Forme del conflitto ⥀ “Per far vivere altro cadiamo” di Marco Carretta

In virtù delle consonanze con quanto finora avanzato e con quanto si avanzerà in futuro all’interno di questa costellazione, Forme del conflitto accoglie questa nota di lettura del libro Per far vivere altro cadiamo (Industria & Letteratura, 2023) scritta da Matteo Cristiano (l.m.)

 

In un paese come l’Italia, la poesia civile può rivelarsi rischiosa: l’accusa di propaganda, di appropriazione, di banalizzazione, di mancanza di rispetto, di anacronismo. Affrontare, in poesia, tematiche sociali e civili, è rischioso poiché richiama dibattiti e atteggiamenti di cui già si sono evidenziati i limiti (rimando ai Dieci inverni di Fortini), e che, con il suo posizionamento etico e morale, irrita ancor di più l’individuo-atomo della nostra contemporaneità.

La questione della rappresentazione della fabbrica, ad esempio, è un tema che ha avuto una rilevanza importante nel nostro secondo Novecento, ha animato un dibattito interno al mondo intellettuale che ha prodotto opere, testi, discorsi di spessore. Una visita in fabbrica, di Vittorio Sereni, appare per la prima volta sul n. 4 de «il menabò», nel 1961. In quel numero, la discussione «non è quella di verificare se la letteratura è in grado di denunciare e dire lo sfruttamento e l’alienazione, quanto di comprendere se la letteratura è in grado di rappresentare e mostrare lo sfruttamento e l’alienazione»1. La questione posta agli intellettuali da Vittorini nel 1961 sembra oggi una domanda polverosa, stantia, ai più urticante. Può essere così, certamente, e può esserlo perché si sono vissuti degli anni dove il parlare, il rappresentare le storture, le insensatezze e le contraddizioni del presente era, appunto, rischioso, difficile. Tanto più, allora, lo sarà in un mondo ultra-globalizzato, dove le contraddizioni si moltiplicano negli ambienti economici, sociali e culturali. Rappresentare il trauma degli anni ’80, il trauma del G8 di Genova, la tragedia muta quotidiana rischia sempre di essere parziale, vittimistico, moralizzante. Tuttavia, le tematiche legate alla precarietà lavorativa, al cronico travaglio economico dei nuclei familiari e degli individui riscoprono, in questi anni, un’attenzione quanto meno direi gradita. Lo vediamo grazie al volume da poco disponibile in libreria di Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (minimum fax, 2022): quello che cerca di fare Prunetti è, in sintesi, teorizzare una classe lavoratrice2 allargata, rinnovata dalle stratificazioni della contemporaneità, indicando le caratteristiche e strategie della letteratura che la rappresenta. «Uno spettro si aggira nel mondo dell’editoria tra le due sponde dell’Atlantico […]. Questo spettro, evocato di tanto in tanto, continua a battere i colpi e la sua presenza inizia a manifestarsi nel campo letterario, nell’industria editoriale, nella critica dello stato dell’arte»3, così si apre l’introduzione, e in questo spettro mi pare che Carretta ci possa stare, con le sue peculiarità, e vediamo perché.

Non che vi sia la necessità di inserire il libro in una linea o in una categoria, poiché non è questo il luogo per una disamina teorica e di categorizzazione, che mi piacerebbe svolgere altrove; è che questo libro di Carretta assume la forma dello spettro perché tendenzialmente attraversa i muri, di casa, della fabbrica, dell’azienda, della città:

Per capire, esserci
così mio padre ci insegnò
a sei anni
mostrandoci la mesata
nel volto dell’uomo
che svuotava coi nervi il fienile4.

Lo spettro si muove senza farsi notare, si mette accanto, provoca tensioni nell’aria con la sua presenza, ma non si mostra per forza, non per forza deve creare scompiglio. Spesso la forma di critica più funzionale è quella sottile, silenziosa, che rende familiare ciò che si cerca di nascondere e defamiliarizza le sicurezze della quotidianità simbolica. Il libro di Marco Carretta è sottile, delicato, ma non per questo meno grave, meno denso, meno violento. Non si troveranno le urla e i toni dello sdegno, del risentimento, non si trova l’odio di classe e il moto aggressivo che vuole ribaltare le gerarchie: il ribaltamento delle gerarchie avviene implicitamente nel momento in cui l’oggetto poetico, la scena, la rappresentazione, coincide con ciò che non viene tendenzialmente rappresentato, ovvero la precarietà, l’impresa-focolare. In verità, si potrebbero rilevare numerosi collegamenti intertestuali, un lavoro di storia letteraria, parlare di crepuscolarismo, di poetica degli oggetti, di Giudici, di Pagliarani, di Volponi… Anche questo lavoro lo rimandiamo ad uno spazio più ampio, e vediamo, dunque, il libro più da vicino e ciò che lo rende particolare.

