Parasite – Cinema della frustrazione come motore del conflitto di classe

Per il mercato occidentale, prima di Parasite, il sudcoreano Bong Joon-ho era il regista di Snowpiercer (2013), Okja (2017) e The Host (2006), tre film a loro modo ben fatti e spiazzanti ma tuttavia lontani dalle vette raggiunte dall’autore con Barking Dogs Never Bite (2000), suo film d’esordio, Memories of Murder (2003), e soprattutto Madre – Madeo (2009), tre perle da recuperare per chi ha apprezzato Parasite.

Qualunque storia racconti, che tratti di cani rapiti, di un serial killer sudcoreano, di una madre determinata a dimostrare l’innocenza del figlio, di un supermaiale, di un futuro post-apocalittico in cui i sopravvissuti vivono su un treno in corsa o di inquinamento che genera una creatura mostruosa, Bong Joon-ho è un maestro di affabulazione che sa tenere lo spettatore incollato alla poltrona e non rinuncia mai a sorprenderlo con impensabili cambi di registro. Nel cuore di ogni racconto esemplare ci sono i personaggi: «È grazie ai personaggi che ti sembra ancora che tutto faccia parte di un’unità coerente. La mia direzione per il cast è stata: la trama sei tu», dice Bong in un’intervista a RollingStone. E ciò è ancora più coerente alla luce dei sette film da lui scritti e diretti. Il tocco con cui descrive l’umanità che popola le sue storie è anche il risultato di un lavoro eccellente sugli attori.

Parlando di Parasite, Palma d’oro 2019, si è molto insistito su diseguaglianze sociali e lotta di classe, che è guarda caso l’argomento di un’altra partecipazione sudcoreana a Cannes di quest’anno, Burning – L’amore brucia (con cui condivide anche il direttore della fotografia Hong Kyung-po), straordinario film di Lee Chang-dong, e anche della Palma d’oro 2018, Un affare di famiglia del giapponese Hirokazu Kore’eda. Ognuno di questi grandi registi orientali, a modo suo, ha rappresentato la vita d’espedienti di chi cresce in una famiglia di basso ceto mettendola a confronto (almeno in due di questi casi) con una ricchezza sconcertante vista appunto con gli occhi di chi ha ben poco. Un forte tema contemporaneo, non solo in Sud Corea o in Giappone, e da ciò sembra scaturire un (ri)sentimento ancora più radicale della bipartizione tra classi agli antipodi, un’acrimonia che è quasi sempre motore delle storie del regista sudcoreano a partire da Barking Dogs Never Bite e che rende più centrato il discorso politico di immediata lettura – molti di noi, in fondo, non sono né sfacciatamente poveri né sfacciatamente ricchi. Sto parlando della frustrazione, che in Bong, anche quando non è palesata come in Parasite (tutto sommato la famiglia dello scantinato non sembra infelice), agisce comunque come cartina di tornasole per mostrarci l’acidità del campione in esame: la famiglia Kim ci sembrerà affiatata ma vive in uno scantinato infestato dagli scarafaggi e dipende dai vicini per il segnale wi-fi, nessuno dei componenti lavora, sebbene siano tutti e quattro capaci, e più avanti si rendono conto di avere tutti lo stesso odore.

I ricchi, invece, come osserverà il figlio maschio dei Kim Ki-woo, sono tutti belli e perfetti. I Kim sognano di vivere come i Park, i loro corrispettivi abbienti, ma la frustrazione è già elaborata (“Perché ti sei rivolto a un perdente come me?”, chiede il giovane Ki-woo all’amico che lo incarica di dare ripetizioni alla figlia dei Park), non brucia di passione come in Burning, non si manifesta in scatti rabbiosi come in Barking Dogs. È riposta con loro in cantina, sotto la superficie delle cose, addormentata, soluzione che consente al film di partire leggero come una commedia mostrandoci l’efficienza degli espedienti con cui la famiglia Kim si introduce nella ricca casa in collina, una sorta di lungo prologo che permette a Bong e al suo co-sceneggiatore Han Ji-won di mantenere separati i piani e rimarcarli, come vedremo, piuttosto che intessere una più prevedibile relazione di ribaltamento dei ruoli tra gli ospiti e gli ospitanti. Bong, tra gli altri, per sua stessa ammissione si ispira a Il servo (1963) di Joseph Losey, uno dei capostipiti del suddetto rovesciamento di psicologie.

La famiglia Kim, nella sventura sociale, è unita; l’uno porta dentro gli altri e tutti si includono a vicenda. Sanno essere quasi impeccabili nel loro non oltrepassare mai il limite imposto dalle regole dei ricchi – le metafore sono letterali, in Parasite, loro, i ricchi, hanno la puzza sotto il naso. E la puzza del sottoscala, quella i Kim non possono levarsela di dosso, è un marchio di fabbrica, made in bassifondi. Questo cinema della frustrazione sa espletarla sottovoce: origliando, osservando, desiderando; e sa farla agire sottotraccia velandola, fino a quando, naturalmente, le cose si mettono male e il principale responsabile della condizione di povertà, il capofamiglia nucleare, esplode, e la frustrazione insorge dallo scantinato che si porta dentro deflagrando non già addosso a chi desidererebbe essere, ma nei confronti di colui dal quale nessuno di loro può davvero nascondersi.

In mezzo a tutto questo ci sono, come in Snowpiercer e in Barking Dogs, differenti livelli di degradazione, dal seminterrato al bunker nascosto nelle cavità della villa, dove la comunicazione è talmente retrograda da doversi esprimere col codice morse. Bong gioca a rimpiattino con lo spettatore, ma sempre, benché esageri, di grande affabulazione si tratta (Bong sa esagerare benissimo). Il cinema del regista sudcoreano si rende imprendibile, ovvero non riconducibile alla tana dello spettatore che arranca divertito cercando di afferrare i generi mentre fuggono da tutte le parti. Se si trattasse di virtuosismo fine a se stesso non staremo qui a parlarne; Bong risponde a una domanda che si pone anzitutto come sceneggiatore, che è una domanda sulla struttura – una struttura, per essere solida, deve avere buona fondamenta –, la domanda che invece lo interessa come spettatore è che la sostanza non sia a detrimento dello spettacolo e viceversa. Diremo che la risposta che si dà il regista Bong è nella verticalità dell’esperienza. Come per il treno di Snowpiercer, se lo afferri per la testa e ne sollevi il modellino, lo scorrimento orizzontale si verticalizza, i vagoni sono piani, la cima l’attico.

In Parasite, nella sequenza della fuga di notte della famiglia Kim da casa Park mentre diluvia, li vediamo che scendono e discendono fino ad arrivare a casa, lo scantinato ormai allagato dove tutte le loro cose galleggiano. La frustrazione agisce quando il sommerso torna in superficie. Bong riempie, leva e porta a galla, lavorando prima d’accumulo, poi permettendoci di vedere il deposito sotterraneo e il suo simbolo, la pietra vulcanica dell’origine che torna come monito di tutti i misfatti (ma anche questa, come vedremo, è un’allegoria disattesa che si ritorce contro chi la formula). Perché lo spettatore è chiamato a partecipare su più livelli. Anche se il piano, come dirà Ki-taek al figlio, è non avere un piano – “se nulla possiedi nulla ti verrà tolto”, estremo insegnamento della sua filosofia di perdente –, i piani del racconto rispondono perfettamente al disegno generale di questo sommerso, che, magistralmente, ci è stato fatto baluginare davanti quando Ki-taek afferra la moglie con violenza e in un attimo le reazioni di tutta la famiglia sono sospese quanto lo spettatore dal cambiamento improvviso di tono. Era solo uno scherzo ma in realtà era molto di più, e serviva a metterci in guardia dal sommerso. Non ci sono soluzioni facili ma immedesimazioni difficili, in Parasite. Ki-woo che vuole sbarazzarsi dell’abitante del sottosuolo e, come in un “gioco di Ripley”, vediamo quasi necessaria ai fini del racconto la sua azione omicida. O l’immedesimazione di Kim padre, Ki-taek, verso l’abitante del sottosuolo che sostituirà come una profezia che si autoavvera.

Bong porta dentro altra roba fonda, altre cose sopite, anche i ricchi hanno il loro sommerso di depravazioni come tutti gli altri, perché non dovrebbero. L’amore verso i figli come estensione dell’amore per se stessi; le buone maniere come forma di distanza sibaritica; la gentilezza come lusso che possono permettersi, ma i ruoli, se levi la puzza, sono intercambiabili: Kim Ki-jung che fa il bagno nella vasca di casa Park è vista dal fratello come perfettamente a suo agio, gli sembra una di loro; del resto si sta lavando via l’odore del seminterrato.

L’affabulatore Bong dirige come Hitchcock, pensa come Marx e scrive come uno Ionesco riappacificato quel tanto che basta con la condizione umana da fornirgli una struttura narrativa a orologeria. Crea sequenze magistrali e divertentissime, si pensi a quella con la canzone In ginocchio da te in sottofondo: la famiglia Kim per la prima volta sotto scacco, con le mani alzate come se avessero un’arma puntata contro anziché un cellullare, e un istante dopo fanno tutti e quattro irruzione nel delicato ricordo dell’inquilino del bunker sorprendendolo esattamente lì dove il flashback termina, il volume sale (Io / t’amo più / della mia viiiii-ta canta Gianni Morandi), le azioni di lotta concitata per impossessarsi del telefonino rallentano, Ki-jung corre a prendere in frigo le pesche per sfregarle in faccia all’allergica ex governante della villa (niente parrebbe meno pericoloso di una pesca).

In Parasite Bong crea un ottovolante di situazioni emotive che dalla commedia virano al dramedy passando per il thriller, e, come dicevamo, tiene questo passo sregolato attraverso l’ideazione di personaggi in preda a un fuoco di rivalsa frustrata e che dunque non rispondono alla logica di un plot prestabilito, ma piuttosto lo realizzano strada facendo per rimandi e rime interne: contatti, odori, scale, oggetti, finestre come schermi di un cinema interattivo in cui poter cambiare il corso della storia o rallentarlo. Bong è un narratore orale che agita le mani e accelera la voce quando nella storia c’è caciara, uno di quelli che puntano gli occhi su chi li ascolta a bocca aperta per godersi con loro il momento. In questo senso, il registro grottesco aiuta a non perdere la voce quando tendi le corde, è un misuratore di tutte le controversie in gioco ma anche una livella. Perché tutti abitano comunque l’illogico, l’assurdo della condizione di chi ha troppo e di chi non ha niente. E l’assurdo è una risata tragica che si traduce in spastica come quella di Ki-woo (o come non pensare a quella del Joker).

Ma Bong non è nemmeno così cinico. Dalla frustrazione non può venire nulla di dolce, d’accordo, ciò nonostante come la lotta di classe era per Marx motore della Storia e fonte di un cambiamento, così sono i sogni che nessuno può toglierti, la missione assegnatasi, un motivo per spingersi verso qualcosa di altrimenti irraggiungibile – che sia anche il desiderio di salire solo per poter un giorno ricongiungersi (come in una litografia dell’impossibile di Escher) con chi si è lasciato indietro, intrappolato sul fondo.