Paterson | di Jim Jarmusch | recensione di Enrico Carli

Genere: commedia
Durata: 113 min.
Cast: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward, Sterling Jerins, Jared Gilman
Paese: USA
Anno: 2016

Paterson è un conducente di autobus di linea che vive a Paterson, omonima città del New Jersey in cui sono vissuti i poeti William Carlos Williams, Allen Ginsberg e Frank O’Hara, ma anche il pugile Rubin “Hurricane” Carter, l’astronauta Mark Polansky e l’anarchico italiano Gaetano Bresci, che tornò in patria per uccidere Re Umberto I di Savoia. Della sua città Paterson ha la semantica del nome iscritta nei geni, è padre e figlio pur non avendo figli e a quanto pare nemmeno genitori in vita. È tale in quanto spirito accorto della comunità: devoto alla compagna, puntuale sul lavoro, generoso, umile. Figlio che raccoglie le migliori virtù di un padre ideale, Paterson (perfettamente in parte Adam Driver, con quella faccia lì, gli enormi piedi e quel modo di camminare) è un uomo che coltiva i semi della poesia su di sé: essere lieve e gentile come un buon verso, custode pater familias delle memorie degli antenati poeti e del calore domestico; e son, figlio americano prescelto che ne incarna gli ideali di rettitudine morale. Come si dice, nomen omen: il destino nel nome.

Non c’è quasi conflitto nel racconto, Paterson è innamorato di Laura – donna bella quanto una poesia non potrà mai essere (l’iraniana Golshifteh Farahani, vista nel bellissimo About Elly di Asghar Farhadi) – e altrettanto affettuosa, gentile, creativa; non appena il suo personaggio sembra fuori fase o superficiale e velleitario, subito la smentita: è capace, davvero innamorata di Paterson, ama le sue poesie e anzi lo sprona a donare a tutti i suoi versi, perché lui è discreto e timido. Nella scansione temporale dei giorni della settimana, il loro rapporto fila via liscio come quello irraccontabile di una famiglia felice.  

Il film di Jarmusch è tutto nella noiosa settimana feriale del protagonista, fatta di piccoli riti quotidiani, conversazioni origliate sull’autobus durante il lavoro, passeggiate col cane e capatine al bar. Scorci di strade pacifiche, sempre illuminate dal sole. E poesie: quelle che scrive Paterson tutto il giorno nella sua mente e che poi trascrive sul taccuino. C’è pure una cascata davanti alla quale ama fermarsi durante la pausa pranzo. All’interno della marmitta, nel coperchio, c’è la foto di Laura, e lo spuntino da lei preparato comprende un dolce con le stesse fantasie a ciambella dell’arredamento e delle tende di casa. La chiusura del cerchio: l’orologio di Paterson apre e determina la sua giornata, il tondo del boccale di birra la chiude.    

Le sue poesie, di cui assistiamo a ogni fase, dall’idea alla stesura finale, non nascondono un’anima inquieta, sono lo specchio interiore di ciò che gli vediamo fare per strada: si offre di fare compagnia a una ragazzina mentre aspetta che la madre scenda da un edificio; dà soldi a un vagabondo; interviene con coraggio nel bel mezzo di un tentato omicidio; ascolta i problemi del collega e le molteplici trovate di Laura, che da ultimo si è messa in testa di comprare una chitarra e diventare cantautrice (l’attrice iraniana è davvero una songwriter). Similmente, i suoi versi sono per l’amata compagna di vita; per un pacchetto di fiammiferi emblema del focolare domestico; per la consistenza tangibile dell’aria in una percezione porosa-molecolare; sulla scoperta della dimensione del tempo e del doppio delle cose: dalle persone (i gemelli che ritornano dal sogno alla realtà) alle situazioni speculari. L’unico conflitto è quello con il cane Marvin, geloso dell’amore della sua padrona per Paterson.

Ma, come ogni ciambella che sia tale, c’è il buco in mezzo. L’inquietudine esistenziale di cui Jarmusch è sempre stato sottile cantore, un vuoto di senso che trova modo di profilarsi nel suo cinema volutamente statico, che come il suo protagonista sembra chiedersi ancora con meno, si può fare poesia ancora con meno. Una scacchiera, un tavolo da bigliardo, un boccale di birra e, sullo stesso piano, le relazioni umane. Cosa farne di ciò?

Annidato da qualche parte anche nelle giornate più miti e nelle persone che sembrano avere ben poco di cui lamentarsi, c’è l’apparente, inutile ricorsività del cerchio, qualcosa che è implicito nell’atto di fare poesia e di filtrare le cose attraverso la loro deposizione in lettera, uno spirito anarchico mai domo, ribelle nei confronti delle etichette: autista, poeta, marito. La volontà di nascondere la propria identità più intima agli occhi del mondo così che il mondo non avrà ragione su di essa.

Il filosofo e critico letterario Benedetto Croce sosteneva che fino a diciott’anni chiunque scrive poesie, e che solo due categorie di persone continuano anche dopo: i poeti, e i cretini. Non sappiamo se le poesie di Paterson abbiano valore al di là del fatto che ne hanno per Laura. Sappiamo che, costellando il film dell’interiorità del suo taciturno protagonista, ci arrivano come le vere emozioni delle sue giornate, autentiche espressioni personali di un mondo sofisticato, altrimenti incomprensibile (ad ogni modo, quasi a voler fugare ogni dubbio sono scritte dal poeta Ron Padgett).

E da alcune carrellate sui libri di Paterson sappiamo che fa buone letture: dall’Infinite Jest di Foster Wallace passando per Melville, il succitato Carlos Williams, come Paterson poeta dal linguaggio semplice e cantore della città, e Wallace Stevens, forse il più metafisico dei grandi poeti americani. Questi sono i padri spirituali di cui è custode e figlio. Ma Paterson potrebbe anche essere un cretino/idiota alla maniera di quello dostoevskiano, più che un buono a nulla un troppo buono. Eccessivamente remissivo nei confronti di una moglie che vuole per lui ciò che egli non sembra desiderare; pronto a perdonare al cane Marvin, come un buon padre, il doloroso dispetto compiuto ai suoi danni. In ogni modo, che egli sia o meno un Poeta maturo, non è questo importante. L’importante, pare dirci Jarmusch, è avere sempre a disposizione un nuovo taccuino, perché se a volte la vita ci fa inaspettatamente dono di ciò che ci occorre, sta comunque ad ognuno di noi tracciare il proprio piano di fuga dal tempo degli altri.