Le particelle infinitesimali di Valentina Riva ⥀ Passaggi

Pubblichiamo oggi per la rubrica Passaggi il racconto Le particelle infinitesimali di Valentina Riva, illustrato da Andrea Capodimonte tramite Midjourney. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney, Both women head to a white room where blood is drawn in which a red thread fills a small plastic tube…, 2024.

 



 

Mia madre avvicinò i suoi occhi ai miei, come per scavarmi dentro: «Andiamo, altrimenti facciamo tardi». Mi aiutò a salire in macchina e, una volta arrivate, mi accompagnò nella stanza bianca. Guardai il filo rosso riempire il tubicino di plastica fin quando non sentii lo slap del laccio. L’infermiere premette un batuffolo sulla vena graffiata: «I risultati saranno pronti tra due o tre settimane».

Iniziò tutto nell’autunno del 2014, quando avevo appena compiuto sedici anni. Le mie forze avevano cominciato a colare fuori dalle vene piano piano; le vedevo stagnare ai piedi del letto, come una pozzanghera sporca. Per muovermi dovevo forzare il corpo che, per essere una carcassa vuota, pesava parecchio. Pensavo che fosse colpa dei grumi di fango depositati nei polmoni. Dovevo averli respirati durante le passeggiate nei turbini di foglie secche, in cui mi trascinava mia madre quando ero troppo stanca per andare a scuola.

Neanche i miei occhi funzionavano più come una volta, visto che si chiudevano appena il sole cominciava a sciogliere la penombra. La luce aveva smesso di essere un’aura bianca e si era trasformata in un fascio di aghi bollenti che si infilavano nelle pupille per ferirmi fin nello stomaco. Preferivo coprirmi di buio; lasciavo che mi strisciasse addosso, che entrasse dentro di me e mi imbottisse fino a farmi esplodere in milioni di particelle.

Restavo sospesa nella mancanza, nell’odore polveroso della camera chiusa e della mia pelle. A volte mi addensavo sui vetri della finestra come a fingere di voler uscire, altre, tornavo giù tra le ombre molli dei vestiti sparsi. Poi, un giorno, forse per la prima volta, mia madre aprì la porta senza bussare. Le particelle rotearono nella lama luminosa che aveva tagliato l’oscurità e si ricomposero in un fantoccio.
«Che c’è?» chiesi, mentre mi osservavo da lontano. Lei si sedette sul letto: «Sono arrivati i risultati delle analisi: è tutto perfetto. Abbiamo escluso un bel po’ di problemi, ma il dottor Iannuzzi mi ha già procurato il numero di un altro specialista che ci aiuterà a capire cosa sta succedendo».
Ma io lo sapevo già: stavo cercando di scomparire.

Anche quella stanza era bianca, solo che al posto del carrello freddo che odorava di disinfettante c’era una libreria, e al posto dell’infermiere c’era una donna in camice con la targhetta «Dott.ssa A. Lanzi». Mi fece tante domande, ma tutto quello ricordo è che risposi controvoglia.
Quella stessa sera l’ombra di mia madre appariva e scompariva nella cornice di luce della porta semiaperta della cucina, parlava al telefono con qualcuno. Erano circa le otto, ma non si sentivano i rumori delle forchette sui piatti. Alle mie orecchie arrivò solo «depressione clinica», insieme a «è troppo giovane, cercano di evitare il prozac». Non sapevo cosa fosse la depressione clinica né il prozac, ma fu subito chiaro che si trattava di qualcosa di brutto. Lo capii dalle gocce di sangue che avevano sostituito gli occhi di mia madre mentre mi parlava di percorsi, di quei cammini che si fanno senza muovere le gambe ma che dovrebbero guidarci verso il luogo sereno che, per qualche ragione, abbiamo lasciato.

E io camminai. Attraversai chilometri di pensieri, scavalcai montagne di paure, vagai per mesi.
«Come stai?» mi chiedevano.
«Meglio».
Allora, la psicoterapeuta sorrideva perché nessuno si sarebbe potuto lamentare del suo lavoro, mia madre sorrideva perché si convinceva che andava tutto bene. A un certo punto smisi anche la terapia.

Ma ora, a distanza di anni, la domanda è la stessa: «Come stai?»
«Bene», dico.
E loro continuano a sorridere: il nuovo psichiatra mi dà la mano e chiude la porta del suo studio, mia madre mi saluta e torna a casa sua.
Io mi disintegro in particelle infinitesimali e resto da qualche parte a guardarle disperdersi nell’aria.

 

 

 


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Valentina Riva
Andrea Capodimonte, Both women head to a white room where blood is drawn in which a red thread fills a small plastic tube…, 2024.