Una delle prime considerazioni stilistiche da fare, e chiaramente le considerazioni stilistiche hanno caratura ermeneutica, è la tendenziale dominanza della prima persona plurale, noi: il titolo, il primo verso della prima sezione, l’ultima strofa, la componente comunitaria si svolge lungo tutte e quattro le sezioni, poiché Carretta sa che l’autorappresentazione che l’individuo fa di sé, in un campo sociale determinato come quello «del veneto con la v minuscola»5, è perfettamente estendibile alla media degli individui vicini che, non a caso, sono spesso nominati come figli, cioè quella generazione nata col mito del «cavaliere / del lavoro», della produttività machista berlusconiana a discapito della vita soggettiva semplice e non brandizzata.

Nel gennaio del ’94 ascoltai
un uomo come noi
sicuro del proprio creare.
Costruivano strade per uscire in città.

I nostri figli ormai
seduti anche a questa tavola
raffinati pensieri di facoltà
dissero che il mondo era molto vicino6.

L’insistenza sul tema parentale collabora alla creazione di quell’ambiente familiare, da focolare, in cui si inserisce la quotidianità alienata degli individui dove le leggi dominanti sono «quelle delle braccia»7: sappiamo come, nella immensa provincia del nord Italia, il sistema delle piccole e medie imprese si fondi sulle regole patriarcali di trasmissione dell’arte, del lavoro, di padre (padre che diviene spesso metaforico, poiché il padrone ha convenienza a prendere sotto la propria ala i lavoratori fedeli, per autoconservazione) in figlio, e su questo perno si costruisce la famiglia e la comunità:

Dov’era la nostra terra umida
venne costruita casa
un garage e l’idea del fare, le mani.
Proprio qui diventammo persone8.

Ecco, allora, come Carretta ci permette di entrare dentro le case di tanti e di tante che costituiscono il tessuto sociale di questo nostro Paese iper-produttivo ma che guardando al prodotto finale, al PIL, si perde l’invenzione del quotidiano, la vita delle persone. Carretta riporta ciò che lo Stato si perde, lo fa proprio attraverso la sinergia tra quotidiano e straordinario, tra l’ordinario e il tragico: la seconda sezione è una presa di responsabilità per cui provo stima e che mi fa vedere quanto la poesia possa valere, per tutti, anche per un sistema invisibile come quello statale. «Di quella pioggia infinita / tu devi sapere. / Tu devi sapere»9; questi tre versi faranno parte delle numerose ripetizioni epiche e conative della poesia italiana del Novecento che mi ronzano in mente per la loro potenza, ma questa per me vale di più. Tutta questa poesia risuona con un tono più grave, più epico rispetto alle atmosfere della sezione precedente e successiva. La quarta sezione porta il titolo Mille e ogni anno mille e contiene undici potenti testi che raccontano di quelle morti bianche che più spesso sono strumento di propaganda che vero e proprio oggetto di critica e di riflessione. Undici storie, undici persone, undici fallimenti del nostro sistema produttivo, e dunque, indirettamente, undici fallimenti del nostro sistema statale. E fungono da sineddoche. Rispetto alla prima sezione, Tra gli arnesi le carezze del padre, dove il perno mi pare sia una sorta di eziologia di quella cultura da impresa-focolare di cui si diceva, nella quale, appunto, tra gli arnesi si respira l’odore agrodolce della famiglia (l’imperfetto è quasi narrativo, e l’atmosfera è quasi da Camera da letto di Bertolucci), narrata attraverso quasi delle istantanee (e la forma lo replica, con la ripetizione del pattern strofico delle tre quartine), la seconda sezione allunga il respiro e i testi si fanno anche formalmente più narrativi. Uomini e donne di fabbrica, d’azienda, del caporalato, italiani e stranieri, anche loro con le loro alienate e alienanti azioni quotidiane, familiari, e proprio in questa familiarità si inserisce la tragedia inaudita, mai nominata ma mostrata dallo svolgersi delle scene.

Anni 27, all’ora euro 6
gradi 40.
Sotto il sole tu chinato
calcoli il senso,
noi tutti ti guardiamo
alzare ogni pensiero.
Ti distacchi per vivere e raccogliere.
Pensavi alla vita mentre arrivavi?
Vita questa?
Braccia forti del Mali
inarrestabili vanghe economiche.
Grazie.
Quindi alzandoti
dopo aver chiesto acqua
vedevi il grande melo girare
e i tuoi rami così diversi
su questo campo di pomodori
ora sono le sacre radici del tuo sonno10.

Con il coraggiosissimo «Grazie» del v. 12, che risuona come la colpa nella miseria, come un compatimento.

