice consentirebbero uno stile simile non dico a uno scrittore esordiente ma neanche ad uno abbastanza affermato, per il precetto male inteso che la lettura debba essere sempre comunque agevole.
Caro Francesco, non so da dove abbia origine la confusione, ma la storia è nota: nel 1971 Bruno Visentini offrì a Volponi l’amministrazione delegata di Olivetti ma spaventato, forse su pressione di Confindustria e degli azionisti, decise di affiancargli l’ex ammiraglio Ottorino Beltrami. La diarchia avrebbe reso impossibile attuare il progetto di Volponi, per cui dopo una burrascosa serata, egli rassegnò le dimissioni. Cfr. Emanuele Zinato, Commenti e apparati in Paolo Volponi, Romanzi e prose, vol. III, Einaudi, p. 788. La scrittura di Volponi si serve dell’enumeratio che è una figura retorica tipicamente anticlassicista e barocca che riproduce una realtà del mondo non ideale: la visione classica riduce il mondo a un modello ideale di armonia, mentre la visione moderna ne svela la caoticità. Perdere il filo è necessario per consentire di percepire la struttura labirintica della realtà (il garbuglio gaddiano). Concordo sul finale. Pensa che nel 1989 Le mosche del capitale vendette 15mila copie (prima tiratura), poi, secondo Volponi a causa della scarsa pubblicità, solo (solo!) altre 5000 per la prima ristampa, fermandosi alle ulteriori 3000 per la seconda. Oggi quale libro vende quasi 20mila copie? Nel 2021 ha venduto 21.000 copie “Lettera a una ragazza del futuro” di Concita De Gregorio. È cambiato tutto.
Grazie mille Valerio per i tuoi chiarimenti: non ho letto gli apparati di Zinato ma li cercherò appena finisco Le Mosche del capitale. Più mi addentro e più mi rendo conto che la caoticità dello “gnommero” scrittorio di questo romanzo ha un effetto stranissimo: mi perdo nel testo, divago mentalmente associando cose anche esterne e derivate dalla mia esperienza, e allo stesso tempo sento sobbollire forti moti di antipatia e vera e propria ribellione per le strutture di potere dell’industria e del capitale, e i suoi mascheramenti verbali, ma anche gestionali e direi attoriali, o di comportamento e posa, che Volponi finisce per mimare in modo perfetto. Quindi devo ammettere che la scrittura raggiunge un suo obiettivo molto pertinente e allo stesso tempo assai difficile. Lo straniamanto e una forte contrapposizione anche emotiva, insomma Volponi riesce a spingere il lettore a prendere posizione senza tentennamenti. Strano che questa sensazione io non la ricordi dalla mia precedente lettura, e mi viene il dubbio che sia perché all’epoca ancora non avevo avuto esperienze lavorative nelle grandi imprese italiane, che mi hanno poi fatto conoscere meglio la realtà descritta da Volponi sebbene molto mutata da 40 anni di deregulation e neo-liberismo che io penso sempre sia un neo-schiavismo.
Da ultimo ho visto che a pagina 164 della mia edizione economica Einaudi Tascabili N° 58 del 1991 si legge: “Cosa cercava Ulisse se non una porta? E così Dante e così tutti i veri ricercatori? E cosa cerca oggi l’avvocato G. A. o l’ingegnere C. D. B. se non una porta sempre più alta, ferma esclusiva dominante invalicabile eppure apertissima, tanto da immettersi su tutto e tutti?” Quindi almeno una citazione dei personaggi reali del soi-disant capitalismo italiano nel libro c’è, se pure solo per le iniziali.