La tendenza narrativa che abbiamo visto in opera fino ad ora prosegue nel volume, prosegue quel suo manifestare una realtà fatta di «nodi sulle dita e sulle vigne»11], dalla «moka appena spenta»12, di un vicino che «si sporge ad inchiodare / una recinzione improvvisa»13. Qui l’eziologia delle classe che rappresenta Carretta si fa quasi mitica, narra di un mutamento radicale, ancestrale, appunto, sempre in movimento, attraverso questo gioco a due voci tra «un cittadino di periferia e un contadino, senza epoca […]»14, tra l’avanzare della città con i suoi pericoli, le sue convenzioni, le sue invenzioni («Ci parlo e dicono che / qualcosa di grosso è in arrivo / il prete lo racconta bene / la tv ne parla anche adesso»15) e la semplicità delle «fotografie / di famiglie color del grano». Cos’è successo in questo Veneto, in questa provincia italiana dove le necessità dello status hanno sostituito quelle della comunità, lo sappiamo tutti ma non sappiamo dirlo. Marco Carretta lo fa, con quella dose di ambiguità e di ironia che mette in discussione le nostre convenzioni. E dico nostre perché la mia estrazione credo sia simile a quella di Carretta: i miei genitori non sono diplomati, hanno preso la strada della famiglia e del lavoro, con una dose discutibile di consapevolezza. Ma so che il nostro bisogno del «bagno grande per gli amici»16, uno dei tanti bisogni che sono stati costruiti insieme alle periferie e ai resort di campagna, sono bisogni di tutti e che tutti devono disinnescare, hackerare.

Ha ragione Riccardo Frolloni, quando nell’introduzione al volume scrive che quella di Carretta è «una poesia civile, politica ma non ideologica»: manca la fase teorica, mancano i riferimenti all’organizzazione culturale, all’utopia, ai fini e ai mezzi. Ma non è ideologica che vuole essere questa poesia. Essa è perfettamente situata storicamente: parla al presente del presente anche attraverso il passato, e la sua funzione, se nessuno si indigna se parlo di funzione della poesia, è quella di sederti accanto e sfiorarti con le unghie della sopravvivenza, essere il sassolino nella scarpa. È politica nel momento in cui, come sappiamo, decide cosa rappresentare, cosa sottoporre al lettore. Non bisogna però farsi ingannare dalla superficie delicata e opaca di questi testi, di questa poetica. Perché si sentono, le unghie, si sente l’opposizione in questi testi. Si vuole, da una parte, mostrare sì la disillusione di un mondo che non è all’altezza della sua professione di fede, di quella cultura del lavoro che non può più dare quelle soddisfazioni che si sono guadagnati i nostri nonni, costruendo case e garage e officine. Ora il lavoro è solo lavoro, è sopravvivenza, sostentamento. Ma, d’altro canto, ci sono quelle deviazioni dal percorso, quelle strategie personali che fanno della vita degli individui comunque vita, dalla quale si può estrarre la maglia del tessuto che tiene insieme quella comunità di cui si è parlato, queste nostre comunità fuori dal talk di Rai, Mediaset e La7 e che fanno dell’Italia il paese che è, contraddittorio ma dallo spirito impareggiabile. E allo stesso modo, contraddittorio sarà il fatto che Carretta non sia un operaio in sopravvivenza, come confessa con sincerità, che effettivamente lui abbia il tempo di leggerla e di praticarla, la poesia, e anche su questo bisognerà ragionarci. Certo è che Carretta questa cultura tossica del lavoro l’abbia vissuta, ci sia cresciuto dentro arrivando a vederne criticamente i limiti e le assurdità.

Il libro di Marco Carretta non sarà i cassonetti e le vetrine bruciate delle strade delle città francesi di questo 2023, ma sicuramente, in Italia, dove si finge sempre che vada tutto bene, perché così i padri ci hanno insegnato, un libro del genere risuona sull’onda del previlegio della lirica come della poesia di ricerca, scansa sentenze e pretese sul cosa è la poesia e ci riporta con i piedi per terra, fuori dagli show, dalla performance, ci riporta «a fissare la nebbia / e le ombre d’uomo / lavorare cento campi / lì ancor prima del tempo»17.

(Matteo Cristiano)

 


Note

1 M. Tortora, Quando il testo cambia funzione: su Una visita in fabbrica di Vittorio Sereni, in Come circola la poesia nel secondo Novecento. Mappare il campo da vicino e da lontano, a cura di E. Gambaro e S. Ghidinelli, Ronzani, Dueville 2023, p. 64.

2 Si veda la nota 2 alle pp. 15-16 di A. Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, minimum fax, Roma 2022.

3 Ivi, p. 9.

4 M. Carretta, Per far vivere altro cadiamo, Industria&Letteratura, Massa 2023, p. 52.

5 R. Frolloni, Introduzione a M. Carretta, Per far vivere altro cadiamo cit., p. 7.

6 Ivi, p. 20.

7 Ivi, p. 17.

8 Ibidem.

9 Ivi, p. 29.

10 Ivi, p. 32.

11 Ivi, p. 45.

12 Ivi, p. 48.

13 Ivi, p. 51.

14 Ivi, nota dell’autore.

15 Ivi, p. 51.

16 Ivi, p. 63.

17 Ibidem.

 


Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Movimento e stasi di Massimo Palma

Anatema di Rosaria Lo Russo

Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea

Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti

Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava